«La bellezza che resta» di Fabrizio Coscia è una riflessione sull’opera d’arte alla fine di una vita, attraverso una serie di ritratti, da Tolstoj a Freud, da Renoir alla Kahlo, da Cechov a Glenn Gould. Che cosa rappresenta per uno scrittore, un poeta, un pittore, un filosofo, l’ultima opera, realizzata in prossimità della morte e nella consapevolezza di questa prossimità? Che cosa si intende per “bellezza”?
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‘La bellezza che resta’ è l’ultimo libro di Fabrizio Coscia, intervistato da Roberto Concu per il giornale Cronache Letterarie. Altritaliani ringrazia entrambi per aver concesso di diffondere sulle proprie pagine la bella conversazione tra Fabrizio Coscia e Roberto Concu.
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Mentre scrivo guardo e ascolto l’esecuzione de Le variazioni Goldberg di Bach da parte di quel genio di Glenn Gould. Il corpo ripiegato su stesso, contratto sulla sedia per dar spazio alla melodia. Le dita scorrono come acqua sui tasti. Suggeriscono l’impalpabile bellezza dell’arte, di quel mistero da cui scaturiscono le note, i versi, le parole. Le note non nascono dai tasti bianchi e neri.
Non avevo mai ascoltato Le variazioni Goldberg prima di leggere il libro di Fabrizio Coscia, La bellezza che resta. È stata una scoperta folgorante. Come l’ultimo libro di Tolstoj, Chadži-Murat, breve romanzo storico, di odio e vendetta, che lo stesso Tolstoj volle pubblicato postumo. Un libro di grande importanza e attualità che ho scoperto dopo aver letto il libro di Fabrizio Coscia.
Avrete capito che leggere questo libro è un viaggio immersivo tra musica, letteratura, pittura, filosofia. E autobiografia.
Ho chiesto all’autore Fabrizio Coscia di introdurci a questo viaggio nella bellezza.
Roberto Concu: Del tuo libro mi colpisce il titolo ‘La bellezza che resta’. Quale visione hai voluto rappresentare?
Fabrizio Coscia: È un titolo che riprende una frase di Pierre-Auguste Renoir. Il pittore, come racconto nel libro, dedicò gli ultimi due anni di vita a dipingere il suo ultimo capolavoro, Le bagnanti, nella sua tenuta di campagna in Provenza. Aveva 80 anni ed era afflitto dall’artrite reumatoide che gli aveva deformato le dita delle mani, così dipingeva tra grandi difficoltà e sofferenze, costretto su una sedia a rotelle. Allora un giorno Matisse, che era andato a trovarlo, gli chiese perché continuasse a lavorare a quel quadro, nonostante il dolore che gli procurava, e Renoir rispose: “Perché il dolore passa, ma la bellezza resta”.
Ecco, credo che questa risposta ci restituisca tutto il senso del lascito, dell’eredità morale, artistica e spirituale, che ho voluto indagare in questo mio percorso attraverso le opere ultime di alcuni grandi esponenti della cultura occidentale, come Renoir stesso, Tolstoj, Debussy, Frida Kahlo, Sofocle, Bach, Čechov, Leopardi, Simone Weil, Freud e altri.
R.C. : Che cosa rappresenta per uno scrittore, un poeta, un pittore, un filosofo, la sua ultima opera, realizzata in prossimità della morte e nella consapevolezza di questa prossimità? Che cosa si intende per “bellezza”?
F.C. : Ho cercato di rispondere a queste e altre domande per mettere in rapporto diretto l’arte e la vita.
R. C. : Come il tuo precedente libro “Soli eravamo” anche questo non può essere classificato sotto un genere letterario. Un po’ romanzo autobiografico, un po’ biografia di altri artisti, saggio… in più contemporaneo, visto che crea una rete forte tra letteratura, musica, pittura. Forse un genere nuovo?
F.C. : Sì, posso dire senza alcuna presunzione di aver inaugurato con “Soli eravamo” e con “La bellezza che resta” un genere nuovo, spurio, che s’avvicina vagamente a quello che gli anglosassoni chiamano personal essay, ma che effettivamente non ha riscontri in Italia, né credo altrove, per il modo in cui vengono ibridate autobiografia, biografia e saggistica. I due libri hanno infatti in comune lo stesso io narrante che si muove con estrema libertà attraversando di continuo questi diversi tipi di narrazione.
R.C. : Nella quarta di copertina Massimo Onofri scrive che forse hai letto tutti i libri possibili. Immagino che tu sia un lettore appassionato.
F.C. : Sono stato in effetti un lettore bulimico, fin da adolescente. E tuttavia, la passione per la lettura può manifestarsi anche come un’ossessione, come una malattia che ci allontana dalla vita reale. Per questo ciò che conta è metabolizzare le letture che facciamo, travasandole nella nostra esperienza, affinché la letteratura diventi un potenziamento della vita piuttosto che un rifugio da essa.
