Sulla riforma del lavoro e la cancellazione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, si sta giocando a danno dei lavoratori un imbroglio espressione di ideologie neo-liberali. Togliere diritti ai lavoratori per darne ad altri lavoratori serve solo alla deregolamentazione del mercato del lavoro. Ridurre le tutele non aumenta l’occupazione. Tanto ed altro si ricava dai dati europei dell’OCSE e dalle tesi di Riccardo Realfonzo esperto di Economia politica.
E’ vero lo scontro sul Jobs Act è intenso, con il governo che pare intenzionato a procedere senza ascoltare le ragioni sindacali e il sindacato che non vuole accettare una nuova riduzione delle tutele.
Si dice che il sindacato, la CGIL in prima persona, è radicato su una posizione “ideologica” mentre il governo è ben orientato a garantire una crescita generale e armonica delle tutele superando quello che Renzi chiama “il dualismo tra protetti e non tutelati”.
Credo anche che ad una apparente resistenza ideologica sulla riforma in discussione (normativa sui licenziamenti illegittimi) si contrapponga una posizione (governo e partiti di maggioranza e opposizione) un radicalismo che è oramai chiaramente classificabile nella categoria degli “ideologismi neo liberali”.
Lo fa un Governo, espressione di una parte del Paese, con toni, allusioni, giudizi sprezzanti in particolare per il sindacato e per le minoranze interne allo stesso partito di maggioranza relativa che il Governo sostiene. La cronaca è oramai satura di queste forme di propaganda “neo-ideologica” povera di contenuti e ricca di messaggi subliminali con modalità molto simili a quelle usate dai vecchi governi Berlusconi.
All’oramai abusato strumento di esaltazione di un teorico dualismo generazionale, (mai sopito e artatamente alimentato), si somma la esaltazione di un secondo dualismo che contrappone i cosiddetti lavoratori protetti-garantiti a quelli non protetti-non garantiti. Assunto il fatto che queste due condizioni sociali esistono e sono il frutto di un liberismo imperante e senza regole proporrei di utilizzare una descrizione più corrispondente di tale “status” alla luce del dettato costituzionale. Si tratta del “mondo dei lavoratori ai quali si applicano diritti di civiltà” e del “mondo dei lavoratori ai quali questi diritti vengono negati”.
Se, nel primo caso, fossimo in presenza di diritti configurabili come “privilegi” gli interventi atti a limitare o cancellare i privilegi stessi sarebbero cosa auspicabile e condivisibile. Se invece si sta parlando di “diritti”, le azioni messe in campo per modificarli, limitarli, cancellarli usando lo slogan “più diritti per chi non ne ha” è palesemente un imbroglio. Togliere diritti per dare diritti ha un significato preciso: rispondere alla pressante domanda di deregolamentare il lavoro in tutte le sue componenti siano esse salariali, organizzative, sociali.
Per muoversi in questa direzione è necessario togliere di mezzo le rappresentanze sociali e lo si fa, in maniera più o meno palese, con la rappresentazione del “sindacato che si arrocca in difesa dei protetti e tutelati” e del “sindacato che non protegge i non protetti e i non tutelati”. Sia chiaro, il sindacato è una associazione di iscritti e in quanto tale ha a cuore la condizione dei suoi iscritti così come per qualsiasi struttura associativa, ma imputare questo “forma mentis” alla CGIL che da sempre ha sostenuto il valore di una rappresentanza generale ben oltre agli interessi “corporativi” dei propri iscritti è un assurdo storico che mortifica proprio chi intende proporlo.
Per questo la nuova classe sociale dei governanti-rottamatori dovrebbe essere sottoposta a scolarizzazione obbligatoria con l’obbligo di cimentarsi nella rilettura storica di quanto è accaduto in Italia. Ma questo non è il compito che intendo assumere con queste non troppo brevi annotazioni.
