L’Appunto di Alberto Toscano – luglio 2022

Dunque votiamo il 25 settembre. « Mario Draghi s’en va, l’Italie dans l’incertitude », è il titolo-urlo del Figaro del 22 luglio, giorno in cui comincio a scrivere questo «appunto». Il Belpaese è di nuovo in prima pagina sui giornali di mezzo mondo e c’è chi lo vede come un vulcano : « Italie : le chaos qui menace l’Europe » è il titolo del quotidiano economico parigino Les Échos del 18 luglio, che fa allusione a una possibile «crisi del debito pubblico» (nel cui contesto l’aumento degli spread potrebbe mettere in difficoltà la stessa Francia).

L’Appunto di A Toscano

Insomma, siamo una minaccia o siamo una democrazia ? Una democrazia lo siamo di sicuro. Una minaccia alla stabilità finanziaria europea possiamo esserlo, proprio come altri possono diventarlo nei prossimi mesi. La parola passa ormai al popolo dell’Italia repubblicana, che a dire il vero ha l’abitudine di minacciare soprattutto se stesso.

L’esercizio della democrazia è un’assunzione di responsabilità, che ci rende – appunto – responsabili delle nostre scelte e delle loro conseguenze. Il 25 settembre 2022 il Popolo Sovrano andrà alle urne in un’atmosfera carica di dubbi e di problemi. Ma ci andrà liberamente e questo è l’essenziale. Abbiamo il nostro avvenire nelle nostre mani. Il signor « Popolo Sovrano » dovrà prendersela con se stesso (non col Destino, non col Demonio, non con Bruxelles) se le conseguenze delle proprie decisioni gli lasceranno l’amaro in bocca.

Mi viene in mente un aneddoto di vent’anni fa. Alla vigilia delle elezioni presidenziali francesi dell’aprile 2002, un’amica mi disse, con molta determinazione, che non sarebbe andata a votare al primo turno perché i vincitori – destinati a sfidarsi al secondo turno – sarebbero «inevitabilmente» stati il presidente gollista uscente Jacques Chirac e il socialista Lionel Jospin, primo ministro uscente dopo il quinquennio della «coabitazione». L’amica parigina prevedeva di andare alle urne solo al secondo turno. Per sostenere Jospin, che lei detestava, contro Chirac, che detestava ancora di più. Il giorno dopo il voto, era il 22 aprile 2002, mi chiamò tutta eccitata (« infularmà », come si dice dalle mie parti) per chiedermi di firmare l’appello di un « collettivo spontaneamente costituitosi » il cui nome, tradotto in italiano, era qualcosa come « Se avessi saputo ! » e il cui obiettivo era quello di far invalidare le elezioni perché il leader dell’estrema destra Jean-Marie Le Pen si era qualificato al secondo turno al posto di Jospin. Avevo una gran voglia di risponderle in italiano corrente, con una parola che comincia per « va » e che non è né « valigia » né « Valpollicella » (ma che è lunga più o meno come quest’ultima). Tra certe persone – peraltro in alcuni casi simpatiche, colte, intelligenti, beneducate e magari persino tifose della mia squadra di calcio – si sono diffusi atteggiamenti che mi paiono assurdi rispetto all’applicazione delle più elementari regole democratiche. A cominciare da quella più elementare di tutte : la partecipazione al voto. Poi si protesta, si impreca, si girotonda e si pronunciano frasi ad effetto come « mi vergogno del mio passaporto ». Le nostre democrazie sono l’immagine riflessa del nostro popolo. Meglio non prendere alla leggera né l’una né l’altro.

La fine anticipata della legislatura è stata la conseguenza del calendario, dei sondaggi e anche dell’inadeguatezza di una politica che (fenomeno non solo italiano) rivela i suoi limiti e la sua miopìa proprio quando ci sarebbe bisogno di guardare lontano. Una politica il cui orizzonte va poco al di là del proprio naso. E siccome quel naso è sempre intento a sniffare l’aria dei sondaggi, i politici si orientano sulla base delle inchieste d’opinione come i cani da tartufo scavano alla ricerca dei preziosi tuberi di cui hanno percepito l’odore.

Mario Draghi ha preso in mano il governo italiano un anno e mezzo fa, in un contesto di crisi sanitaria, economica, politica e sociale. Ha guidato una coalizione profondamente eterogenea, composta (con una sola eccezione) da tutti i maggiori partiti. Ha fronteggiato con successo tutte le emergenze, compresa quella di carattere internazionale (l’invasione russa dell’Ucraina) che non era sul tappeto al momento in cui ha costituito il suo governo. Mario Draghi ha dato all’Italia una credibilità internazionale che non si vedeva da molto tempo : noi popolo dei Fritaliens, gli italiani e i francesi che vivono dalla parte delle Alpi opposta a quella in cui sono nati, siamo ben piazzati per testimoniarlo.

