I libri della scrittrice Silvia Avallone (da “Acciaio”, Rizzoli 2010, fino al recente “Un’amicizia”, Rizzoli 2020) raccontano l’adolescenza e la giovinezza nella profonda provincia italiana. Una provincia dell’anima, sospesa tra la realtà (la fabbrica, i palazzi delle periferie, la distanza da ogni cosa) e l’altrove (l’isola d’Elba davanti a Piombino, vicinissima eppure lontana, la città, la fama sulle reti sociali). È lo stesso mondo raccontato da certe folgoranti intuizioni di Enzo Jannacci ( “come se non c’è altro che fabbrica”), o di Lucio Dalla (“poi c’è qualcuno che trova una moto, si può andare in città”), visto però con gli occhi della generazione nata negli anni Ottanta del secolo scorso.
Ne abbiamo parlato con lei, in occasione della sua venuta a Parigi per il Festival di letteratura e cultura italiane ITALISSIMO che si è svolto dal 6 al 10 aprile 2022. *
*****
INTERVISTA CON SILVIA AVALLONE – Altritaliani Parigi 9 Aprile –
a cura di Maurizio Puppo
Domanda : Il tuo ultimo libro si intitola “Un’amicizia”. L’articolo indeterminativo ricorda “Un amore” di Buzzati.
Silvia Avallone: È un libro che chiude una stagione, di vita e di letteratura, che per me si era aperta con “Acciaio”. Un libro di passaggio, di liberazione, di emancipazione da certi stereotipi femminili ancora così violenti. L’ho scritto con questa spinta: chiudere i conti, scardinare questo articolo “determinativo” che determina noi e le nostre relazioni, che dice che la realtà deve essere o bianca o nera. Dobbiamo riappropriarci dell’articolo indeterminativo. Noi siamo storie, non definizioni. Cambiamo, sbagliamo, anche le nostre relazioni si evolvono. In questa volontà di indeterminazione, “un amore” di Buzzati ha avuto il suo ruolo: mi ha fatto ragionare sulla volontà di dire “l’amore” o “l’amicizia” della nostra vita, quando invece si tratta sempre di uno degli amori possibili, una delle amicizie possibili. C’è sempre un’altra possibilità.
D. : “Un amore” di Buzzati è la storia di una relazione socialmente “scandalosa” tra un uomo maturo e una giovane prostituta. È “scandalosa” anche l’amicizia del tuo libro, tra Beatrice ed Elisa?
S.A. : L’amicizia femminile può essere scandalosa, per una società che ha così tanta paura del femminile. Del suo mistero, della sua complessità, soprattutto della sua libertà. Le donne ancora oggi vengono raccontate, come in tutta la letteratura occidentale, come madri di…, mogli di…, figlie di… Sempre in relazione a uomini. Dentro l’amicizia femminile, invece, sono loro stesse. Spesso l’amicizia femminile è il primo grande serbatoio di indipendenza, libertà, emancipazione. Ha valore anche politico.
D. : L’amicizia esclusiva, simbiotica, a volte serve anche a rendersi invisibile, proteggersi dal mondo.
S.A. : Il tema dell’invisibilità è molto forte in questo libro, e ha molta attinenza sia con l’amicizia sia con la letteratura. Nell’amicizia, come in letteratura, noi siamo soprattutto parole che raccontano ciò che non si deve dire, senza maschere né apparenze. Con la nostra migliore amica raccontiamo la nostra anima, i nostri problemi, i segreti e le vergogne. Lo stesso avviene in un libro: non l’esteriorità, non l’incantesimo dell’apparenza, non le maschere che utilizziamo per nasconderci, ma la rivelazione della nostra interiorità, che è sempre invisibile. Viviamo in una società ossessionata dalla visibilità, che ne è uno dei valori fondanti. Ma quello che noi siamo è invisibile. I nostri sentimenti, i nostri pensieri, la nostra voce, tutto quello che non c’è modo di fotografare ed esibire. E allora cerchiamo disperatamente delle parole che riescano a vincere questa invisibilità, per conoscere e lasciarci davvero conoscere.
