‘Maîtres à penser’ e ‘influencers’

Nel maggio del 1968, sui muri della Sorbonne, era apparsa una scritta che diceva: «Jamais plus de maîtres». Si trattava di uno slogan antiautoritario e libertario, che però ha finito con l’eccedere ampiamente il suo scopo perché, confondendo “autorevolezza” con “autorità” e, conseguentemente, considerando i “maestri” – e, più in generale, gli intellettuali – una minaccia per la libertà e l’eguaglianza, ha contribuito non poco non soltanto al tragico appiattimento culturale che ha caratterizzato gli anni successivi, ma anche a una devastante omologazione conformista e a una degenerazione demagogica della democrazia.

L’errare di fondo, com’è stato sottolineato da Sabino Cassese, era quello di confondere uguaglianza dei punti di partenza con uguaglianza dei punti di arrivo: il fatto che tutti debbano essere uguali alla partenza non significa che vi sia uguaglianza anche nei punti di arrivo.

In altre parole, non si tratta di cancellare l’élite intellettuale, che costituisce una componente critica essenziale della democrazia, una forza trascinante della vita sociale e politica contro la mediocrità del piatto conformismo, ma di fare in modo che tutti possano accedervi: uguaglianza dei diritti, insomma, non significa uguaglianza delle doti culturali ed eguaglianza dei talenti.

La storia, infatti, insegna che i grandi cambiamenti sociali hanno sempre visto, come protagonisti, intellettuali, portatori – di volta in volta – di diversi saperi: dai sociologi ai giuristi, dai medici agli economisti ecc. Si pensi, ad esempio, alla Costituzione del 1948, alla cui stesura parteciparono, tra gli altri, i grandi maestri del tempo; allo Statuto dei diritti dei lavoratori del 1970 – elaborato da Gino Giugni – che dettava «norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento»; alla riforma del diritto di famiglia del 1975, che ha profondamente innovato la disciplina della famiglia; alla “legge Basaglia” del 1978, che sancì la chiusura dei manicomi, riformando il sistema di cura per il disagio mentale, e segnando una svolta nel mondo dell’assistenza ai pazienti psichiatrici; si pensi, ancora, al contributo degli economisti in occasione delle ricorrenti crisi economiche e per fronteggiare il fenomeno della globalizzazione, e così via.

L’anti-intellettualismo populista dell’«uno vale uno» non riconosce il valore della cultura né della competenza, anzi ha verso di esse un atteggiamento di diffidenza se non di derisione o, addirittura, di ostilità: se uno vale uno significa che l’uno vale l’altro e che quindi non c’è alcuna differenza tra chi è portatore di un sapere o di un saper fare e chi invece è ignorante o incapace a fare.

Il rifiuto della competenza comporta gravi conseguenze per la democrazia. Se all’idraulico, all’elettricista, al geometra, al medico, all’avvocato, all’ingegnere, al giornalista, e così via è richiesto di conoscere un mestiere o una professione, non si vede perché non si debba richiedere un certo grado di preparazione a chi deve svolgere un compito così importante, delicato e impegnativo come quello di rappresentante del popolo o di governante. Tanto più, se si pensa che la Costituzione italiana richiede l’abilitazione per l’esercizio delle professioni (art. 33) e prevede l’accesso agli impieghi pubblici e alla magistratura previo superamento di un concorso (art. 97 e 106).

L’influencer Chiara Ferragni

Certo, al tempo di Internet, quando tutti possono accedere a tutta l’informazione, dove si trova di tutto – tutto ugualmente attendibile o inattendibile a seconda delle convenienze e conformemente alle proprie convinzioni preconcette – può apparire minore il bisogno dei “Maestri di pensiero” e, più in generale, degli intellettuali, visto che, secondo l’illusoria narrazione oggi imperante, Internet ci avrebbe resi tutti eguali, tutti (presunti) “acculturati”, discepoli della Rete.  Sennonché, proprio in questo tempo c’è ancora più bisogno di loro, perché c’è ancora più bisogno di chi sia in grado di mettere ordine nella grande e disordinata quantità delle informazioni e delle opinioni, di fornire le coordinate concettuali per stimolare una coscienza critica e per ragionare con la propria testa. Per fare tutto questo, è necessario che il maestro si rivolga a un pubblico più vasto di quello studentesco o di quello degli “addetti ai lavori”: scrivere anche su quotidiani e riviste non “accademiche”, parlare alla radio o alla televisione, utilizzare all’occorrenza anche i mezzi contemporanei di comunicazione di massa come i social media dev’essere vista come una continuazione dell’attività d’insegnamento.