Una domanda è dunque legittima : perché, la sera del 21 luglio, solo 95 senatori su 321 gli hanno dato il proprio appoggio ? A Palazzo Madama è stata messa ai voti la mozione del senatore Casini, che approvava il discorso (determinato, duro, per certi aspetti drammatico) letto in mattinata dal presidente del consiglio Draghi davanti all’emicliclo. I voti favorevoli non sono stati neanche uno su tre, rispetto al numero totale dei membri del Senato.

Perché ?
Con l’avvicinarsi della scadenza fisiologica della legislatura, la situazione del governo veniva sempre più fragilizzata, settimana dopo settimana, dall’atteggiamento dei partiti, decisi (chi più chi meno) a innalzare le proprie rivendicazioni e le proprie bandiere ideologiche in vista della prossima campagna elettorale. Costretto a tenere un piede nella scarpa degli impegni riformatori del PNRR (Piano nazionale di ripresa e resilienza, condizione per ottenere le nuove tranches dei fondi europei) e l’altro piede nella scarpa della sua scalpitante maggioranza, Draghi ha finito con scivolare. Si è rialzato con la stampella istituzionale di un governo che – secondo le indicazioni impartitegli dal presidente Sergio Mattarella – resterà in carico « per il disbrigo degli affari correnti ». Tra lo scioglimento delle Camere, fine luglio, e le elezioni anticipate, fine settembre, Draghi ha l’incarico di occuparsi di « normale amministrazione » in un Paese e in un’Europa in cui di normale non è rimasto granché.

Lo sfondo di questa crisi è dunque evidente.

La legislatura è nata nel marzo 2018 e gli italiani avrebbero dovuto andare alle urne all’inizio del 2023. Contando sugli umori (piuttosto sui malumori) degli eterni insoddisfatti, il partito in ascesa nei sondaggi (guidato da Giorgia Meloni, che già s’immagina a Palazzo Chigi) guadagnava terreno a spese dei suoi alleati-concorrenti, guidati da Silvio Berlusconi e Matteo Salvini. L’avvicinarsi della scadenza elettorale di marzo 2023 ha creato tensioni dappertutto. Anche tra i quasi-alleati dello schieramento di centrosinistra : gli ormai ex-quasi-alleati Enrico Letta e Giuseppe Conte. Abbiamo insomma assistito a una surenchère di polemiche spesso strumentali ; a una reazione a catena che ha portato allo scioglimento delle Camere e all’anticipo delle elezioni. Quando, il 14 luglio, il Movimento 5 Stelle di Giuseppe Conte ha deciso di abbandonare Draghi in occasione di un importante voto parlamentare, il presidente del consiglio ha capito che il processo di disgregazione della sua maggioranza era cominciato. Se non avesse bloccato quel processo, ne sarebbe diventato inevitabilmente l’ostaggio, trascorrendo gli ultimi otto mesi della legislatura a guidare un governo zoppo e rissoso ; un karaoke politico a base di slogans dal sapore ideologico. Supermario ha provato a fischiare la fine della ricreazione e la risposta è stata quella che sappiamo.

Foto Imagoeconomica

Nello spazio di una settimana, Draghi si è dimesso due volte. Lo ha fatto il 14 luglio, quando Mattarella lo ha rispedito in Parlamento a verificare la situazione. Lì Draghi ha alzato, ancora di più,  la voce per chiedere alla propria maggioranza un minimo di compattezza. Lo ha fatto a modo suo, senza troppi fronzoli e con una fermezza dal sapore di sfida. Come quel giorno di dieci anni fa, rimasto nella memoria collettiva degli europei. Parlando a Londra ad una platea di finanzieri, l’allora timoniere della Banca centrale europea (BCE o ECB che dir si voglia) pronunciò la sua frase più celebre : « The ECB is ready to do whatever it takes to preserve the euro. And believe me : it will be enough ! ». A chi, sull’onda della crisi greca, immaginava colossali speculazioni sull’onda della crisi della moneta unica, il banchiere centrale Mario Draghi disse parole che significavano semplicemente « Provateci, se volete ! Ma vi scotterete le dita ! ». E quelli hanno rimesso le mani in tasca.
Mercoledì 20 luglio, sempre al Senato, Draghi ha parlato una volta di più il linguaggio della chiarezza, ma ad ascoltarlo a Roma non c’era la platea impaurita di dieci anni prima a Londra. C’erano tanti personaggi pronti a sfidarsi tra loro in una battaglia campale. Il 21 Draghi è tornato da Mattarella a ribadire, stavolta definitivamente, le proprie dimissioni.