D. : Sartre diceva: “l’homme n’est rien d’autre que son projet”, è solo ciò che progetta di essere. Beatrice, nel tuo libro, diventa una famosa “influencer”. È solo questo o anche dell’altro?
S.A. : Non siamo solo ciò che facciamo, ma anche quello che abbiamo consegnato alle persone che ci amano. Per questo è così importante avere un grande amico nella vita, testimone della tua anima. Beatrice diventa famosissima, tutti sanno chi è, ma solo Elisa la conosce davvero, conosce la sua storia. Tutta quella parte che non avrà impatti sul mondo, nelle nostre opere o decisioni, ma è reale, enorme, è parte della verità di noi stessi. Ed è commovente, questo.
D. : Quando tu ti sei ritrovata a essere una persona conosciuta, hai sentito il rischio di vivere questa improvvisa notorietà come una possibile espropriazione dell’io?
S.A. : Sono i miei libri a essere famosi, non io. Io li ho scritti, sono stati importanti come dei figli. Io non sono i miei libri. Mi sono serviti ad affrontare un problema. Sono stati le testimonianze di un mio sguardo sulle cose. E i libri, come i figli, fanno il loro viaggio verso il mondo. Ma io sono l’amore per la letteratura, la passione per la scrittura. Io sono il mio desiderio di scrivere.
D. : Si scrive perché si vive, si vive perché si scrive, diceva Edoardo Sanguineti.
S.A. : Vita e scrittura sono in contraddizione e in costante ricerca l’una dell’altra. Scrivere per me è una forma di conoscenza, come la lettura. Io mi immergo nelle vite degli altri per capire la mia.
D. : Elsa Morante è stata un’autrice importante per te ?
S.A. : Con Elsa Morante ho un legame enorme. La prima scrittrice donna che ho letto. Uno choc : lì mi sono resa conto di essermi formata interamente su autori uomini. Tutta la mia cultura era stata scritta da uomini. Da Omero a Dante a Calvino, avevo solo parole scritte da uomini nella mia testa. Elsa Morante è stata la prima voce femmiile della mia identità, della mia vita di lettrice. Donna libera, controcorrente. Eppure, nonostante i suoi romanzi siano per me i migliori del Novecento italiano nel genere, ha un trafiletto minuscolo nei manuali di letteratura liceali e universitari. Perché è una donna.
D. : Il tuo primo libro, “Acciaio”, racconta le periferie dal di dentro. Non attraverso uno sguardo socialmente e culturalmente esterno a quel mondo, come è il caso, ad esempio, dei libri di Pasolini.
S.A. : La mia personale periferia è la provincia italiana. Non ho mai abitato ai margini di una grande città. In provincia c’è il sentimento della lontananza, il trovarsi lontano dal centro dove accadono le cose, tagliato fuori dalle occasioni, con un destino che ti ha fatto nascere lì e ti dice che morirai li, e non diventerai nessuno. Il sentimento di essere nati nel posto sbagliato e che la felicità sia altrove.
D. : La vita è altrove, dice Kundera. In “Acciaio” l’altrove è l’isola d’Elba. A un passo da Piombino, eppure alle due ragazze adolescenti del libro, Anna e Francesca, sembra un mondo lontanissimo.
S.A. : L’altrove è all’isola d’Elba oppure, nel mio secondo libro (Marina Bellezza) a Milano. Mentre il terzo (Da dove la vita è perfetta) è ambientato a Bologna, dove ho abitato in una periferia cittadina. La periferia è una geografia dell’anima, oltre che una geografia economico-sociale. Da Piombino per andare all’Elba ci vuole meno di un’ora di traghetto. Da una periferia al centro cittadino magari bastano 40 minuti di autobus. Però c’è una frontiera mentale, invisibile. Se penso alle “Illusions perdues” di Balzac ho ben chiara la geografia del desiderio, che porta dalla provincia alla periferia fino al centro di Parigi.
D. : In “Acciaio” c’è una scena in cui il ronzio delle televisioni invade lo spazio tra i grandi palazzi della periferia. C’è l’Italia degli anni Novanta in quella pagina. E un mondo operaio che sembra scomparso.
