La maturità dell’Euro a vent’anni

L’Euro è più che maturo perché ha compiuto 20 anni da quando circola e 30 dal suo concepimento. Ossia dall’inizio della sua gestazione stabilita dalla Commissione europea con il  Trattato di Maastricht del 1992, per cui per venire alla luce era necessario che questa lo accogliesse apparendo dappertutto chiara nelle proprie regole: inflazione e tassi d’interesse ammessi rispettivamente entro le percentuali annuali non superiori per più di 1,5 pp alla media di quelle dei tre Stati in cui era più bassa; deficit pubblici annuali entro il 3% del PIL; e debito pubblico contenuto entro il 60% di questo.

Alcuni ospiti per i festeggiamenti per il ventennale dell’Euro.

Tre anni dopo il suo concepimento e per i tre anni precedenti l’inizio della sua circolazione era altresì stabilito che il suo tasso di cambio con le monete nazionali fosse quello del 31 dicembre 1998 con l’ECU, ossia con l’unità di conto intanto creata come comune unità di misura. Così era posto un termine alle svalutazioni competitive tra le monete nazionali, le quali tanto potevano favorire le esportazioni dei Paesi che le effettuavano quanto erano contemporaneamente causa ed effetto delle inflazioni, rispettivamente come aumento dei prezzi delle materie prime importate e come tasso di cambio più caro dovuto alla maggiore circolazione della propria moneta (a sua volta causa ed effetto della variazione dei tassi d’interesse, poiché l’aumento di questi che doveva contenerla era provocato dalla circolazione eccessiva). Così, insomma, venivano contenuti questi virus interdipendenti. E per contenere la circolazione monetaria non potevano essere tra l’altro più stampati biglietti che servissero ad ulteriori crescite del debito pubblico.

A garanzia di tutto ciò era stata creata nel 1998 la Banca Centrale Europea, destinata a sostituire le Banche centrali nazionali nel controllo con i tassi e nelle emissioni della nuova moneta, a Francoforte come (a suo tempo) la Bundesbank per essere in questi compiti indipendente dalle capitali governative. Il ché faceva comodo non solo ai Governi, che fino a prima, volenti o nolenti, erano stati responsabili dei diversi dilatamenti delle rispettive spese pubbliche e perciò delle rispettive circolazioni monetarie, ossia delle rispettive inflazioni e conseguentemente dei rispettivi tassi e delle rispettive svalutazioni, ma anche di quelli che fino ad allora erano riusciti a contenerle di più, poiché come Mitterrand ha potuto così giustificare l’inversione della politica economica da quella all’inizio del suo primo settennato, e come Ciampi (dopo il “salasso” di Amato del 1992 di 93.000 miliardi di lire di tagli di spesa e incrementi delle imposte) da Presidente del Consiglio ha riavviato dal 1993 l’Italia sulla strada virtuosa, così Kohl non ha temuto che la fine della supremazia del marco fosse dovuta non all’inflazione da questo subita (seppure più leggermente che altrove) per la riunificazione tedesca, ma al consolidamento monetario della Comunità Europea e poi dell’UE necessario alla Storia quanto la riunificazione stessa.

Il trattato di Maastricht è nato!

E così i criteri di Maastricht e le regole dell’unione monetaria e dell’Euro hanno poi fatto comodo dappertutto a tutti i Governi successivi, anche di tendenze opposte (nei Paesi originari nell’Euro: Austria, Belgio, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Olanda, Portogallo, Spagna) e anche degli Stati successivamente entrati (Slovenia, Cipro, Malta, Slovacchia, Estonia, Lettonia, Lituania), e le critiche e fantasie alternative sono rimaste solo (e spesso non definitivamente) nelle più chiassose campagne elettorali di opposizione. Anche dopo che l’adattamento dei prezzi all’Euro aveva creato i loro forti iniziali rialzi, e anche quando la maggiore integrazione finanziaria aveva fatto temere nel 2007 che il fallimento della “Lehman Brothers” sarebbe stato il fulmine esterno che avrebbe causato il cortocircuito di tutto il sistema. Allora infatti i crolli e contagi delle borse non hanno messo questo in crisi più di quanto si è temuto successivamente, poiché la vigilanza della BCE è stata determinante quanto quella delle precedenti Banche centrali che l’integrano, e intanto gli effetti dei criteri da questa accentrati di gestione dell’Euro avevano già portato a rivalutarlo sul Dollaro (a tal punto da ammettere infine negli USA e nella sua area d’influenza una politica più keynesiana, con margini leggermente superiori d’inflazione a sostegno della domanda e con questa della produzione, e per reazione con tassi d’interesse leggermente più alti di quelli nell’area dell’Euro).

