Isabella Panfido, in questo suo nuovo libro propone un percorso dove le presenze e le assenze sono sostanzialmente declinate al maschile, traducendone i contenuti, mostrandoci squarci aperti sulle riflessioni, laddove il punto di osservazione che conduce alla poesia passa dall’introspezione all’esposizione, alternando la misura del centro di gravità conferito al luogo della poesia identificato nelle varie campiture. Opera intensa davvero questa di Isabella Panfido.
Isabella Panfido, veneziana, giornalista pubblicista, collabora alle pagine culturali di «Il Corriere del Veneto». Ha ideato e condotto la trasmissione L’arca delle parole, programma radiofonico dedicato alla poesia per «Radio 24 IlSole24ORE».
Ha pubblicato il libro Casa di donne (Marsilio 2005), la plaquette A pelo d’acqua (Premio Firenze 1997 poesia inedita), il libro d’artista Pantone con un’opera di Piero Guccione (Colophonarte 2012), una traduzione/ trasposizione di 33 sonetti di Shakespeare in veneziano Shakespeare alla veneziana (Santi Quaranta 2012); La grazia del danno (La vita felice, 2014); sue poesie sono state tradotte in spagnolo, inglese, sloveno. Traduce poesia dal russo e dall’inglese. Ha curato la riedizione di Poesie dialettali di Ernesto Calzavara (Canova, 2006) e curato e tradotto la versione integrale di Memorie di una contadina di L. Tolstoj e T. Kuzminskaja (Casagrande, 2008).
Non conosco personalmente Isabella Panfido ma ho letto il suo ultimo libro, La grazia del danno, e ne ho apprezzato le intenzioni, la poetica, lo stile utilizzato tanto da pensare di condividere le mie impressioni in questo nuovo articolo di Missione poesia, cercando di restituire l’intensità del lavoro dell’autrice, in una dimensione dove sia possibile condividere il suo percorso non solo a livello emozionale ma anche esistenziale.
LA GRAZIA DEL DANNO
Spesso già dal titolo di un libro è possibile intuire di riflesso un contenuto emozionale. Non trascende da questa regola il lavoro di Isabella Panfido La grazia del danno (La vita felice Edizioni, 2014) perché, leggendolo, da subito ci fa entrare nel cuore della poetica dell’autrice, ponendoci di fronte al dilemma di quale interpretazione dare alla parola “grazia” in relazione alla parola “danno”: si tratta di una qualità, di una disposizione benevola, di una concessione soprannaturale o straordinaria, è l’espressione di un sentimento di gratitudine? Che cosa ha a che fare questa parola con l’altra, dato che risultano completamente in antitesi? Qual è il senso di questo che, in apparenza, sembra un vero e proprio azzardo ossimorico?
Naturalmente per rispondere a queste domande è necessario entrare nel cuore di testi, ricercarne i contenuti più profondi, varcare confini e allacciare trame con le pagine dei vari capitoli, che si susseguono incalzanti, posizionati non a caso uno accanto al successivo ma, al contrario, facenti parte di un percorso di costruzione di senso essi stessi, attraverso la via tracciata dall’autrice.
Allora, seguendo probabilmente una delle tante interpretazioni del ventaglio che, sempre, la poesia mette a disposizione del lettore si può pensare di aprire un varco per guardare oltre le parole, per carpirne i più profondi stadi interiori. La Panfido, che in passato si era occupata di tematiche più legate alla dimensione femminile (Casa di donne), questa volta prova a intraprendere una strada più in salita, dove le presenze e le assenze sono sostanzialmente declinate al maschile, se pure sono certo l’occhio e il cuore dell’autrice che ne traducono i contenuti, e ce ne mostrano gli squarci aperti sulle riflessioni, laddove il punto di osservazione che conduce alla poesia passa dall’introspezione all’esposizione, alternando anche la misura del centro di gravità conferito al luogo della poesia identificato nelle varie campiture.
Così, se in apertura incontriamo una piccola galleria di sculture – che rendono conto anche del valore attribuito all’arte in generale – dove troneggia una Pietà che infonde tutto lo sgomento della tregua alla gioia – preludio di altri sgomenti -, nella sezione Lavori di stagione incontriamo attraverso le ricche metafore campestri alimentate con elementi della natura (rosai, tigli, il fiume, la nebbia, gli orti…), con le attività che la terra richiede come il vangare, il recidere, lo scavare, con i viaggi sul Piave e l’Adriatico dove dissodare terre marine/arare pietrai di golena/seminare sulle rovine, incontriamo – dicevo – l’allegoria nascosta dello scollamento dalla vita, dove al Fuori corrisponde sempre un Dentro, un punto preciso che rappresenta l’incantamento per l’amore: uno nell’altra/nel moto del respiro e di rivoluzione della terra. Qui sta uno dei nuclei centrali del libro: il rapporto con l’amore e le sue sfaccettature. Un amore cantato, affermato, raccontato. Un amore su cui tornare spesso anche dolorosamente.