Sarebbe altresì sufficiente chiedersi “come e perché” si sono alimentate decine di forme contrattuali solo in minima parte frutto di specifiche esigenze produttive mascherando la precarietà sempre più invasiva con le esigenze di una flessibilità già ampiamente disponibile. Il sindacato ha consentito tutto ciò? Il sindacato ha fatto male la sua parte? Si forse il sindacato avrebbe potuto essere più radicale, avrebbe potuto essere “meno moderno” non inserendosi in una spirale dove la “modernità” ha prodotto tutti questi piccoli mostri. Ma il “forse e il meno” segnalano che in ben altri luoghi sono arroccate le responsabilità e che tutto ciò centra poco con quanto si sta cercando di fare in questi mesi.
Non è Renzi né il suo governo che rivendicano “la universalità dei diritti” e non è il sindacato che si oppone al superamento della precarietà. Lo dimostra il fatto che sull’idea di contratto a tempo indeterminato (ancorché a tutele crescenti) ci sono margini importanti di discussione e di condivisione. Si tratta di capire quali sono le forme e i luoghi del confronto, si tratta di capire se e come si cancellano tutte quelle forme contrattuali palesemente usate per alimentare la precarietà, si tratta di capire se si parla di sostanza o ci si trincea dietro ad una moltitudine di slogan senza contenuti. E intanto cresce la precarietà e cresce la disoccupazione.
Detto ciò sia chiaro, quando parlo di abbassamento dell’asticella dei diritti (che in questo caso per il governo e le forze che lo sostengono si tratterebbe di togliere i privilegi) parlo di “diritti teoricamente disponibili” quali ad esempio quelli sull’organizzazione del lavoro. Non parlo certo dei “diritti indisponibili” in un concetto moderno di civiltà giuridica del lavoro quali quelli tutelati dall’art.18 dello statuto dei lavoratori già abbondantemente saccheggiato dal governo Monti.
Il concetto di “licenziamento illegittimo” non è aggirabile: legittimo o illegittimo non sono “sinonimi “ ma “opposti” e, in quanto opposti non possono conciliarsi con soluzioni tali da non ripristinare la legittimità. Nel caso del lavoro la legittimità è il lavoro, non il risarcimento economico e scardinare questo concetto significa scardinare un concetto generale del diritto.
Per questo, da buon “conservatore”, rimango fermo ai “senza se e senza ma” che caratterizzarono il 23 Marzo del 2002. Sono passati 12 anni da quella data ma non sono mutate le ragioni di una radicalità sulla quale il cedimento è un errore imperdonabile.
Ciò che dovrebbe accompagnare il percorso dello Jobs Act è l’orgoglio di difendere il lavoro partendo da ciò che oggi è senza enfasi propagandistiche e mettendo in campo tutti gli “argomenti” che abbiamo a disposizione per dimostrare che si può superare la precarietà e che il mancato rilancio della nostra economia non dipende dalla somma di diritti che regolano il mercato del lavoro. Per questo mi sono appassionato nella lettura di uno scritto recentissimo di Riccardo Realfonzo apparso sulla rivista on-line Economia e Politica.
Il saggio parte dalla domanda se siamo “superprotetti” e affronta i concetti di flessibilità del lavoro, dualismo e occupazione. L’analisi molto attenta prende in considerazione dati pubblici, comparazione tra i Paesi dell’UE, valutazione storica sulla parabola delle tutele nel nostro Paese. Lo offro, per chi ne avrà voglia, alla vostra lettura
1° interrogativo: “Ridurre le tutele non aumenta l’occupazione!”
Il governo intende procedere con il Jobs Act introducendo il contratto unico a tutele crescenti: una nuova tipologia contrattuale che potrebbe semplificare la normativa sul lavoro se si accompagnasse alla cancellazione della selva di contratti a termine e a una revisione degli ammortizzatori sociali.
La questione più controversa è se questa nuova riforma debba o meno portare a una riduzione della precarietà del lavoro e, in particolare, se si debbano confermare – una volta che il lavoratore abbia maturato il massimo delle tutele – i livelli di protezione garantiti oggi dal contratto a tempo indeterminato, incluso il principio del reintegro dei lavoratori licenziati senza giusta causa prescritto dall’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori.
Esponenti del governo e alcuni studiosi ritengono che l’obbligo di reintegro generi una sorta di superprotezione dei lavoratori a tempo indeterminato, responsabile di accentuare il dualismo del mercato del lavoro italiano, cioè la compresenza di lavoratori superprotetti e lavoratori precari (non protetti), e sia quindi dannoso per gli investimenti e per l’occupazione.