Né allora e né nel 2008 i contagi di sfiducia nel sistema bancario (per i suoi crediti dubbi verso il settore immobiliare e i sub-primes negli USA e verso i titoli di Stato in Europa), tali da essere stati seguiti da un periodo di recessione, hanno dunque indebolito questo sistema, che anzi è rimasto solido pure tra il 2009 e il 2012, quando l’annuncio del deficit della Grecia, più che quadruplo rispetto ai criteri di Maastricht, ha messo alla luce le altre violazioni di questi pure da parte dei debiti pubblici degli altri Stati (in misura fortemente diversa Italia, Portogallo, Spagna e Irlanda), e ha introdotto il meccanismo europeo di stabilità, ossia d’aiuto allo Stato in crisi affinché il danno fosse seguito da una ripresa virtuale anziché dal fallimento delle banche causato dalla loro quantità di titoli di debito pubblico e di altri crediti verso le attività in ulteriore recessione nel clima di sfiducia generale.

Se invece non ci fosse stato l’Euro, non solo la Grecia si sarebbe allora trovata nella stessa situazione di oggi della Turchia dove neanche Erdogan sa più cosa fare con la sua lira (dopo aver alternato ai tassi alti contro l’inflazione quelli bassi con l’idea di contenere questa con l’aumento di produzione), e lo “spread” (ossia la differenza di mercato dei tassi dei debiti pubblici tra i diversi Paesi nei quali, come la fiducia, trascinano gli altri tassi) in ambito europeo sarebbe stato più simile al confronto con quello delle rispettive monete negli anni 70 e 80 o quello con l’Argentina o il Libano che a quello che, proprio perché più limitato dall’Euro in comune, è divenuto pure un argomento di campagna elettorale.

E limitato tra gli stessi tassi contenuti fino al punto di costringere Draghi nel 2012 con il “whatever it takes” ad anticipare contro la sfiducia, la recessione e la deflazione (anche con gli interessi negativi) quei provvedimenti d’espansione della circolazione monetaria, come gli acquisti dei titoli di Stato da parte della BCE (“quantitative easing”), con cui già la Banca Centrale giapponese e la “Federal Reserve” negli USA sostenevano la domanda, e con cui poi le conseguenze del covid non hanno paralizzato il sistema.

Ancora quest’anno Lagarde ha dichiarato di voler agire con i tassi non meno cautamente che con l’immissione di altra circolazione monetaria, in tanto contenuta in quanto residua a quella già effettuata per evitare le paralisi, e in quanto in aggiunta a quella del “Next generation UE” da Bruxelles, la quale (come il conseguente PNRR) è indirizzata a programmi precisi di transizioni (verde, digitale, di crescita, formazione, riorganizzazione pubblica, infrastrutturale, sanitaria, ecc.) e perciò di investimenti che non comportano un’inflazione fisiologica maggiore delle spese.

Allora, l’ottimismo è giustificato? Sì, se queste transizioni compenseranno soprattutto gli attuali aumenti di disoccupazione conseguenti al covid. Sì, se con la transizione energetica si compenseranno altresì gli attuali riaumenti di prezzo delle risorse (greggio, gas, elettricità, ecc., anche a fronte del taglio o della riduzione di quelle dalla Russia se s’inasprirà ulteriormente la questione dell’Ucraina). No, invece, se le critiche oscillano tra gli estremi: quello (fino a poco tempo fa) di non sufficiente inflazione per sostenere la domanda, o di recessione con il prezzo del greggio basso, e quello d’un’inflazione che comincia a essere eccessiva sia per i consumi e i risparmi che poi per il conseguente aumento dei tassi per i prestiti. Ma almeno l’Euro ha accomunato anche i provvedimenti di reazione (e il covid ha costretto a minori divergenze tra i rigoristi e i meno rigoristi, poiché in alternativa anche le epidemie economiche sono importate), non diversamente da come il Dollaro passa pure da un periodo di tassi bassi a sostegno degli investimenti e della contenuta inflazione, a sostegno della domanda, a un periodo in cui l’inflazione stessa  comincia a essere considerata eccessiva, e d’altra parte per evitare la stagnazione non sollecita Powell alla Federal Reserve più di Lagarde alla BCE ad alzare bruscamente i tassi.

Concludendo, l’Euro a vent’anni appare come una creatura fisicamente più solida delle vecchie monete estinte, ma la sua alternanza tra i raffreddamenti e i surriscaldamenti dev’essere controllata non meno di com’era stato previsto a Maastricht, pur cambiando le cifre rosse del termometro.

Lodovico Luciolli

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Lodovico Luciolli
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