Nella sezione Pantone (identificando e classificando i colori) ritroviamo il verso che dà il titolo al libro, e che conclude con uno svelamento, con una dolorosa rivelazione sulle ferite lasciate da quello stesso amore, il testo che apre la sezione. Qui, i colori raffigurano immagini ed emozioni, stagioni e confini, nel loro susseguirsi in scrupolosa sequenza, nel loro rappresentare la tavolozza della vita, la geografia poetica dei luoghi dove accadono cose che si identificano in un solo colore che le marchia per sempre.
Ma, è nelle sezioni Nella lingua degli uomini, Al campo N e Meccano che si concentra il cuore pulsante della poesia della Panfido. Un cuore in cerca di medicamenti per quel danno menzionato nella sezione precedente, il danno provocato da una mancanza, da un’assenza, il danno esistenziale di ciò che pensiamo confrontandoci con l’infinito, il nostro essere finiti: forse il danno più antico del mondo che è lo stesso danno capace di farti vedere una soluzione, una grazia che infine ti consoli. Ma prima, il danno va misurato e con lui bisogna misurarsi: nella noia delle sere assennate, nell’autunno di un’ultima vendemmia, nel rancore portato in pellegrinaggio.
Va misurato con il ricordo del padre (in testi di una bellezza estrema, dove rarefatta è l’aria da respirare, e si legge come in apnea): Scorri sotto la mia pelle/perduto e fondo/ti sento/nel breve battito del polso,/suono sepolto/della mia sorgente. Va confrontato con la presenza del figlio in cui specchiarsi: Non mi stupisco del mio viso nel tuo,/ma delle tue mani assennate/che invadono lo specchio dell’ingresso./ Sei l’ultimo uomo e il primo,/mio figlio e padre, altro irrevocabilmente […]
Va, infine, riassunto in un testo conclusivo dove il bilancio di ciò che resta, di ciò di cui siamo fatti, di ciò che l’autrice sente come parte della sua stessa essenza (del nome di mio padre,/dell’essere madre) è davvero la grazia che si trasforma in riconoscenza per ciò che è, e ciò che non è d’improvviso scompare.
Libro intenso davvero questo di Isabella Panfido, libro vertiginoso e duro in certi punti che sembrano di non ritorno, lirico nei momenti in cui l’autrice si lascia un andare, efficace nello stile e nel lessico, risuonante di assonanze e rime spesso interne, quel tanto che basta a tener su la poesia. Certo si riscontrano echi della nostra tradizione più classica da Dante a Caproni, da certi sguardi lungamente ricercati di Montale o Sereni, e questo è inevitabile e auspicabile ma, senza dubbio, l’impronta personale che caratterizza tutto il lavoro è forte, tanto da renderne una cifra stilistica compiuta e riconoscibile.
Da: La grazia del danno
L’odore animale dei sambuchi ***** Dopo l’ultimo sole del mio inverno L’abbaglio nella temporanea cecità e svela inattesa la grazia del dono ***** Giorni di mezzo inverno e vita a mezzo. Cinzia Demi ***** P.S.: Chiunque volesse intervenire con domande, apprezzamenti, curiosità può farlo tramite il sito cliccando sotto su “rispondere all’articolo” o scrivendo direttamente alla curatrice stessa all’indirizzo di posta elettronica: cinzia.demi@fastwebnet.it
che parla a te di botanica,
nel modesto lembo di selva
ingemmato
di agri ristori per turisti
a me, che come un cane
inspiro questa fremente
traccia di gioia
per reprimere la noia
delle nostre sere assennate,
dice che sono tornati i naufragi
nell’aria impazzita di odori
che ora nel rovescio del tempo
il danno ha centrato la bolla.
resta imbrigliato dietro le palpebre
un grumo palpitante
che non è luce
ma come una ferita
dona luce alla carne.
illumina il fondo
intatto
come l’innocenza di una bestia
E meno chiedo più io sono grata
delle mani che bastano al giorno,
degli occhi per il limite del passo,
della lingua che succhia le parole,
delle suole consumate sui sentieri,
della pelle che conosce il mare,
del buio di ieri, della luce fiera di ora,
del nome di mio padre,
dell’essere madre.
Bologna, aprile 2016
“MISSIONE POESIE” è una rubrica culturale di poesia italiana contemporanea, curata da Cinzia Demi, per il nostro sito Altritaliani.
Per scoprire i contributi già pubblicati:
http://www.altritaliani.net/spip.php?page=rubrique&id_rubrique=58.