S.A. : Quella fabbrica, l’ex Lucchini di Piombino, è chiusa da molti anni. Ho raccontato una classe operaia agli albori della fine, il sentimento di arrivare alla fine di una storia. Gli operai che ho conosciuto erano ancora orgogliosi di quel lavoro che dava loro un’identità. Ma nello stesso tempo quell’identità si stava esaurendo, non aveva più quel valore politico e sociale che aveva avuto per i loro padri e i loro nonni. Si sentivano già poco importanti, senza più la vetrina della storia che li applaudiva e li teneva in conto. Si sentivano già all’inizio di una dimenticanza, traditi. Gli ideali di giustizia ed emancipazione sociale erano ormai promesse disattese. Non davano più credito alla vulgata dell’emancipazione, all’istruzione per sé e per i propri figli, alla promessa di una vita migliore. Quell’idea sociale, ampia di futuro non aveva più presa. Aveva invece presa un’idea immediata: ti dò uno stipendio, dei soldi, e tu devi sognare le stesse cose dei figli dei padroni: discoteche, belle donne. Perché non c’è più un sogno sociale, ma solo il sogno individuale di possedere delle cose. È stato un grande tradimento. Perché è una menzogna, una bugia. Nessuna società può essere felice dentro un modello così individualista. Il problema è culturale: è stata portata via dalla periferia l’idea di cultura, l’idea che l’arte, la letteratura, il cinema e il teatro ti servano a essere più libero. È stata portata via l’idea dell’emancipazione culturale. La cultura è diventata appannaggio solo dei ricchi e privilegiati, è stata tolta l’idea che la cultura sia la grande e l’unica strada per l’emancipazione. È un tradimento.
D. : In “Acciaio” gli operai sono attratti dalla lap-dance.
S.A. : Quel libro precede l’era delle reti sociali. Che, se usate senza strumenti culturali, diventano una trappola politica. Sei alla mercé diretta di un discorso semplificatorio che mira solo al tuo voto e non a farti partecipare. Le reti sociali potrebbero essere uno strumento partecipativo, ma solo se accettassero un certo grado di informazione complessa. Invece una certa politica usa la semplificazione in maniera cinica per renderti più schiavo.
D. : Hai detto che la periferia è il luogo dove pensi che non diventerai nessuno, ma in “Un’amicizia” citi in esergo una frase di Jonathan Franzen: non so a che serva la vita ma certo non a vincere.
S.A. : Il problema è diventare sé stessi. È questo il problema fondamentale. In provincia ti dicono che sarai un perdente, condannato a non fare nulla di diverso dai tuoi genitori, quelle cose del tipo “ma chi ti credi di essere”. In centro ti dicono una cosa apparentemente opposta, ma che in realtà è la stessa: cioè che devi essere per forza un vincente. Vestirti in un certo modo, godere dei tuoi privilegi. Ma sono due categorie sbagliate, entrambe. Noi non siamo vincenti o perdenti, i nostri successi o fallimenti, ma la nostra storia. Il nostro percorso. Quando parlo con i giovani io dico: voi siete le vostre passioni, è questa la vostra libertà. I successi o fallimenti sono un istante di un percorso. Non potete permettere a nessuno di costringervi dentro una condanna. Cosa è che mi rende libera dal giudizio degli altri? La mia cultura: nessuno me la può togliere o giudicare. Le mie passioni, ciò che mi fa sentire vivo: nessuno me le può togliere. Se un libro vende tantissimo o pochissimo, sono sempre io, e la mia libertà si fonda su questo amore per la letteratura. Io sono io, non una vincente o una perdente; sono una scrittrice. Che è quello che amo fare.
D. : Oggi hai parlato in un liceo parigino dove si insegna l’italiano. In Francia il sistema scolastico è sempre più indirizzato alla specializzazione, ed è funzionale a quella che il sociologo Pierre Bourdieu chiamava la “reprodution des élites”: forma, cioè, vincenti (e perdenti).
