Lo stallo della politica italiana.

Il Covid 19 ci ha fermati per tre mesi, una circostanza che alcuni hanno preso finanche bene, sottolineando il maggior tempo dedicato alla propria famiglia, considerando altresì questa stasi un’occasione per riflettere su se stessi, per riscoprire in rete o nelle proprie librerie, il gusto della conoscenza, della lettura, dell’ascolto e visione di opere e film.

Viceversa, questa pausa non ha  giovato alla politica italiana, che appare più che mai in crisi, anche peggio di come l’avevamo lasciata prima dell’arrivo del coronavirus.

Malgrado il positivo clima europeo di autocritica per l’eccesso di rigorismo economico e le aperture con il Mes e gli sforzi di Macron e Merkel per raggiungere finalmente il Recovery Fund, con i suoi corposi finanziamenti specie per i paesi europei (come il nostro) più colpiti dalla pandemia, la politica nostrana neanche innanzi a questa prospettiva di rilancio, sembra scuotersi.

Nelle more c’è stata l’impresa emblematica del ponte di Genova e di Piano messo su in tempi record, ma neanche la realizzazione di quest’opera, che ben avrebbe potuto assurgere a simbolo di una riscossa italiana, è servita. Resta lo stallo politico, il vuoto di prospettive (e di speranze), che non sembra aprire il paese a nuove ed innovative risposte per il futuro, anche il più prossimo. Diversamente da quanto accadde nel secondo dopoguerra, il paese è depresso, sfiduciato, la comunità resta esangue, non sembra ritrovare più alcuno slancio per la propria rinascita.

Questo stallo disegna tutto il malessere di una società e di una politica in cui tutti o quasi i soggetti non sono immuni da colpe e responsabilità.
Alla base di ciò, ci sono numerosi equivoci e diverse ipocrisie. Il nostro è un sistema politico non chiaro, dove i cittadini, alla prospettiva di un cambiamento radicale del sistema, proposto con l’ultimo tentativo di riforma costituzionale che prevedeva il maggioritario e l’abolizione, ad esempio, del Senato e maggiori semplificazioni per l’apparato legislativo, hanno preferito il ritorno al passato che oggi si ripropone con l’ennesima modifica del sistema elettorale in favore di un sistema proporzionale puro  che garantisce una forse non conveniente frammentazione del quadro politico e al contempo un pluralismo spinto delle rappresentanze.

Tuttavia, il no al maggioritario e il sì al proporzionale non hanno modificato la sostanza delle attuali strutture di partito (il proporzionale comporterebbe una massiccia partecipazione politica dei cittadini, cosa che c’era ai tempi della prima repubblica e che oggi non c’è e una strutturazione partitica molto più elaborata, dialettica e complessa), per cui i partiti continuano e continueranno a comunicare e ad agire come fossero in un sistema maggioritario, con un leader che di fatto detta la linea a tutta la propria organizzazione. Ultimo esempio in tal senso il PD di Zingaretti che, dopo aver sancito con voto unanime della propria assemblea nazionale, la giusta fine del sostegno economico ai carnefici della Libia sulla questione immigrazione, in considerazione dei troppi crimini commessi con torture, soprusi e detenzioni degli immigrati in centri che Papa Francesco ha definito lager, ma poi, lo stesso PD non ha esitato, senza dare alcun valore a quel voto unanime, a rinnovare, per compiacere l’alleato a 5 Stelle, la sovvenzione con denaro pubblico a quegli stessi aguzzini, autori di tante nefandezze.

Molto per l’Italia si decide in Europa.

Uno stallo senza una ragion di Stato, dove non ci sono più principi e valori etici che ispirino le mosse delle forze politiche, dove appaiono dimenticati finanche i valori fondanti della nostra Costituzione, quei valori di solidarietà, di pace che erano la stella polare della nostra comunità. È proprio la perdita di senso della comunità il dato inquietante di questo stallo. Non solo la perdita di identità nazionale eterno ed irrisolto tema italiano, ma finanche la contrapposizione tra poteri centrale e periferici, come nel caso della pandemia dove si sono riviste le storiche divisioni tra nord e sud e finanche tra regione e regione. Un tutti contro tutti che non risparmia nemmeno gli alleati di coalizione od opposizione. Un governo sempre più fragile ed un’opposizione (la destra) dove in ogni occasione come anche sul Mes, vi sono distinguo e anche forti critiche e reciproche pressioni. Una guerra sul vuoto di idee, principi e valori che rischia di disintegrare la già fragile società italiana.