Ma questa tesi suscita forti opposizioni.
Proviamo allora a valutare, dati alla mano, la qualità delle analisi e delle proposte del governo.
A questo scopo, Riccardo Realfonzo fa ricorso al database messo a disposizione dall’OCSE per calcolare l’Employment Protection Legislation Index (EPL), che misura il grado di protezione generale dell’occupazione previsto dall’assetto normativo-istituzionale di ciascun Paese.
Nell’articolo si sottolinea che “Il database permette di stimare separatamente anche il grado di protezione dei contratti di lavoro “regolari” (a tempo indeterminato) e di quelli a termine. La protezione del lavoro a tempo indeterminato è misura dall’indice l’EPRC e scaturisce dall’analisi di quattro set di indicatori relativi ai vincoli procedurali e temporali, al livello degli indennizzi, alle difficoltà di licenziare e alla disciplina del reintegro, alla disciplina dei licenziamenti collettivi.
La protezione del lavoro a termine è invece misurata dall’indicatore EPT, che considera il grado di protezione dei lavoratori con contratti a termine e la disciplina che concerne le agenzie interinali. Il principio è che tanto più la legislazione accentua la flessibilità del mercato del lavoro – eliminando protezioni, vincoli e costi per le imprese, intervenendo sulla disciplina dei contratti a tempo indeterminato e a termine – tanto minore risultano i due indicatori EPRC e/o EPT e così anche l’indicatore generale EPL.
L’analisi del grado di flessibilità del mercato del lavoro condotta sulla base dei dati OCSE permette di evidenziare che – con eccezione della Francia, dell’Austria e dell’Irlanda – tutti i paesi dell’Eurozona negli ultimi 25 anni hanno ridotto sensibilmente la protezione del lavoro, rendendo molto più flessibili i loro mercati.
L’Italia è tra i paesi che si sono impegnati a fondo nel ridurre la protezione dell’occupazione, riducendo le tutele di oltre il 40%, dal valore 3,82 del 1990 al 2,26 del 2013. Si tratta di un valore appena superiore a quelli registrati da Olanda, Finlandia, Germania, Belgio e Grecia (per non parlare di Irlanda e Austria, che hanno mercati fortemente deregolamentati), ma inferiore a quelli di Spagna, Portogallo e Francia.
Occorre anche sottolineare che questi dati sono fermi alla fine del 2013 e quindi non considerano gli effetti del decreto Poletti, il quale comporta una ulteriore riduzione dell’EPL che sarà registrata dall’OCSE il prossimo anno.
Risulta quindi evidente, conclude Realfonzo, “che il grado generale di flessibilità del mercato del lavoro in Italia è ormai in linea con la media dell’eurozona.”
L’analisi dei dati OCSE ha anche permesso di chiarire inequivocabilmente che le politiche di flessibilità del lavoro non hanno avuto alcun successo negli ultimi 25 anni nel ridurre la disoccupazione in Italia e nell’Eurozona.
Vengono citate a riguardo le conclusioni cui è giunta la stessa OCSE nel negare l’esistenza di una correlazione tra flessibilità e occupazione. Altrettanto famose sono le conclusioni del capo economista del FMI – l’influente Olivier Blanchard – che in uno studio del 2006, sostenne che “le differenze nei regimi di protezione dell’impiego appaiono largamente collegate alle differenze tra i tassi di disoccupazione dei vari Paesi”.
Addirittura, in uno studio recente, lo stesso Realfonso aveva evidenziato come, operando una correlazione con metodologie tradizionali tra la variazione della protezione del lavoro e il tasso di disoccupazione per il periodo 1990-2013, emerga un segno negativo: al ridursi della protezione del lavoro il tasso di disoccupazione tendenzialmente è incrementato.
È dunque molto imbarazzante – questa la sua conclusione – che nel dibattito di politica economica italiana ci sia chi ancora si appella all’idea secondo cui la flessibilità del lavoro favorisca la crescita dell’occupazione.
2° interrogativo. I lavoratori italiani a tempo indeterminato sono superprotetti?
