Da Tirana si va verso sud a rotta di collo, per strade vertiginose. Come quelle di ciottoli di Gjirokastër (Argitocastro, in trascrizione italiana), la «città di pietra» e «la più ripida del mondo» come la definisce Ismail Kadare (uno dei più celebri scrittori albanesi) che vi è nato.
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La città è dominata dalla fortezza da cui (secondo una vecchia leggenda) la principessa Argjiro si gettò con il figlio in braccio, nel XV secolo, per non farsi catturare dagli Ottomani. C’è un piccolo aereo militare americano, catturato negli anni Cinquanta. Il pilota disse di aver sbagliato rotta: cercava Napoli e aveva trovato l’Albania.
Gjirokastër è un luogo meraviglioso: strade di pietra ritte verso il cielo, montagne alte e silenziose tutt’attorno. Anzi, sarebbe, meraviglioso. Se non fosse imprigionato nella morsa del periodo di punta (agosto) di un turismo vorace. (A cui anche io contribuisco, intendiamoci). La città vecchia, quella di cui parla Kadare, è trasformata in un mercatino di cianfrusaglie turistiche e baretti alla moda con musica a tutto volume. Girano solo frotte di turisti annoiatissimi, coppie che non si sopportano più (yesterday / love was such an easy game to play), famiglie sull’orlo di crisi di nervi, ragazzaglia in libera uscita. (Diman tristezza e noia recheran l’ore, ed al travaglio usato ciascuno in suo pensier farà ritorno, dice Leopardi; probabilmente l’odierno turismo obbligatorio è stato creato per far sembrare più accettabile l’eterna schiavitù del lavoro). In mano al turismo organizzato tutto diventa falso, anche (o soprattutto) ciò che è vero. Nel senso (come diceva Guy Debord) che la realtà è sostituita dalla sua rappresentazione.
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Ma basta uscire dalla città di pochi chilometri per ritrovare la vita: una campagna western che sprofonda in un lago, incastonata tra montagne immutabili nell’eternità. Un pastore governa le pecore urlando nel telefonino; la sua conversazione rimbomba nella luce declinante del pomeriggio. Arrancano stanchi ronzini sulle salite, tra gli alberi. Lungo la strada, vecchi cani, fedeli al duro impegno, inseguono le rarissime automobili, abbaiando. Ragazzi ridono seduti per terra. I bar modaioli del turismo, o i cartelli che invitano alla «Gjirokastër experience» ora sono già un ricordo lontano.
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Dalla città più ripida del mondo si parte verso la costa meridionale, a un passo dalla Grecia. La strada viaggia altissima, su montagne a strapiombo sul mare, poi ridiscende in picchiata. Nei miei sogni, questa parte dell’Albania affiorava talvolta, come un luogo dimenticato da tutti (anche da Dio, certo. Credo che Dio sia talvolta, come un po’ tutti, smemorato). Sempre nei miei sogni, era fatto di spiagge solitarie e sabbiose (con lunghe enigmatiche ragazze, silenziose e svestite, a prendere il sole). Di strade di terra battuta con chioschi abbandonati, una lettera che il vento sta portando via.
Ma ora, nelle località costiere del sud non trovo tracce del mio sogno. Se non forse nei bellissimi villaggi collinari, dove anziani immobili guardano fuori dalla finestra. Sulla costa, trovo file di automobili e cemento. Impossibile avvicinarsi a Butrint, celebre sito archeologico. A Ksamil, a Himare trovo passeggiate sul mare piene di musica, uomini e donne, piroscafi e bandiere. Il mare è dietro le file di ombrelloni. Ci sono automobili parcheggiate praticamente sulla spiaggia. E ovunque edifici in costruzione, che talvolta somigliano a cantieri abbandonati. “Case non ancora finite e già in rovina”, scriveva (nell’Italia degli anni Cinquanta) il poeta Roberto Roversi: “cresciute sul dorso di un pendio, / senza radici, forsennate al cielo”.
Sapevo già quello che avrei trovato qui.
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(Maurizio Puppo, 6 agosto 2023)
LINK alla cronaca 1: I fantasmi di Tirana (rubrica Italiani in giro)