Un anno fa il settimanale The Economist pubblicava una copertina con le parole “The World in 2021” e il disegno di una slot machine in cui, disposte sulle quattro colonne verticali dello schermo, comparivano le immagini destinate a caratterizzare l’anno allora nuovo e oggi vecchio : il vaccino e la mascherina, il simbolo del Covid e quello del dollaro, la bandiera cinese e quella degli Stati Uniti (spezzata in due dalle conseguenze del duello presidenziale del novembre 2020), il simbolo del riscaldamento climatico e quello delle armi nucleari, la faccia sorridente di Biden e i grafici dell’economia, il logo delle videoconferenze zoom e i punti interrogativi.
Un anno dopo, i punti interrogativi restano, anche se alcune risposte sono arrivate. Il problema è che quelle risposte contengono il seme della contraddizione. Ci sono tante nuvole all’orizzonte, ma non sappiamo se sono cariche di pioggia o se scompariranno senza lasciare traccia. Le cose vanno meglio, ma l’avvenire resta avvolto nei dubbi. Una nebbia che rimane densa, fastidiosa e anche pericolosa. Il 2022 inizia mentre gli Stati, le istituzioni internazionali e anche le singole persone continuano, appunto, a essere piloti nella nebbia di un futuro condizionato dai corsi e dai ricorsi, dai colpi e dai contraccolpi, dalle mutazioni e dalla reazione a catena di conseguenze della malattia che ormai da due anni condiziona la nostra vita. Anche nel 2022 dovremo coabitare col maledetto Covid.
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Comunque qualche raggio di sole l’abbiamo visto e continuiamo a vederlo. Nel 2021 l’economia, le Borse e l’occupazione sono andate bene ; persino meglio del previsto. «La grande corsa di Piazza Affari», titola Il Sole 24 Ore il 14 novembre. «L’emploi salarié dépasse largement son niveau d’avant-crise», annuncia con grande risalto Le Figaro del 9 dicembre. Le cose vanno meglio per tutti, ma in questo dicembre 2021 gli italiani pensano che il loro «meglio» sia ancora «migliore» di quello degli altri.
Stavolta la copertina di fine anno dell’Economist entusiasma il popolo della Penisola, visto che proclama l’Italia «Paese dell’anno». Il Giornale radio Rai festeggia la notizia sulle note bianco-rosso-verdi della più conosciuta melodia patriottica: « Lasciatemi cantare con la chitarra in mano. Lasciatemi cantare : sono un italiano ! Buongiorno Italia, gli spaghetti al dente, e un partigiano come presidente. Lasciatemi cantare perché ne sono fiero : sono un italiano, un italiano vero. Buongiorno Italia col caffè ristretto, le calze nuove nel primo cassetto. Con la bandiera in tintoria e una Seicento giù di carrozzeria ! Buongiorno Italia, Buongiorno Maria, con gli occhi pieni di malinconia ! » [Vedi QUI]
La malinconia c’è, senz’ombra di dubbio. Soprattutto in questi giorni sotto l’albero di Natale. Malinconia pensando a feste d’altri tempi, quando cappone non faceva rima con tampone. Quest’Italia fine 2021 cammina sulle due gambe della malinconia e dell’ottimismo. Speriamo non inciampi.
Gli italiani sanno che la parola ottimismo va sempre declinata facendo scongiuri, come dimostra l’esperienza di quel quotidiano che un paio d’anni fa pubblicò una pagina dominata del titolo Ecco le stelle per il 2020. Un libro con le indicazioni dell’astrologo Paolo Fox: «Saremo tutti più ottimisti». Qualcuno ci suggeriva di star sereni alla vigilia del 2020: meglio non dimenticarci la lezione. Comunque fare scongiuri non costa niente. Essere superstiziosi è da ignoranti, ma non esserlo porta male, diceva Eduardo De Filippo. Suo fratello Peppino ha ironizzato tanti anni fa (Vedi QUI) sulle italiche superstizioni rendendo popolarissimo dal teleschermo Rai il personaggio di Pappagone, sempre pronto a ingraziarsi l’avvenire col gesto di «corna e bicorna». Fatto il suo particolare esorcismo, Peppino De Filippo pronunciava quasi come in una liturgia propiziatoria la frase Mi sento meglio ! (vi segnalo tra parentesi che in questo dicembre 2021 esce il film di Sergio Rubini I fratelli De Filippo, dedicato appunto ai grandi Eduardo, Titina e Peppino).