Oggi, al posto dei maestri, ci sono gli influencers – una nuova figura del marketing digitale, tutti rigorosamente sponsorizzati, ammiccanti, sorridenti, chiassosi, falsamente ribelli, conformisti – quelli che “fanno tendenza” sui “social”, influenzando in modo rilevante le opinioni e gli atteggiamenti di una moltitudine di followers, dettando e assecondando le inclinazioni di massa e le mode attraverso strumenti di persuasione potenti e capillari, esibendo una loro qualche capacità attrattiva.

In questa accezione, la figura dell’influencer è molto vicina a quella del leader d’opinione di cui una schiera di politici, giornalisti, esperti di marketing e di costume si affanna ad analizzare parole e prese di posizione e, spesso, a utilizzarle secondo convenienza.

All’influencer non si chiedono né studi, né lauree, essendo sufficienti dei bei capelli dorati da far luccicare o dei corpi che si distinguono per i molteplici tatuaggi. Eppure, per il suo pubblico non pensante, che non ambisce a diventare né più esperto né più colto, ma che ha una forte inclinazione verso il consumo onnivoro, un posto sicuramente l’ha conquistato perché è lui stesso un bene di consumo, sottoposto alle leggi del mercato virtuale-sociale e perciò con un ciclo vitale paragonabile a quello delle effimere.

L’influencer – come i suoi seguaci – ha solitamente un vocabolario molto limitato, volgare, farcito di goffi neologismi (per lo più mutuati dall’inglese e adattati alla nostra lingua) e di risibili malapropismi: si pensi, ad esempio all’uso di “implementare” per incrementare, di “famigerato” per famoso; di “paventare” per ritenere, credere o supporre; di “reticenza” per resistenza a tenere comportamenti; di “diacronico” per anacronistico ecc.; per non parlare, poi, di strafalcioni come, ad esempio, l’uso errato dell’espressione “piuttosto che” come disgiuntiva invece che come avversativa, o l’uso transitivo del participio “inerente”, e così via. La sub-cultura del nuovo linguaggio, sponsorizzata nei social media, scimmiottata nelle TV generaliste, assorbita dal suo pubblico indifferenziato (soprattutto giovanile, ma non solo), è divenuta pian piano una delle allarmanti caratteristiche della società distopica contemporanea, che si compiace di sentir dire ciò che viene incontro al senso comune che, elevato a verità, rasserena le (in)coscienze che, come sottolinea Gustavo Zagrebelsky, chiedono di non essere disturbate.

L’intellettuale Pier Paolo Pasolini

Questo tipo di società, in cui il linguaggio e la comunicazione pubblica si livellano al basso, superando in banalità, ovvietà, volgarità la media comune e predisponendo a esistenze piatte e omologate, rende più difficile qualsiasi magistero, la cui caratteristica è la riflessione e il dubbi.

È vero che i Maestri non esistono se non ci sono i discepoli, ma è altresì vero che, anche nella nostra malandata società, i discepoli ci sono ancora, anche se sono una minoranza; e – com’è stato ben sottolineato, ancora, da Zagrebelsky – non si tratta di immaginare o auspicare l’avvento di una società elitaria, non si tratta di contrapporre aristocrazia a democrazia, ma si tratta di contrapporre democrazia critica a democrazia acritica, di contrapporre cioè una democrazia che pone sé stessa sempre in discussione, dove i maestri sono una necessità, a una democrazia che afferma indiscutibili certezze e considera il dubbio un inutile fastidio, compiacendosi di sentir dire da “falsi maestri” ciò che viene incontro al senso comune.

Bruno Troisi

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Bruno Troisi
L’avvocato Bruno Troisi già Professore Ordinario di Diritto civile presso la Facolta di Giurisprudenza di Cagliari è stato tra l’altro Direttore del Dipartimento di Scienze giuridiche della stessa Università. E’ autore di numerose pubblicazioni anche monografiche e ha contribuito per alcune voci enciclopediche. Oggi è componente scientifico della Rassegna di Diritto Civile diretta a Pietro Perlingieri.

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