Nell’articolo il Prof. Rialfonzo (dimenticavo di dire, per chi non vuol leggere la sua biografia, che è stato professore ordinario di Fondamenti di Economia Politica presso l’Università degli Studi del Sannio, dove attualmente è preside di Economia aziendale) parte dall’assunto che siamo in presenza di una “tesi che sta dietro la proposta di un contratto a tutele crescenti che escluda l’articolo 18 – con la disciplina del reintegro – è che una eccessiva protezione dei lavoratori approfondirebbe il dualismo tra lavoratori protetti e non protetti e disincentiverebbe gli investimenti italiani e stranieri.”
Avendo già escluso, con le argomentazioni precedenti, un problema di scarsa flessibilità complessiva del mercato del lavoro italiano, lo studio intende verificare se vi sia oggi in Italia, in vigenza della normativa sul reintegro, una eccessiva protezione dei lavoratori a tempo indeterminato.
Per procedere “al riparo da suggestioni ideologiche e faziosità,” vengono utilizzati i dati contenuti nel database Ocse, facendo ricorso all’indice che esprime il grado di protezione dei lavoratori con contratti a tempo indeterminato (EPRC).
I dati fanno emergere che la protezione del lavoro a tempo indeterminato in Italia risulta sostanzialmente in linea con la media dell’Eurozona. Va segnalato però che la protezione dei lavoratori italiani risulta essere inferiore a quella che si registra nei principali paesi con cui a senso effettuare il confronto: la Germania e la Francia. In Italia, infatti, il grado di protezione è stimato pari a 2,79 mentre il valore francese è 2,82 e quello tedesco addirittura 2,98.
Afferma il Prof. Rialfonzo che “non è quindi fondato, alla luce del confronto internazionale, affermare che i lavoratori italiani con contratti a tempo indeterminato sarebbero superprotetti.“ Salvo ovviamente a voler sottolineare che anche queste protezioni “di medietà” non sono in linea con le “esigenze dei mercati” e degli azionisti.
Il saggio continua nell’approfondimento dei fattori che determinano la protezione del lavoro a tempo indeterminato – quindi il valore dell’indicatore EPRC – con un riferimento all’Italia, alla Francia e alla Germania. I dati che emergono sono i seguenti:
Al di là delle altre differenze che emergono all’analisi della tabella, si desume che “le difficoltà di licenziare in Italia risultano maggiori rispetto a quelle che si registrano in Germania ma minori rispetto a quelle francesi”.
Al tempo stesso, è molto significativo sottolineare che “per quanto riguarda la specifica disciplina del reintegro – e dunque la questione connessa al famoso articolo 18 – la protezione del lavoro in Italia è stimata inferiore alla Germania” (l’indice ha un valore 2 in Italia e 3 in Germania).
Se si allarga il confronto agli altri paesi dell’eurozona, si potrebbe osservare che lo specifico indicatore relativo alla protezione del lavoro mediante la disciplina del reintegro risulta in linea con Danimarca, Irlanda, Olanda, la Polonia. Si osserva una protezione inferiore rispetto non solo alla Germania, ma anche alla Grecia, alla Norvegia e al Portogallo, mentre risulta maggiore rispetto alla Francia, alla Spagna, al Belgio e alla Svezia.
Questi dati possono stupire solo chi ha assunto la questione del “reintegro” in questo caso sì “in termini ideologici” perché si insiste nel non voler cogliere e monitorare l’evoluzione della normativa italiana e “il pesante depotenziamento del principio del reintegro nel nostro Paese”, cui abbiamo recentemente assistito con la riforma Fornero.
Il rischio che i pervicaci difensori dell’art. 18 si convincano che l’attuale incomprensibile accanimento su questo specifico tema sia il frutto del balzello da pagare a Forza Italia e a NCD per il sostegno diretto o mutuo su quanto sta facendo questo governo.
Le posizioni estreme dell’ex ministro Sacconi e quelle dell’onorevole Brunetta sono ben note, datate, pervicacemente reiterate quasi a voler “pulire” la propria immagina antica da qualsiasi contaminazione con ciò che resta della sinistra italiana.
Il riferimento alla cosiddetta “riforma Fornero” del 2012 è confermato, anche in questo caso, dai dati OCSE che registrano come a seguito di quella riforma, l’indicatore del grado di protezione relativo al reintegro è passato dal valore 6 degli anni precedenti (il più alto della scala) al valore 2 del 2013, scendendo al di sotto del dato tedesco.