Qualche scongiuro possiamo quindi concedercelo, soprattutto quando leggiamo o sentiamo la parola «ottimismo», che sembra fatta apposta per metterci in guardia e pure in ansia. L’attuale ottimismo in economia si accompagna a tanti punti interrogativi sulla ripresa internazionale, sui prezzi delle materie prime, sull’inflazione, sulla coesione della zona euro e sul «patto di stabilità». Il ritorno verso un’interpretazione più rigida di quest’ultimo metterebbe in difficoltà il fianco meridionale dell’Eurozona, Italia e Francia comprese.
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In meno di due anni, il Covid ha provocato la morte di oltre 135 mila persone in Italia (per l’esattezza 135.301 al 16 dicembre 2021) e oltre 122 mila in Francia (122.156 alla stessa data). Il primo giorno dell’anno 2021 il conto ufficiale dei morti di Covid era arrivato a 74.621 in Italia e a 64.765 in Francia. Il numero delle vittime nell’insieme del 2021 in questi due Paesi è dunque sullo stesso, spaventoso, ordine di grandezza di quello registrato nell’insieme del 2020. Senza i vaccini, quella macabra aritmetica sarebbe senza dubbio molto più grave. Per rendersene conto basta osservare l’incidenza dei non vaccinati sul totale dei morti e dei ricoverati. Intervistato dal Corriere della Sera (9 dicembre), il governatore del Veneto Luca Zaia, che si basa sulla situazione sanitaria della sua regione, dice : « L’efficacia dei vaccini è palpabile. Oggi un vaccinato ha 6,8 volte in meno la possibilità di infettarsi e 8 volte in meno la possibilità di essere ricoverato. Da noi i pazienti ricoverati in terapia intensiva sono per l’83 per cento non vaccinati, e il 53 per cento di quelli in corsia. E si badi : i non vaccinati sono soltanto il 14 per cento della popolazione ». È davvero triste constatare come molte persone (parlo di quelle in buona fede, che vanno capite per essere convinte ; non degli sciacalli che hanno cercato di usare la comune disgrazia a vantaggio della loro propaganda) abbiano dubitato di quell’evidenza scientifica, che vede oggi i vaccini (oltre cento milioni di dosi inoculate in Italia nel 2021) proteggerci dalle forme gravi della malattia. Proteggerci non al cento per cento, questo è chiaro. Ma comunque in modo significativo. Dove saremmo senza Pfizer e i suoi fratelli ? I nostri vaccini hanno funzionato e i governi (certi governi) hanno avuto ragione nell’esercitare pressioni sulla popolazione perché andasse a farsi punzecchiare. Qualche sbaglio sarà pure stato commesso, ma il 2021 si chiude con la constatazione che le scelte sui vaccini e sulle misure anti-pandemia compiute in Italia e in Francia erano sostanzialmente quelle giuste. Il governo di Mario Draghi ha il merito d’aver guidato una lotta efficace contro un pericolo che avrebbe potuto essere ancor più letale. In questo dicembre 2021 è naturale che tutti i leaders mondiali si preoccupino della situazione sanitaria : «Per i non vaccinati si preannuncia un inverno di malattie severe e di morte», arriva da affermare il presidente Biden.
