Per la presidenza della Repubblica, nelle ultime ore si sono perse certezze sulla elezione di Mario Draghi.
In effetti, a questo punto la scontata elezione di Draghi, tanto scontata non è più. I partiti si sono fatti due conti ed hanno capito che con Draghi presidente, al suo posto, a palazzo Chigi arriverebbe un altro tecnico (Colao? Franco? Cartabia?), una soluzione che certificherebbe ancora una volta che la politica non si assume la responsabilità della propria inazione politica, come fu con la rielezione di Napolitano, nel pieno della tempesta economica e politica, quando Napolitano si mise a giocare da solo riuscendo ad imporre quello che gli pareva a dei partiti in piena crisi di personalità ed identità.

Ecco allora che, dopo la sterile manfrina di Berlusconi, auto-silurato dal fuoco amico dei suoi alleati a destra, la prospettiva che si prepara è che le due caselle principali della politica istituzionale passerebbero ai tecnici, segnando un ulteriore motivo, seppure ce ne fosse bisogno, di crisi di credibilità del sistema partitico attuale.
Salvini per primo ha subodorato questo rischio, immaginando i rischi di far lasciare il governo al leader maximo Draghi in un anno cruciale per il paese per chiudere la questione pandemia, per fare fronte e investire i 200 miliardi di fondi europei e con l’approssimarsi di una guerra che davvero potrebbe degenerare nella terza mondiale sul fronte russo e ucraino.

Salvini comprende che questa congiuntura è di tale rischio da non poter essere lasciata alla ventura di un parlamento dove la maggioranza grillina si sfalda ogni giorno come i ghiacciai dell’Antartico sottoposti al balzo termico del surriscaldamento climatico. La sinistra è immobile, incapace di esternare una posizione politica davvero innovativa e in grado di ridare slancio alla politica: finanche per il Quirinale non è stata capace di proporre dei nomi in alternativa a quelli di bandiera (Nordio, Pera e Moratti) proposti dalla destra, per nascondere la vera proposta che è la Casellati, attuale presidente del Senato, in mezzo Italia Viva che ridotto ad un manipolo di 45 persone obbiettivamente non ha la forza che ebbe quando Renzi fu segretario del PD e riuscì ad imporre, il già rimpianto, Mattarella.
A tal proposito suona ridicolo che i grillini, che invocarono la persecuzione dell’uscente Capo di Stato per attentato alla Costituzione, oggi lo rivorrebbero al Quirinale, malgrado i suoi ripetuti no e la sua dichiarata indisponibilità.
In queste elezioni davvero si sta evidenziando la necessità per tutti i partiti di procedere ad un rinnovamento nelle idee, nei programmi e negli uomini, un ringiovanimento che possa portare il necessario sistema partitico ad essere adeguato alla realtà dei tempi. Insomma, più che mai, la prima riforma che andrebbe attuata nel paese è proprio quella della politica.
Che fare?
Possiamo avanzare due ipotesi: una è che alla fine i partiti rinuncino, alzino bandiera bianca e si arrendano all’evidenza di un Draghi presidente per sette anni, il che naturalmente avrà peso ed incidenza anche sull’azione futura del governo; l’altra ipotesi è un compromesso: Draghi presidente ed un politico a capo del governo, naturalmente di un governo che deve riuscire ad essere ancora per un anno, di unità nazionale. In questa ipotesi occorrerebbe un politico di buon profilo ma che non susciti l’irritazione di nessuno dei partiti che reggono l’attuale esecutivo. Una figura come potrebbe essere ad esempio l’ex presidente del parlamento europeo Antonio Tajani, di Forza Italia verso cui difficilmente potrebbe esserci il no della destra che compatta è maggioranza nel parlamento e tra le regioni, ma che potrebbe raccogliere l’apprezzamento anche del PD e di Italia Viva e forse almeno di una parte dei grillini, che non dimentichiamo furono pronti a sostenere la berlusconiana Casellati nella sua scalata a Palazzo Madama, oppure potrebbe essere proprio Casini, il garante politico di un governo che ha una forte presenza di tecnici.

Tornando al Quirinale credo si possa escludere, ma in politica nulla è impossibile, un ritorno di Mattarella, che ha già dato, per cui infine, potrebbe ritornare in auge ancora il nome di Casini, che ha, da bravo ex democristiano, una storia che spazia da destra a sinistra e che infondo potrebbe trovare sostegno in ambo le sponde, oppure Amato che come sostiene il politologo Campi in un certo senso è “una felice sintesi tra Draghi e Mattarella”.
Certo se Draghi non avesse accettato, in piena emergenza di aderire, per senso dello Stato e di responsabilità, alla richiesta di aiuto di Mattarella, oggi non ci sarebbero dubbi, al Quirinale sarebbe salito lui e basta.
Nicola Guarino