Sono questi dati e non una visione ideologica che permettono di affermare, in linea alle deduzioni del Prof. Rialfonzo che “non esiste alcuna superprotezione dei lavoratori italiani a tempo indeterminato nel quadro dei confronti interni all’Eurozona.”
L’idea che la disciplina attuale dell’articolo 18 faccia dei lavoratori italiani a tempo indeterminato dei privilegiati superprotetti non è altro che una favola e come tale non ha alcun fondamento scientifico, ne economico, ne sociale.
3. Il mercato del lavoro italiano non è più dualistico della media europea?
Ho inteso evitare, nell’affrontare il nodo Jobs-Act, l’uso di argomentazioni proprie della mia organizzazione sindacale per non cadere nella banalità delle argomentazioni usate dal nuovo corso della politica del Centro Sinistra.
Per questo mi sento rinfrancato nelle mie convinzioni in quanto è una lettura attenta della realtà a confermare che “il grado generale di flessibilità del mercato del lavoro italiano compresa la protezione dei lavoratori con contratti a tempo indeterminato “sono elementi di politica sociale e di entità economica in linea con la media europea.”
Per questo non posso che concordare con l’affermazione fatta dal Prof. Rialfonso quando dice che “ l’idea che il mercato del lavoro italiano sia caratterizzato da dualismo superiore alla media europea, frutto della super protezione di alcuni lavoratori, risulta essere una pura fantasia”.
Ad ulteriore conferma che gli appassionati cultori dei “post” sui social network quasi sempre si limitano a cliccare senza un concreto approfondimento del problema, quest’ultima affermazione del Prof. Rialfonso mi sembra meriti un supporto concreto proprio per non apparire velleitaria.
In questo caso è sufficiente considerare, sempre dati OCSE, “il rapporto tra l’indicatore di protezione del lavoro a termine (EPT) e l’indicatore del lavoro a tempo indeterminato (EPRC) che determina la misura del dualismo del mercato del lavoro.” Quanto minore è questo rapporto tanto meno risultano protetti i lavoratori a termine rispetto a quelli a tempo indeterminato e tanto maggiore è il dualismo del mercato del lavoro.
Nell’Eurozona il mercato del lavoro italiano registra un valore medio del rapporto tra protezione dei lavoratori a tempo indeterminato e dei lavoratori a termine mentre proprio la Germania, presa a modello dal Governo Italiano, ha un mercato del lavoro esasperatamente dualistico, ben più di quello italiano, con lavoratori a tempo indeterminato più protetti dei nostri e a lavoratori a termine con bassissime tutele.
Credo che solo una esasperazione “neo-ideologica” appartenente a questa compagine governativa può alimentare una propaganda che non trova elementi concreti di aggancio. Si potrebbe concludere che “chiunque intende affrontare il tema del conflitto tra lavoratori garantiti e non garantiti proponendo una sorta di apartheid per quest’ultimi, farebbe bene a riferirsi al modello tedesco piuttosto che al modello italiano.
Un’analisi attenta di quanto è accaduto in Germania dopo la riforma Hartz, citata a sproposito dai neo riformatori italiani, potrebbe comprendere che proprio quella riforma“ha fornito un contributo decisivo alla drammatica divaricazione delle tutele in Germania.”
Infatti, tra il 2002 e il 2005, gli indicatori tedeschi di protezione del lavoro a termine si dimezzavano, mentre contemporaneamente veniva fatto leggermente crescere, al livello attuale, il grado di protezione del lavoro a tempo indeterminato.
Dal punto di vista dell’effetto complessivo sull’abbattimento delle tutele del lavoro, in Italia “solo il Pacchetto Treu è stato più incisivo delle riforme Hartz.”
Il mercato del lavoro italiano è dunque flessibile come la media dei mercati dell’Eurozona, dal momento che le riforme degli ultimi quindici anni si sono occupate di ridurre drasticamente la protezione del lavoro.