Detto questo, ciascuno di noi è libero di esprimere dubbi su qualche specifica decisione presa a livello nazionale o internazionale. Personalmente sono perplesso di fronte alla scelta del governo italiano di imporre, a partire dal 16 dicembre e fino al termine del mese, il tampone anche ai vaccinati, che per queste feste di fine anno entrano nella Penisola da altri Paesi dell’area Schengen (persone che in moltissimi casi sono esse stesse di nazionalità italiana). Presa senza dubbio con buone intenzioni, questa decisione rischia di creare danni collaterali, alimentando le perplessità verso l’Europa oltre che verso i vaccini. Certo la salute è una priorità assoluta, ma allora si dovrebbero erigere dighe (sotto forma di tamponi obbligatori) anche a chi viaggia all’interno degli Stati, visto che c’è una grandissima differenza nel numero dei contagi tra le varie regioni. Scaricare i problemi sui confini nazionali può forse rassicurare opinioni pubbliche convinte che il pericolo venga sempre dall’esterno, ma questo non aiuta a trovare vere soluzioni. Nel 2021 ci sono stati meno morti di Covid in Francia che in Italia e alla metà di questo dicembre la diffusione della nuova variante sudafricana è più o meno la stessa (ancora scarsa) nei due Paesi. Era proprio indispensabile imporre il tampone ai francesi (e agli italiani residenti in Francia) il cui « green-pass » attesta tre dosi di vaccino già effettuate? Il governo italiano ha risposto affermativamente a questa domanda e altri in Europa hanno seguito il suo esempio. Io mi tengo i miei dubbi, con la speranza che siano esagerati. Intanto prendo, come voi, appuntamento per farmi infilare il penetrante aggeggio nel nasino che mi sono rotto sessant’anni fa, prendendo una pedata mentre cercavo di rifilarne un’altra al pallone. Bei tempi !
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Quando è esploso il Covid, il «sistema Schengen» era già in difficoltà perché alcuni Paesi non gradivano la presenza di altri membri dell’UE all’interno di questo meccanismo (ricordo che Schengen è stato inizialmente il frutto della collaborazione tra cinque dei sei Paesi fondatori dell’Unione europea : tutti tranne l’Italia, che è stata ammessa solo in un secondo tempo ; mi torna in mente la conferenza stampa parigina con cui l’allora Guardasigilli Claudio Martelli annunciò l’ingresso di Roma in quel dispositivo). Oggi c’è il rischio di un ridimensionamento di Schengen, magari con la creazione di un sistema a due velocità : nessun controllo sul Reno, ma tanti poliziotti su Alpi e Pirenei. L’idea alla base di Schengen, la libera circolazione dei cittadini attraverso le frontiere, è una bandiera per l’integrazione europea, che non può ridursi a un (pur importantissimo) processo d’unione economica e finanziaria.
A tutto questo pensavo nel pomeriggio del 9 dicembre, ascoltando il presidente Emmanuel Macron (le cui lunghe dirette radiotelevisive sono ormai un appuntamento immancabile del palinsesto francese). Il presidente ha presentato il programma del semestre (dal primo gennaio al 30 giugno 2022) in cui Parigi sarà al timone dell’Europa comunitaria. Siccome in un’Europa a 27 le presidenze di turno non capitano che una volta ogni tredici anni, siccome la Francia non si considera un Paese come gli altri e siccome il 2022 non è un anno come gli altri (c’è il Covid e c’è il rinnovo del contratto d’affitto all’Eliseo) il prossimo semestre avrà un’importanza tutta particolare.
Le elezioni presidenziali francesi, in calendario per le domeniche 10 e 24 aprile, non vedranno quasi certamente (per quanto si possa essere certi nelle previsioni politiche) il vecchio duello destra-sinistra. Oggi la sinistra francese è in pezzi a livello nazionale, pur essendo ancora forte sul piano locale (Parigi, Marsiglia, Lione, Lilla, Bordeaux, Grenoble e tante altre città sono guidate da sindaci socialisti o ecologisti). Ci sono state primarie all’interno del movimento ambientalista, ma non nell’insieme della Gauche. Con circa un quarto dei voti al primo turno, Macron dovrebbe arrivare alla sfida finale, che dovrebbe comunque opporlo a un candidato (meglio dire a una candidata) della destra neogollista o della destra neolepenista. La probabile sfidante di Macron sarà Marine Le Pen, leader de Rassemblement National, o la presidente della regione parigina Valérie Pécresse, che a inizio dicembre ha vinto le primarie tra i membri del partito neogollista dei Républicains. Chiunque sia, la rivale di Macron al secondo turno baserà la propria campagna sui temi della sicurezza, della lotta all’immigrazione, del rafforzamento delle frontiere e di slogans nostalgici del tipo « restituire alla Francia il suo ruolo di potenza ». È da lì (molto più che dalle tematiche economiche e sociali) che verrà la sfida a Macron. È dunque su quei terreni che l’attuale presidente deve preparare le proprie difese e, se possibile, il proprio contrattacco. Lo sta già facendo.
