“La forma dell’acqua” – titolo originale: The shape of water – ha vinto il Leone d’Oro a Venezia 2017, pur nella ricchezza demiurgica della Mostra (un plauso ai selezionatori della rassegna italiana); è stato candidato a ben tredici Premi Oscar, ne ha vinti quattro: miglior film, migliore regia, migliore scenografia e migliore colonna sonora al francese Alexandre Desplat. Lo avrebbe tuttavia meritato anche la protagonista, una ragazza muta dal cognome italiano, Elisa Esposito, interpretata dall’attrice Sally Hawkins. Straordinari tutti gli altri interpreti: Richard Jenkins e Michael Stuhlbarg. Guillermo del Toro avrà forse realizzato il film summa della propria fantastica inquietudine.
Incapace di percepire la forma di Te, ti trovo tutto intorno a me. La tua presenza mi riempie gli occhi del tuo amore, umilia il mio cuore, perché tu sei ovunque.
E’ una poesia orientale con la quale si chiude, o meglio, si interrompe il sogno ad occhi aperti che Guillermo del Toro ha meditato e ponderato per noi. Per lo spettatore comune, che pure cerca una intrinseca forza di vita in quei personaggi appassionati e avvincenti di una parabola, onirica e reale, che esige e rivendica la forza dell’amore e il superamento di ogni intolleranza e preclusione.
La forma dell’acqua del sognatore regista messicano ci accompagna nel liquido amniotico dell’inconscio, e lo fa mediante una fiaba dal tenore gotico, che si avvale di magnetismi fantasy, dove una ragazza muta e gentile si sente imbrigliata ed inespressa in un mondo di silenzio e di solitudine. E’ Elisa Esposito (dal cognome di “trovatella”, una dolcissima Sally Hawkins) che, riflettendosi negli sguardi degli altri, si vede come un essere frammentario ed imperfetto, immerso nella routine quotidiana di un lavoro per nulla gratificante, ma che sconvolgerà la sua esistenza, il suo corpo ed il suo eros. Una vita tranquilla intorno a cui gravitano l’amica e collega addetta alle pulizie che parla anche per lei, il coinquilino gay artista e turbato dal tempo che fugge. Ed un laboratorio per esperimenti segreti.
Siamo in America ai primi anni ’60, in piena Guerra Fredda, con una ambientazione scenografica curata in ogni particolare, una fotografia che vira dal verde al blu, fra arredi ed esterni pressoché perfetti, come impeccabile è il cast, aderente in ogni peculiarità alla liquida scorrevole storia. Nella quale, incaricate di ripulire un laboratorio segreto, Elisa e la collega Zelda (Octavia Spencer) si imbattono per caso in un temibile esperimento governativo da spy story: uno squamoso animale dall’aspetto umanoide è segregato in una vasca sigillata piena d’acqua. E sul quale si abbatte la violenza di stato della ricerca a fini spaziali, per mano di un eccellente Michael Shannon, credibilissimo stratega del male. Ma è il silenzio e il contatto dei gesti con cui Elisa sa avvicinarsi sempre di più alla creatura che proviene dalle divine credenze amazzoniche, lo sconosciuto con il quale sa costruire una tenera sovrumana connivenza.
E’ qui che il racconto conquista, agendo su due piani paralleli: la cronaca realista di quegli anni duri e compromettenti dei due Blocchi geopolitici contrapposti; e quello chimerico e vagamente mitologico mediante l’incontro con l’anomala creatura. Le riprese e i movimenti perfetti che solo la mano di un grande regista sa rendere tenacemente epici. Non è dunque importante la « trama »: il cinema si compone di variegati elementi, anche se talvolta scontati nella lotta eterna fra il bene e il male; e la salvaguardia dell’ambiente, il rispetto verso i deboli e i diversi.
Ma qui vige pure il richiamo e l’amore di del Toro verso il Cinema d’arte, il muto ed il musical, l’estetica di opere di culto (“La bella e la bestia”, “Il labirinto del fauno”, “The Big Fish” di Tim Burton).
Il cinema è cinema se, quando si accendono le luci, lo si porta dentro, si rivitalizza a propria immagine e secondo la propria sensibilità.