Ciò che appare strano è che Governo e maggioranza del PD che lo sostiene evitano senza alcun scrupolo il confronto di merito. Il parlamentare europeo del PD Sergio Cofferati in una recente intervista a Repubblica ha posto questioni che oserei dire “etiche” sulla materia ma, probabilmente, nessuno di lor signori sembra interessato a leggere e, eventualmente replicare sul merito.
Ne propongo solo due passaggi significativi per rispondere a quanti si ostinano ad affermare che si sta sbraitando senza neppure conoscere il merito dei provvedimenti.
Afferma Cofferati che: “Il governo, con il suo emendamento al Jobs Act, ha messo nero su bianco l`eliminazione dell`articolo 18. Ed è riuscito a farlo senza doverlo nemmeno nominare: Il reintegro sul luogo di lavoro non c`è più, non è previsto in nessun caso. Il guaio è che di questa sparizione non tutti sembrano essersene accorti. Basta leggere con attenzione il punto dove l`emendamento introduce il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all`anzianità di servizio. Non si prevede esplicitamente il mantenimento del reintegro sul posto di lavoro, anzi si usa la stessa formula che compare in alcune delle proposte che intendono sostituire il reintegro con il risarcimento monetario. Di fatto si elimina quella parte riguardante l`articolo 18 che era sopravvissuto alla riforma Fornero ».
Si dirà che Cofferati è l’uomo che organizzo il 23 Marzo del 2002, che è stato segretario della CGIL, che, che, che…………Ma sul merito non si dice nulla.
Concludo una nota che è sicuramente troppo lunga ma si tratta di una materia che solo gli sciocchi liquidano con battute più o meno felici senza mai entrare nel merito. So bene che ho espresso poco il mio parere e ho usato argomentazioni e studi altrui. Ma la materia è troppo seria per affrontarla da apprendisti stregoni come sta accadendo in queste settimane.
A chi dice che il sindacato non si è occupato della precarietà chiedo onestà intellettuale oltre che politica. Chi se ne è occupato se non il sindacato? Certo si poteva fare di più, si poteva fare meglio ma c’è chi dimentica che alle migliaia di precari o di lavoratori delle micro imprese è praticamente inibito il rapporto con il sindacato.
Ricordo a me stesso le assemblee fatte con i lavoratori stagionali degli impianti di risalita: si arrivava nel tardo pomeriggio nel bar delle vallate venete che gentilmente ci ospitava, la sala era quella dove si giocava a briscola o tresette, un tavolo con due sedie dietro e l’attesa dell’arrivo dei lavoratori. Che arrivavano perché i problemi esistevano e quello era anche il loro bar. Ma si fermavano nella sala accanto. Noi si parlava dei loro problemi, si indicavano le possibili soluzioni e loro ascoltavano ma rimanevano di là, nell’altra stanza perché di sindacato ne avevano bisogno ma a loro il sindacato era inibito dal Padrone che, il giorno dopo, poteva spiegare che la stagione era terminata.
E’ un esempio ma, ai tanti assertori della deregolamentazione, propongo di frequentare gli uffici vertenze del sindacato per poter scoprire un mondo che lor signori, con la camicia bianca e la cravatta nel cassetto perché il Capo la usa solo nelle ricorrenze ufficiali, non hanno mai visto ne vedranno mai.
Ma la Divina Provvidenza non pone un termine per la riconversione.!
“La discriminazione non si misura con il metro della quantità, e in un Paese civile non può non esserci una norma che garantisce dignità alla persona che lavora. Una legge che non tutela il lavoratore allontanato per motivi discriminatori è un inaccettabile passo indietro. Pensare di compensare un’ingiustizia dichiarata e riconosciuta con dei soldi è indice di un impressionante arretramento culturale”. (Sergio Cofferati-Intervista a Repubblica)
Italo Stellon
Presidente INCA – CGIL Parigi.
Jobs Act – La casa della nuova ideologia
Rispondo qui alle note di Luca Saini, che ringrazio per le attestazioni di stima che ricambio. Le sue osservazioni le trovate alla fine della mia breve replica.
Caro Luca,
3 osservazioni tra il tecnico e il divulgativo.