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Eccoci dunque ai tre interventi radiotelevisivi del loquace Macron in questo dicembre 2021. Non disponendo di doti divinatorie evito di commentare il terzo di questi discorsi (i tradizionali auguri di San Silvestro). Il secondo, la conversazione di un paio d’ore con due giornalisti andata in onda il 15 dicembre sui due canali del gruppo Bouygues (cemento, tv, telefonìa mobile), è stata un catalogo di cose fatte e di nuove promesse, senza annunci di particolare rilievo. Macron, che non è ancora ufficialmente candidato, ha comunque pronunciato parole che lasciano ben pochi dubbi sul suo desiderio di restare all’Eliseo : «On ne transforme pas un pays en cinq ans !». A dire il vero, anche dieci potrebbero non bastare, ma questo è un altro discorso. L’intervento presidenziale del 9 dicembre è stato invece molto interessante. Macron ha scelto di cominciare proprio dall’immigrazione, annunciando in quest’ottica (ottica di controlli e di sicurezza) l’intenzione di utilizzare il suo semestre europeo per «riformare Schengen». Riformare per favorire o per limitare la libertà di circolazione ? Staremo a vedere. Per adesso Macron insiste in primo luogo sul rafforzamento delle frontiere esterne dell’Unione, ma resta il fatto che – in assenza di una vera politica per la ridistribuzione dei migranti – i Paesi di prima accoglienza continueranno a portare sulle proprie spalle il peso del flusso proveniente in particolare dal continente africano.
Macron ha cominciato la parte più politica del suo discorso con queste parole: « La prima priorità di questa presidenza è un’Europa più sovrana. Un’Europa sovrana è prima di tutto – e questo è il primo aspetto per me – un’Europa capace di controllare le sue frontiere … Proteggere le nostre frontiere è una condizione essenziale per garantire la sicurezza degli europei, per raccogliere la sfida migratoria ed evitare i drammi che abbiamo vissuto, le situazioni di alta tensione che abbiamo vissuto”. Macron ha poi insistito sul fatto che bisogna “evitare abusi sul diritto d’asilo” e ha – semmai le sue intenzioni non fossero chiare – ha detto: “Occorre assolutamente trovare un’Europa che sappia proteggere le sue frontiere; ecco perché, sotto questa presidenza, avvieremo una riforma dello spazio Schengen”.
Ed ecco come Macron illustra il primo elemento attorno a cui deve ruotare, secondo la Francia, la riforma di Schengen: “Vogliamo creare un’organizzazione politica e una guida di questo spazio Schengen attraverso riunioni regolari dei ministri responsabili di queste questioni. È effettivamente una questione di credibilità europea, e in particolare di coloro che si sono impegnati in questa cooperazione rafforzata che è Schengen, poter avere riunioni regolari, prendere decisioni politiche, poter rafforzare i controlli alle frontiere e avere una politica coerente di controllo delle nostre frontiere esterne. Questo è il presupposto per la libera circolazione all’interno di Schengen”. La frase fondamentale è quest’ultima: se le cose non andranno come Parigi auspica, Schengen stessa sarà messa in causa.
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Molto del bilancio della presidenza francese dell’Unione dipenderà dal rapporto franco-tedesco, che resta centrale anche in una fase in cui il dialogo Parigi-Roma è particolarmente intenso e proficuo. La Germania termina il 2021 mentre attraversa un momento di grande difficoltà sul piano dell’emergenza sanitaria. I cugini tedeschi pagano il prezzo delle loro passate leggerezze di fronte al Covid, che nella prima fase aveva colpito il loro territorio in modo meno grave rispetto ad altre parti dell’Europa. Anche in Germania sono state roventi le polemiche a proposito della campagna vaccinale. Incalzata dall’atteggiamento di una deputata «no-vax» di estrema destra, Angela Merkel (a cui rendiamo tutti omaggio dopo che ha ceduto la guida della Repubblica federale al socialdemocratico Olaf Scholz) ha dichiarato qualche mese fa: «Io credo alla forza dell’Illuminismo, che l’Europa deve ringraziare perché ci ha insegnato che esistono verità scientifiche oggettive, a cui abbiamo il dovere di attenerci. Ho scelto di studiare fisica nella Germania est perché ero sicura che si possono negare molte cose, ma non la forza di gravità, la velocità della luce o altri fatti inconfutabili». Persino i regimi dittatoriali, come quello della vecchia Germania comunista, devono accettare i dati oggettivi della scienza. Solo nel mondo delle fake-news regna quella strana «teoria della relatività» che relativizza il buon senso e soprattutto l’interesse collettivo.