Ho passato la giornata di mercoledì 20 luglio davanti alla tv, osservando il canale del Senato italiano come se fosse la CNN ai tempi della Guerra del Golfo. A inizio pomeriggio, la seduta a Palazzo Madama è stata sospesa (« per una riunione dei capigruppo », ha detto la presidente Casellati) e io, aprendo il sesto « yogurt zero per cento », sono scivolato su Rai Uno proprio mentre andava in onda la fiction Don Matteo, con Terence Hill nei panni del prete-investigatore. Lo stesso attore ottentaduenne, all’anagrafe Mario Girotti, recitò una sessantina d’anni fa nel Gattopardo di Luchino Visconti. Impersonava un giovane ufficiale lombardo, il conte Cavriaghi. Quel bel biondino era il grande amico di Tancredi Falconeri (Alain Delon), secondo il quale « tutto deve cambiare perché ogni cosa resti come prima ». Parole che potremmo scolpire sui nostri simboli come gli inglesi inalberano la frase multiuso « Honni soit qui mal y pense » (rivelatasi peraltro inutile a Boris Johnson, che ne ha combinate un po’ troppe). In quell’ora di fiction Made in Rai, incastonata tra le puntate del reality show politico nazionale, la mia attenzione si è cristallizzata sulla frase del maresciallo dei Carabinieri, interpretato da Nino Frassica, che con aria angosciata chiedeva al capitano: « E adesso che accadrà a Don Matteo ? ». Già. E adesso che accadrà a Mario Draghi ?

Quella giornata incredibile del 20 luglio 2022, forse una delle più tristi del Parlamento repubblicano, sembrava davvero il frutto di un copione cinematografico. Come se un regista, molto abile e un po’ perverso, avesse deciso di sbatterci in faccia la realtà della nostra politica con l’intento di costringerci a guardarci per quello che siamo. Guardarci allo specchio delle urne. L’Italia di oggi (l’Italia di Don Matteo, del maresciallo Nino e della « perpetua » Natalina, la bravissima Nathalie Guetta, il cui fratello rappresenta con entusiasmo la Francia al Parlamento europeo) non è quella di Tancredi Falconeri, del conte Cavriaghi e del principe di Salina (Burt Lancaster). Per quell’Italia, al tempo della  Spedizione dei Mille, la democrazia era un’ipotesi e forse un sogno. Per quella di oggi è una realtà e forse uno spreco. Lo diventa se rifiutiamo di usarla, salvo poi gridare allo scandalo (come la mia amica francese di vent’anni fa) quando dalle urne scaturiscono risultati che ci paiono sconcertanti.

Alberto Toscano

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Alberto Toscano
Alberto Toscano est docteur en Sciences politiques à l’Université de Milan, journaliste depuis 1975 et correspondant de la presse italienne à Paris depuis 1986. Ex-président de la Presse étrangère, il est l’un des journalistes étrangers les plus présents sur les chaînes radio-télé françaises. A partir de 1999, il anime à Paris le Club de la presse européenne. Parmi ses livres, ‘Sacrés Italiens’ (Armand Colin, 2014), ‘Gino Bartali, un vélo contre la barbarie nazie', 2018), 'Ti amo Francia : De Léonard de Vinci à Pierre Cardin, ces Italiens qui ont fait la France' (Paris, Armand Colin, 2019), Gli italiani che hanno fatto la Francia (Baldini-Castoldi, Milan, 2020), Mussolini, "Un homme à nous" : La France et la marche sur Rome, Paris (Armand Colin, 2022), Camarade Balabanoff. Vie et luttes de la grand-mère du socialisme (Armand Colin, 2024)

1 COMMENTAIRE

  1. Grazie Alberto Toscano! Le democrazie non sono, per definizione, mai salde, sono al passo dei tempi e qualche volta in pericolo in ogni parte del mondo, vanno difese con determinazione e con programmi seri per stare dalla parte dei popoli e delle loro esigenze. L’Italia, e non solo, sta vivendo una crisi sociale profonda che necessiterebbe scelte programmatiche e serie. La povertà avanza e cosi’ la crisi ambientale. Dobbiamo pensare al lavoro e alle scelte di una rivoluzione climatica che ci sta mettendo in un clima rovente fuor di metafora. Queste elezioni sono un momento cruciale per la nostra democrazia e per l’avvenire del paese. Andiamo a votare e riflettiamo sul voto non ci accontentiamo di soluzioni semplificatrici che non risolveranno i nostri problemi, stiamo rischiando di tornare indietro di secoli. Prendiamo in mano il nostro destino e con una visione progressista vera che faccia uscire il nostro paese da questa crisi non solo politica ma anche culturale, ambientale, senza dare ascolto ai falsi profeti che sembrerebbero avere le soluzioni in mano come carte da gioco. Lasciamo i tarocchi e le fattucchiere e diamo la nostra fiducia anche a noi stessi e a persone serie e di esperienza politica convalidata.

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