La Pillola di Puppo. Vivo, da straniero, in un luogo che (da un certo punto di vista) non esiste più. A Parigi si parlano tante lingue, ma all’appello ne manca una: la parlata locale, il vecchio “parigot” (parigot, tête de veau, si sente ancora dire quando su una strada di provincia spunta un’automobile la cui targa inizia per 75. Parigino testa di vitello. E non è un complimento).
Il parigot (lingua parlata dal “titi parisien”) era una variante locale del francese. Veniva dall’incrocio di parlate gergali, l’«argot des métiers» e quello (detto) «des voleurs», dei ladri. Ebbe grande spazio nella cinematografia francese: da Les Tontons flingueurs (di cui tanti francesi conoscono le battute a memoria) al meraviglioso Les 400 coups di Truffaut, ambientato in un arrondissement (il IX°) allora popolare, oggi carissimo, e il cui titolo (che significa “il diavolo a quattro”) fu tradotto in italiano alla lettera, producendo un’espressione misteriosa e incantevole: “I 400 colpi”.
Il parigot, diffuso fino agli anni Settanta, si è poi progressivamente affievolito fino a scomparire. L’accento (quello di Edith Piaf) si era formato nei quartieri popolari dell’Est cittadino: Belleville, Ménilmontant. Anche a Parigi (come a Londra) la ripartizione di classe dei quartieri segue la direzione del vento, che, provenendo dall’Atlantico, porta gli odori verso est. Una volta gli odori dei macelli, delle fabbriche, dello scarico dei liquami erano molto forti nelle zone urbane. La loro intensità contribuiva al prestigio o meno di un quartiere. Nel tempo gli odori si sono affievoliti, allontanati. Ma quella ripartizione è rimasta: anche oggi, a Parigi, i quartieri più borghesi sono a ovest, quelli popolari a est. (La geografia del voto alle recenti elezioni ha confermato con precisione questa ripartizione storica).
Ora quell’accento particolare (che il giornale Le Parisien qualche tempo fa riassumeva così: salut-han, tu vas bien-han, je vais au théâtrEEE) è scomparso. Così come il lessico, che Victor Hugo definiva “une véritable alluvion” che mescolava al francese “le provençal, l’espagnol, de l’italien, du levantin”. Qualche parola è sopravvissuta, e riappare come in sogno: “taf” per “travail”, “bagnole” o “caisse” per “voiture”. “Frangine” per “soeur”, “môme” per “gamin”. Céline definiva l’argot come “l’usage de la langue complètement libre”.
Anche l’argot era quindi, come ogni parlata particolare, popolare, un irriducibile spazio di libertà e identità. Un modo di dire cose che non si potrebbero dire, o pensare, altrimenti. Pasolini diceva: “Il contadino che parla il suo dialetto è padrone di tutta la sua realtà”. Lo stesso potremmo dire del parigino che parlava il suo argot.
La lingua subentrata nella Parigi intra muros non è però, come si potrebbe pensare, un francese più classico, accademico. È invece una lingua più povera, stereotipata e, per così dire, “produttivistica”. Invece di allargare il lessico lo ha ristretto; come nella pubblicità, privilegia i superlativi (oltre appunto a “super”, “extra”, “canon”, l’uso smodato del prefisso “hyper”). Usa a più non posso le espressioni tipiche di un ceto sociale che si definisce attraverso professione e consumo: “je suis overbooké” (anglicismo per “sono occupatissimo”), “je te mets dans la boucle” (modo aziendalistico di dire “ti tengo informato”), le declinazioni dell’onnipresente “profiter” (godersela, spassarsela). La vita parigina sembra un’altalena, per parafrasare Guy Debord, tra tempo della produzione e del consumo.
Racconto questa storia perché mi ha colpito, tra le polemiche che hanno accompagnato la cerimonia di apertura delle Olimpiadi, quella sulla cantante Aya Nakamura. Accusata da alcuni esponenti della destra nazionalista (Marion Maréchal, Eric Zemmour) di non parlare il “vero francese”. Questa cantante franco-maliana ha portato alla ribalta un modo di parlare, a differenza del parigot, nato in periferia, nelle strade della Seine-Saint- Denis, il dipartimento 93, a Nord di Parigi. Un francese neo-populaire (così lo definiscono i linguisti) che mescola lingue africane, parole arabe e gitane. Il linguaggio (diceva Edoardo Sanguineti) è ideologia. Nel momento della “gentifricazione”’ assoluta del centro parigino, a cui corrisponde la scomparsa dell’argot cittadino, alla neo-lingua produttivistica si contrappone un nuovo linguaggio specifico, quello delle banlieues. La lingua, contrariamente a quanto sembrano credere Eric Zemmour e i suoi accoliti, non è un monumento da preservare; è un organismo vivo, che organizza da sé le sue mutazioni, senza aspettare le accademie (le quali invece hanno il ruolo di registrarle e codificarle) e che, a ben guardare, permette di comprendere i rapporti di forza e i conflitti sociali. In questo senso, la presenza alla cerimonia di Aya Nakamura, e del suo testo linguisticamente “scandaloso” per alcuni, è stata, dal mio punto di vista, un segno rivelatore del conflitto (quello tra centro e periferia), che è proprio delle società attuali, e della forza in qualche modo “eversiva” e “ideologica” che, nonostante tutto, il linguaggio porta ancora con sé.
Maurizio Puppo
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Merci!
Per l’esattezza, Bonjourin (avec le e prépausal), ce n’est pas du tout du tout de l’argot. Voir ici https://m.youtube.com/watch?v=_W3jHGgJW5A