Essere « nella media europea » in se non significa nulla se non constatare un fatto ed evitare di utilizzare argomenti artificiosi per giustificare le azioni che si intendono compiere: é la sola modalità che permette di fare scelte basate su analisi concrete e sostenute da soluzioni che « portano ai risultati voluti » siano asse gradite o non gradite.
La precarietà, o meglio la flessibilità introdotta per rispondere ad esigenze « operative » si è via via trasformata in precarietà proprio per la non corrispondenza tra uso dello strumento e motivazione del suo utilizzo. Il lavoro « flessibile » nasce con la consapevolezza di essere « più costoso » del lavoro normale proprio per la specificità della sua natura. Basta pensare all’intero alle con gli evidenti costi della intermediazione di mano d’opera.
È la trasformazione da flessibile a precario che ne abbatte i costi trasformandolo quasi sempre da « legittimo ad illegittimo » producendo un damping sociale che ha permesso di mantenere i salari reali italiani tra i più bassi nell’Europa dei 12.
La caratteristica del « sistema azienda italiano » ha poi fatto la sua parte per produrre la situazione attuale. In particolare la piccola e media impresa ha perso la sua competitività non tanto e non solo per il cosiddetto « costo globale del lavoro » ma per l’assenza di processi innovativi tale da mantenerne la competitività qualitativa. Nel mitico Nord Est degli anni 80 e 90 la competitività era determinata sia dalla caratteristica innovativa di prodotto sia dalla costante svalutazione della lira che permetteva una « rendita artificiosa » non legata alla produzione. Nello stesso tempo cresceva la fame di profitti che non si traducevano in investimenti ma in rendita. La fine della svalutazione, la mancata innovazione, l’ ingresso di nuove economie cresciute senza regole hanno prodotto la fine di una stagione.
L’art. 18 è l’art. 18. Il concetto del reintegro voluto dai legislatori di allora nasce proprio da una scuola di pensiero sociale e filosofico che tendeva a introdurre regole universali su argomenti dove i diritti della « persona » venivano vessati con evidenti e chiare azioni discriminatorie. Non é vero che il reintegro si è quasi sempre trasformato in risarcimento: è però vero altresì che nei casi di ricorso al risarcimento, la valutazione sulla ragione del risarcimento stesso in alternativa al reintegro nasce dalla oggettiva condizione « di soggetto debole » del lavoratore licenziato e dal rischio concreto di un suo reinserimento « fragile » e costantemente esposto. Il problema è che a valutare queste condizioni è un soggetto terzo che si chiama magistrato e non invece una normativa generale che annulla il diritto inalienabile a non essere discriminato.
So bene, caro Luca, che la competitività oramai su scala planetaria non consente scorciatoie per nessuna economia. Ciò dovrebbe indurre ad una rilettura storica del l’avvento del capitalismo e delle trasformazioni con conseguente capacità di riformulare principi di governo mondiale dei fattori macroeconomici. Dovrebbe indurre le forze progressiste a non fermarsi a guardare il dito ma ad osservare la luna, a ripensare ad un nuovo internazionalismo che abbiamo perso per strada e che se non ripensato esporrà in particolare l’Europa ad essere divorata nello stesso tempo da se stessa e dalle sue non superate velleità nazionali e dalla pressione di intere parti del mondo che reclamano ciò che noi oggi abbiamo.
Ma questa è un’altra storia che sarebbe bello però poter affrontare.
Inviato da iPad
Il giorno 07/ott/2014, alle ore 00:41, lucas.saini@numericable.fr ha scritto:
Italo
ho postato qui i miei commenti.
luca
Message d’origine —-
De : lucas.saini@numericable.fr
À : pd-paris@googlegroups.com
Objet : Re: articolo di Italo Stellon sul Jobs act su Altritaliani.
Date : 07/10/2014 00:01:07 CEST
Se non ti spiace Nicola, replico qui, nel luogo dove il link all’articolo è stato proposto, analogamente a quanto facciamo per tutti gli altri articoli postati.
Critica generale ad Italo (che stimo molto, personalmente): articolo molto tecnico, di non facile lettura, almeno per me. Riconosco che la materia è di per sè molto tecnica, ma avrei preferito un taglio più divulgativo.