Nelle nostre comunità la politica è il grande assente. La gente ormai mostra un totale disinteresse verso i giochi di palazzo che riempiono quotidianamente l’informazione e i talk show televisivi. Fa finanche sorridere la protervia con cui lo stesso Zingaretti sui social annuncia che il PD si appresterebbe ad essere il primo partito d’Italia. Un’Italia in cui la metà della popolazione non vota più (fotografia della perdita di senso di comunità) e l’altra metà piroetta il proprio voto ai partiti in modo del tutto poco convinto, creando fluttuazioni vertiginose nei propri orientamenti e nel quadro politico nazionale.

Alla base di tutto ciò, c’è una politica che non è più al passo dei tempi, che non produce più progetti per la società del domani e che è quindi priva di visione, di respiro, mantenuta in piedi solo dal contingente. A destra e a sinistra non si conosce un piano chiaro di politiche industriale, sono vaghe e contraddittorie le proposte per un rilancio delle infrastrutture. Si naviga a vista e sempre sull’emergenza per il lavoro e per le scuole, non essendo stati capaci nemmeno di predisporre, per queste ultime, un piano per le strutture scolastiche che sono da rigenerare, magari sfruttando la lunga pausa dovuta al Covid. Il vero tema è arrivare all’anno prossimo, quella è la vera partita, ossia: l’elezione del nuovo capo dello Stato, perché alla fine, piaccia o no, la storia cammina ed oggi, con buona pace del ritorno al proporzionale, il Presidente della Repubblica si è conquistato un ruolo e un peso ben diverso e superiore (e con la stessa Costituzione) di quella dei suoi predecessori della prima Repubblica. Peraltro, per chi guarda a sinistra quella data è fatidica perché se oggi appare, più di ieri, importante un sistema democratico con pesi e contrappesi è del tutto evidente che elezioni anticipate in questo momento significherebbero una destra a trazione Salvini-Meloni al potere e che quindi avremmo il “loro” presidente della repubblica. Una tempesta perfetta e probabilmente lunghissima, visto che la futura opposizione di sinistra si presenta divisa, a corto di idee ed incapace di una coerente strategia politica.

I 5 stelle, sono divisi su tutto (finanche sul loro candidato alle regionali in Liguria) e il PD, con buona pace di chi invoca i propri valori storici (penso ad esempio a Cuperlo), non è capace di mantenere un minimo di linearità, un briciolo di coerenza. È l’immagine esatta di quella vecchia sinistra che ha stroncato abilmente ogni aspirazione al rinnovamento, liquidando prima Veltroni e poi Renzi per perpetrare solo sé stessa. Un contenitore svuotato di ogni identità ed incapace di assumerne di nuove e progressiste, come il passaggio da socialista o comunista a democratico avrebbe richiesto.

Il populismo grillino un’identità chiara non l’ha mai avuta, il suo come dal versante opposto quello di Salvini è un rincorrere i gusti e i favori volubili di un popolo non coeso, disorientato, che non ha visione politica ma che la richiede proprio ad una politica che ad oggi nel suo stallo è incapace di dare risposte.

Il Caso Benetton e autostrade è emblematico, nel loro furore giacobino, all’indomani del crollo del ponte Morandi gli M5S invocarono la decapitazione di Benetton, e della sua società, dalla gestione delle autostrade italiane, una scelta che raccolse subito i favori dell’indignata, irrazionale  e addolorata popolazione. Oggi, con mille compromessi, ci si è liberati dell’imprenditore senza avere nessuna idea precisa di chi, come e quando subentrerà in un settore chiave per il funzionamento della nostra economia. Il Sole 24 ore sostiene che pagheremo di più di pedaggio e soprattutto l’intervento pubblico e di imprese straniere (cinesi, francesi e tedesche) siamo certi che potrà garantire quella manutenzione e quei lavori che, pur tra tante critiche, la vecchia gestione realizzava?

Si è voluto colpire Benetton, imprenditore che con Illy (che fu il sindaco DS di Trieste), Colannino della Piaggio, Farinetti ed altri sono stati esponenti di quel capitalismo progressista e liberale che si ispirava ai De Benedetti e prima a Olivetti e che erano stati fiori all’occhiello di una sinistra per immaginare nuove e diverse forme di sviluppo economico. Orbene il PD ha abbandonato anche questa idea d’impresa moderna e “progressista” pur di compiacere M5S che in quegli imprenditori vedono una vicinanza al PD che fu, quello di Veltroni e poi Renzi, per loro il male assoluto, perché essi sono i veri avversari tenaci di ogni populismo e quindi i loro avversari principali.

Eppure come sulla Libia anche su Benetton e Autostrade il PD di Zingaretti aveva avuto parole nette e chiare, parole poi finite al vento quando ci si è ritrovati a fare i conti con i soliti giochini politici.