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Se non ci fosse stata la tragedia del Covid, adesso noi italiani ci diremmo (con un sorriso) che nel 2021 il pianeta Terra ha ruotato attorno a un giorno e a un luogo ben precisi. Il giorno è il 12 luglio e il luogo è Londra, per l’esattezza la sua cattedrale di Wembley. Quella magica sera di mezza estate, il tempio mondiale di Eupalla (come la dea del football era definita da Gianni Brera) ha visto agli azzurri di Draghi e Mancini provocare la collera del popolo della Brexit con l’indimenticabile séance des tirs au but (Vedi QUI), che abbiamo tutti quanti seguito con trepidazione davanti alla tv. Poi, nella sua infinita saggezza, la dea ha deciso che gli italiani devono tenere i piedi per terra. Se credono di essere definitivamente nell’Olimpo del football (e anche in quello della politica internazionale) rischiano di sottovalutare i loro problemi reali. Dunque Eupalla ha rifilato una bel «cartellino giallo» al quel popolo di poeti, navigatori, santi e centravanti, a cui ha intimato di non montarsi la testa. Ecco la patria di Paolo Rossi e di Dante Alighieri (di cui quest’anno abbiamo celebrato, con vera commozione, rispettivamente il primo e il settecentesimo anniversario della scomparsa) farsi sfuggire in novembre l’obiettivo dalla qualificazione alla Coppa del Mondo 2022. La ricca Italia calcistica dovrà sudare per evitare il baratro. Ha sprecato le occasioni, ha sottovalutato le sfide e adesso, nell’anno del suo trionfo agli europei, è costretta a immergersi nel bagno dell’umiltà. Nel marzo prossimo gli Azzurri dovranno guadagnarsi sul campo la partecipazione, in Qatar, al più prestigioso torneo della palla rotonda. All’ONU di Eupalla, il seggio italiano è legato alle sfide dei prossimi mesi. Come dice The Economist in questo dicembre, l’Italia ha fatto moltissimo nel corso dell’anno che sta finendo. Moltissimo, ma non abbastanza. Gli italiani devono tenere i piedi per terra.
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Questa sensazione di bisogno di tenere i piedi per terra mi è tornata in mente a fine novembre, quando ho ascoltato e letto alcuni commenti italiani secondo cui la firma del Trattato del Quirinale aprirebbe la strada alla nascita di un «asse italo-francese», destinato a guidare l’Europa in sostituzione dell’ «asse franco-tedesco». A parte il fatto che (al di fuori della falegnameria) la parola «asse» porta una gran sfortuna, certe previsioni mi sono parse francamente prive di senso. È chiaro che nell’attuale Europa dei Ventisette c’è bisogno di una locomotiva più ampia del rapporto bilaterale franco-tedesco, scaturito dal Trattato dell’Eliseo del 1963. Ed è chiaro che l’Italia e la Spagna devono pesare di più nella governance comunitaria. Ma l’indispensabile relazione franco-tedesca (indispensabile alla stessa Europa) continua ad avere un peso enorme. L’interesse dell’Europa è quello di preservare e al tempo stesso allargare la vecchia governance.
La futura leadership europea deve essere più collettiva che negli ultimi decenni, anche se l’immagine del 10 dicembre (l’incontro all’Eliseo tra il presidente Emmanuel Macron e il nuovo cancelliere Olaf Scholz, partito per Parigi subito dopo aver ottenuto da Angela le chiavi del potere) fa pensare a un’Unione europea vecchio stile. A questo proposito mi ha colpito una frase della conferenza stampa tenuta il giorno precedente da Macron per presentare il programma dell’imminente semestre di presidenza francese dell’Unione. Nella parte sull’industria militare, evidentemente legatissima alle nostre comuni strategie sul terreno della difesa e della sicurezza, il presidente ha parlato di diversi programmi congiunti franco-tedeschi successivamente aperti agli altri Stati membri. La relazione franco-italiana sembra ottima ma deve essere messa alla prova delle scelte da compiere in quello che si presenta come un anno davvero decisivo.