R.C. : Sembra che uno dei vanti degli scrittori più giovani sia non aver letto i classici. Al contrario, tu rileggi Tolstoj, Leopardi e altri classici. Secondo te cosa possono suggerire i grandi classici a noi uomini di oggi?
F.C. : I classici sono, per definizione, quei libri che continuano a parlare al presente. E di che cosa ci parlano? Dei grandi temi universali: la morte, l’amore, la colpa, il bene e il male. Ci riguardano anche più dei contemporanei perché sono in qualche modo inesauribili e soprattutto hanno, per la maggior parte, un valore sapienziale, nel senso che ci insegnano, senza mai essere didascalici, a comprendere la vita che viviamo o perfino ad affrontarla. I giovani scrittori che si vantano di non aver letto Proust o che considerano Tolstoj troppo lontano, sono di una pochezza desolante, e i loro libri sono il riflesso di questa pochezza: sono libri gracili, ombelicali, molto pop.
Alcuni sono anche bravi, ma mi fanno pensare a un regista come Quentin Tarantino che è tutto talento e niente cultura.
Alla fine i suoi film possono anche divertirti, ma si esauriscono nel tempo della loro visione perché non hanno spessore, né profondità, non pongono domande, non ricercano alcuna verità. Sono prodotti ludici, di ingegnoso intrattenimento, fieri della loro originale vacuità.
R.C. : Tu sei anche un insegnante. Da più parti s’invocano misure per la promozione della lettura nella scuola, visto che i ragazzi oggi leggono pochi libri. Secondo te questo è un dato strutturale oppure si può fare davvero qualcosa?
F.C. : Nel mio mestiere di insegnante verifico anno dopo anno un progressivo allontanamento dei ragazzi, non solo dai libri, ma proprio da quell’idea di cultura umanistica sulla quale noi ci siamo formati.
Anche quando la scuola fa tantissimo per la promozione della lettura, e gli insegnanti sono eroici, l’orizzonte culturale dei giovani risulta mutato drasticamente, direi antropologicamente, ed è diventato davvero difficile trasmettere il senso della complessità della letteratura. Siamo dominati dalla civiltà dell’intrattenimento e tutto ciò che non è “divertente”, ludico, leggero, seduttivo, ammiccante, tutto ciò che non compiace quella cronica puerilità voluta dalla nostra società di mercato, viene percepito come vecchio, pesante, out.
Magari anche ai nostri tempi era così: non ricordo di aver avuto, in effetti, molti compagni di classe che impazzissero per Kafka, Dostoevskij, Joyce o Thomas Mann. Ma la cultura veniva considerata come qualcosa con cui, volenti o nolenti, occorreva confrontarsi: un dato valoriale innegabile.
Oggi non è più così: l’arroganza con cui i nostri ragazzi reputano la letteratura come qualcosa di inutile è una triste prerogativa dei nostri tempi.
R.C. : Quali libri ci consigli?
F.C. : Sto rileggendo in questi giorni un libro bellissimo di Giovanni Comisso, Mio sodalizio con De Pisis. Per restare agli italiani, consiglierei un titolo di Lalla Romano che amo molto, Nei mari estremi, e un autore contemporaneo davvero notevole, Edgardo Franzosini, scrittore di bio-fiction. Per gli stranieri qualsiasi libro di W.G. Sebald, uno scrittore immenso, scomparso troppo presto».
Roberto Concu
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Fabrizio Coscia, La bellezza che resta, Melville Edizioni.
«La bellezza che resta» di Fabrizio Coscia è una riflessione sull’opera d’arte alla fine di una vita, attraverso una serie di ritratti, da Tolstoj a Freud, da Renoir alla Kahlo, da Cechov a Glenn Gould.
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Fabrizio Coscia
Fabrizio Coscia è nato a Napoli nel 1967. Dottore di ricerca in Storia del Teatro, è scrittore, insegnante, giornalista e critico letterario del quotidiano «Il Mattino». Ha collaborato in passato alle pagine culturali di diverse testate giornalistiche, come «Liberazione» e il settimanale «Il Diario».
Come critico letterario collabora anche al webmagazine «Succedeoggi». È autore del romanzo «Notte abissina» (Avagliano, 2006) e della raccolta di saggi narrativi «Soli eravamo e altre storie» (ad est dell’equatore, 2015).
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Roberto Concu
Poeta, qualche volta narratore, lettore forte, fa parte del direttivo del Circolo dei lettori e Presidio del libro “Equilibri”.
Nella sua libreria Hugo, Kawabata, Calvino, Grossmann, Roth, Everett convivono armoniosamente con Izzo, Derek Raimond, E. Bunker, Ed McBain. Ma è la poesia a farla da padrona.