A destra, ma il discorso varrebbe anche per chi a sinistra auspica una “mossa del cavallo”, come direbbe Renzi con il suo ultimo libro, Berlusconi e Forza Italia sono in sofferenza. La vulgata, ancora una volta sollecitata dai maggiori talk show televisivi, vuole che ci sia la fine del centro (ovvero del moderatismo) in Italia e che l’unica contesa sarebbe tra la destra di Salvini e Meloni, che bene o male una loro identità (piaccia o no) ce l’hanno e una sinistra che, viceversa questa identità sembra, specie dopo la scissione di Italia Viva, averla definitivamente persa.
La mina vagante Conte (con chi sta? Con M5S? con il PD? Farà un suo partito alla Monti?) vorrebbe mettere il vestito buono da moderato, perché sembra evidente che, nella congiuntura attuale, tra crisi economica devastante e pandemia ancora viva, un po’ di moderatismo non guasta ed arriva anche a flirtare con Berlusconi, che volentieri vorrebbe sottrarsi alla morsa dei suoi due soci di maggioranza (vedete il sistema è proporzionale, ma si ragiona come se ci fosse un maggioritario di coalizione), ma che è consapevole che non ha garanzie dal governo per questo suo strappo e che alla fine lo stesso potrebbe essergli definitivamente fatale.

Uno stallo contro cui insorge Matteo Renzi ed Italia Viva con proposte coraggiose ma prive di audience o non raccolte dai cittadini se è vero che nei sondaggi, la sinistra moderna di Italia Viva è accreditata solo di uno striminzito 2,8% dei consensi. Nel suo ultimo libro, Renzi dimostra ancora una volta la sua capacità di analisi e anche di avere perlomeno le idee chiare: “Servono cantieri realmente aperti, non sussidi gentilmente concessi. Nella grande sfida tra una visione assistenzialista dello Stato e una liberale, la vera differenza sta tra pensare di poter superare l’arretratezza del Mezzogiorno con un sussidio che continua a tenere legato il cittadino al potente (…) e provare invece a rompere il piagnisteo vittimista non soltanto con un grande investimento neokeynesiano, ma mettendo in gioco provvedimenti creativi per individuare nuovi strumenti europei – ed aggiunge – Fuor di metafora per vincere la sfida della povertà serve più il ponte sullo stretto che il reddito di emergenza”. Parole forti, anche provocatorie ma che sottintendono una visione diversa dal trito assistenzialismo dei populisti e della vecchia sinistra. E sempre sulle opere, l’ex premier aggiunge: “L’estensione dell’alta velocità al Sud è una priorità assoluta dei governi a venire, perché combattere le diseguaglianze territoriali è importante almeno quanto combattere le diseguaglianze di redditi”.

Finanche sull’immigrazione oggi appare molto più avanzata la sinistra di Italia Viva che quella contraddittoria del PD, che predica bene ma razzola male. Sul punto Renzi scrive coerentemente a quando fu presidente del consiglio e la sua coerenza gli costò moltissimo: “L’Italia vince solo se si apre al mondo; un’Italia chiusa e ripiegata su se stessa diventa sterile e arida, e va incontro a un declino ineluttabile. L’Italia che accoglie e si propone alla realtà globale ha un futuro e, sia detto senza alcuna intenzione provocatoria, è anche l’unica ad avere un vero passato. Non si tratta di immaginare chissà quale avvenire, ma è sufficiente rispettare l’insegnamento della storia, e cioè che il nostro paese è diventato grande quando ha colto le occasioni offerte da una società capace di dialogare con gli altri paesi e contaminarsi, dall’impero romano al Rinascimento. (…) L’Italia ha dunque un futuro se rifiuta il nazionalismo e accetta la globalizzazione come sfida, diffondendo i propri prodotti, i propri valori, i propri ideali”.

Parole forse giuste quanto inascoltate ed oggi assistiamo ad una sinistra che lascia in mare gli immigrati, senza neanche il conforto della visita di qualche intellettuale organico ad essa, perché il popolo non li vuole e poi si fa il segno della croce e dice Amen.
Questa politica da destra a sinistra è diventata incapace di farsi ascoltare e si illude di avere consenso se si limita ad ascoltare la pancia di un popolo sempre più stremato, impaurito ed impoverito non solo economicamente ma anche culturalmente, socialmente. Forse è proprio per questo che in tanti hanno pensato, in modo un po’ medievale, che il Covid era l’occasione per rinchiudersi tra le proprie mura a cercare conforto in quello che resta…la famiglia.

Nicola Guarino

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Nicola Guarino
Nicola Guarino, nato ad Avellino nel 1958, ma sin dall’infanzia ha vissuto a Napoli. Giornalista, già collaboratore de L'Unità e della rivista Nord/Sud, avvocato, direttore di festival cinematografici ed esperto di linguaggio cinematografico. Oggi insegna alla Sorbona presso la facoltà di lingua e letteratura, fa parte del dipartimento di filologia romanza presso l'Università di Parigi 12 a Créteil. Attualmente vive a Parigi. E’ socio fondatore di Altritaliani.

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