Comunque
premesso che sulla vicenda dell’art.18 non sono fra quelli che dicono di abolirlo come condizione per arrivare a parificare i « diritti » fra coloro che sarebbero iperprotetti e coloro che non lo sono, vorrei comunque sottolineare alcune cose:
siamo nella media europea: l’articolo porta evidenze secondo le quali sia in materia di tutele che in flessibilità lavorativa l’Italia sarebbe in media europea. Faccio notare che detto così, uno potrebbe allora affermare che non ci sia alcuna necessità di fare una riforma del lavoro. Stiamo in media e quindi non facciamo nulla. Questo per sottolineare il carattere difensivo dell’articolo. Io avrei preferito invece un taglio più netto in pro-qualcosa portando evidenze che lo giustificassero
sulla questione dei licenziamenti illeggitimi. Mi ha colpito questa frase che riporto « Il concetto di “licenziamento illegittimo” non è aggirabile: legittimo o illegittimo non sono “sinonimi “ ma “opposti” e, in quanto opposti non possono conciliarsi con soluzioni tali da non ripristinare la legittimità. Nel caso del lavoro la legittimità è il lavoro, non il risarcimento economico e scardinare questo concetto significa scardinare un concetto generale del diritto »
Fatto salvo che come si evince dai dati riportati nell’articolo stesso, in Francia, oggi non è così, perchè la reintegra di fatto non esiste e tutto è regolato da un indennizzo economico, faccio notare una contraddizione reale che esiste in questo enunciato. Di fatto, se non mi sbaglio e la CGIL potrebbe portare dati reali, nella maggior parte dei casi giudiziari in cui il reintegro è stabilito, il contenzioso si traduce alla fine comunque in un indennizzo solo che è più sostanziale anche se in questo caso è il lavoratore che mena la negoziazione. Quindi di fatto, si assiste in uno svilimento del diritto al lavoro in favore di una maggior sua mercificazione. E questo in realtà significa che il ricorso al giudice e la possibilità di reintegra viene accettata non per tutelare un diritto sacrosanto ma per aumentare la deterrenza contro gli abusi degli imprenditori. Ma ricordo che la deterrenza per un imprenditore funzionerebbe assai bene proprio se questa viene ben quantificata. D’altro canto, se si volesse invece stabilire il valore non negoziabile di un diritto al lavoro, si dovrebbe esplicitamente vietare la possibilità di optare per un indennizzo. Ovvero il lavoratore reintegrato deve rientrare in fabbrica/ufficio senza che poi lavoratore ed imprenditore possano rinegoziare un indennizzo. Entrambi devono essere obbligati ad accettare la reintegra.
quanto alla flessibilità/precarietà, concordo con il dire che l’attuale struttura italiana dei vari tipi di contratti atipici è assurda. Ma l’assurdità sta non solo perchè rende precari milioni di lavoratori ma per il fatto che questi contratti sono in gran parte sottopagati. E’ il combinato dei due aspetti che è deleterio. Ma sulle ragioni per cui tutti i nuovi contratti atipici siano sottopagati non esiste una analisi. Io ho vagamente l’impressione che il numero così massiccio di lavoratori con contratti atipici è proprio dovuto al fatto che siano pagati pochissimo in termini salariali, contributivi ed altri accessori. In altre parole questi contratti servono alle imprese per tener basso il costo del lavoro e sono stati introdotti essenzialmente per questo scopo. Qui sta la vera questione. Perchè le imprese italiane (e non solo) devono/vogliono tenere basso il costo del lavoro ? Perchè vogliono tenere alti i profitti ? o perchè non hanno scelta, pena la loro morte ? Perchè fosse vera la seconda ipotesi sono cavoli amari per tutti. Superare le varie forme di contratti atipici significherebbe dover proporre un contratto, magari anche a tutele crescenti, ma con un costo del lavoro generato che deve essere più basso. E questo lo ottieni o scaricandolo sui salari dei lavoratori (più tutelati ma con meno salario dei miseri salari attuali) o scaricandolo sulla collettività, che poi si traduce in più tasse per tutti. Bene su questo punto non ho visto grandi analisi salvo coloro che affermano la necessità di aumentare in realtà la produttività come unica maniera di aumentare i salari. E per fare quest’ultimo passo temo che ci vogliano soluzioni e sopratutto tempo.
Luca