Nel 2022 ci giocheremo una fetta importante del nostro avvenire. L’andamento delle discussioni sul Patto di stabilità, avrà conseguenze di particolare rilievo per un Paese indebitato come l’Italia, che la Germania e altri Stati europei cercano di mettere sistematicamente sotto esame. Il passaggio dal 2022 al 2023 vedrà o no il ritorno a quei vincoli di bilancio che hanno rischiato in passato di strangolare l’economia italiana ? Anche per questo è importantissimo che il governo Draghi, forte di una guida prestigiosa e di un’ampia maggioranza parlamentare, continui il proprio lavoro in ambito europeo. Poco dopo la Befana, gli italiani conosceranno nel 2022 il nome del loro prossimo presidente o della loro prossima presidentessa. Draghi o non Draghi, questo è il problema. In ognuno dei due casi, ci saranno nodi da sciogliere per sostituire Supermario a Palazzo Chigi o per garantirgli un lavoro tranquillo come capo del governo. Vivendo all’estero, ci si rende conto benissimo di quanto l’Italia abbia oggi assoluto bisogno di credibilità. In questo momento ne ha tanta, davvero tanta. Ma può perderla in fretta e cadere dall’alto fa più male.
Tra gli avvenimenti che hanno rafforzato sia Draghi sia l’attuale rapporto privilegiato Roma-Parigi c’è quello che a fine novembre ha avuto uno spazio massimo sui media italiani e purtroppo minimo su quelli francesi : la firma, il 26 novembre a Roma, del Trattato del Quirinale, che sancisce l’amicizia e la cooperazione tra Italia e Francia. Il passo avanti è indiscutibile, soprattutto rispetto alle polemiche degli anni scorsi. Il nuovo Trattato del Quirinale è in realtà una cornice molto favorevole al dialogo, ma adesso occorre darle un senso, costruendo un disegno dentro a quella cornice. Proprio quel disegno di collaborazione è uno degli auspici che noi popolo di « fritaliens », italiani in Francia e francesi in Italia, facciamo a noi stessi per l’anno nuovo.
Quanto a me vi faccio tanti, tantissimi auguri e vi ringrazio di seguire questo mio «appunto» mensile. Vi auguro di passare, malgrado i tempi difficili, un momento di gioia nel corso di queste feste. Spero che nel 2022 l’Italia non ricomincerà a vivere al tempo delle risse. Noi italiani abbiamo soprattutto bisogno di non farci prendere da quella voglia di guerra civile che abbiamo dai tempi di Silla e Mario (Gaio Mario, non Mario Draghi), ossia dall’87 avanti Cristo.
« Siamo vincoli o siamo sparpagliati ? » è la frase che, nei panni Rai del già citato Pappagone e nel suo linguaggio dialettale-caricaturale, utilizzava Peppino De Filippo per porre una domanda serissima e sempre attuale : « Siamo uniti o siamo divisi ? » (il filmato è lungo, ma vale la pena di guardarlo tutto perché nella sua naïveté è straordinariamente attachant con quel profumo di tempi andati). Vogliamo essere uniti o divisi dopo due anni di Covid ? Vogliamo essere uniti o divisi tra ventisette europei ? Vogliamo essere uniti o divisi sulle cose che contano di più per il nostro avvenire comune ? Le risposte le abbiamo solo noi.
E tanti auguri.
Alberto Toscano
LINK AI PRECEDENTI “APPUNTI” DI ALBERTO TOSCANO: https://altritaliani.net/category/editoriali/appunto-di-alberto-toscano/
Buongiorno Sig. Toscano,
Ho potuto seguirLa da non molto su France Info, a proposito di diritti umani bellamente (bruttamente!) calpestati… E La seguirò ancora meglio in questi Suoi appunti mensili approfonditi e stimolanti. Ma certo che, finalmente, vogliamo (tutti?!) essere uniti davanti a ciò che conta!… Ad ogni modo, auguri a Lei, grazie e « merci ».