S.A. : Io andavo a scuola per diventare una cittadina libera, non per avere un certo lavoro o un certo stipendio. Al liceo classico (dove oggi non va più quasi nessuno) ho trovato spunti che mi portavano verso la complessità, verso un’educazione civica. La realtà era un tema molto presente nelle aule scolastiche, non c’era solo il discorso dei voti e della competizione. Diventa te stesso: io penso che la scuola debba essere esattamente questo. Mi ha dato gli strumenti per osare nella vita, per vivere lutti, amicizie, amori, per vivere. Anche per votare, per decifrare il discorso di certi politici, gli strumenti per abitare il mondo. Ero in classe con figli di operai e di imprenditori, una mescolanza meravigliosa di quartieri e classi sociali.
D. : Hai scritto un discorso per un documentario di Rai Teche sulla strage dell’agosto 1980, alla stazione di Bologna. L’Italia che precede la tua nascita.
S.A. : Sono arrivata a Bologna per fare l’università e ho trovato quella stazione con le sue ferite: l’orologio fermo sull’ora della bomba, la crepa con un vetro in mezzo. Queste ferite concrete mi hanno interrogato. Sapevo che quella città aveva un passato che mi riguardava. In questo momento con la guerra in Ucraina viene da dire che non c’è nessun passato che possiamo ritenere passato. Non solo per dovere del ricordo. Non bisogna mai dare nulla per scontato: stragi, conflitti, stupri possono avvenire sempre e dobbiamo avere gli strumenti per riconoscere le logiche che portano a quelle violenze.
D. : La condizione femminile è per te un tema fondamentale. Qui a Parigi, poco tempo fa, un’anteprima del film J’accuse di Polanski (condannato in passato e ora di nuovo accusato di violenze sessuali) è stata bloccata al grido di “Polanski violeur, cinémas coupables, public complice”. Cosa ne pensi?
S.A. : Io separo nettamente la persona dall’opera. L’ho fatto con Pasolini, e lo faccio con chiunque. La persona che ha compiuto determinanti crimini deve essere condannata, l’opera deve poter parlare. La cancel culture non mi convince. Come non mi convince il discorso che a causa della guerra in Ucraina non dovremmo più leggere Dostoevskij perché russo.
D. : A proposito di Dostoevskij. Il suo libro “Memorie del sottosuolo” si apre così: “Io sono una persona malata. Sono una persona cattiva”.
S.A. : Dobbiamo distinguere. Non dobbiamo ignorare la complessità umana, e questo me lo ha insegnato proprio la letteratura. Se leggi “Delitto e castigo” sei al fianco di un assassino mentre uccide. Eppure sei chiamato a capire quello che sta facendo, non a giudicare. Quell’assassino continua a essere una persona, tante cose. Dobbiamo avere la forza e il coraggio di addentrarci nella complessità, e reggerla. Io leggo Pasolini con amore anche se posso condannare i suoi rapporti con ragazzini molto giovani. Però allo stesso tempo naturalmente sono anche molto contenta che un certo modo di trattare le donne sia finito. Che ci sia una condanna sempre più vasta. È quel modo di agire che va condannato, l’opera è un’altra cosa.
D. : Qualcuno ha detto che si potrebbe morire per una virgola. Flaubert era ossessionato dalla revisione dei suoi testi. C’è una forma di insicurezza nella tua scrittura?
S.A. : L’insicurezza è fondamentale, una parte gigantesca del mio lavoro. Iniziare un nuovo libro è cadere in un abisso. E non sentirmi all’altezza. Ogni volta. Non è cambiato niente da quando ho iniziato. Resta per me una pagina bianca che mi chiede di creare un mondo che non c’è. Che non c’era prima. Mi chiede di affrontare paure. È un corpo a corpo con quella storia, un’implorarla, un’evocarla perché si lasci scrivere. Quando la storia si spalanca, i personaggi diventano vivi e mi conducono verso l’attraversamento di quella paura, allora è magnifico, bellissimo.
D. : I tuoi libri sono tradotti in molte lingue. Tradurre è dire quasi la stessa cosa, dice Eco, e per etimologia è vicino a tradire. Come vivi questo possibile tradimento?
S.A. : L’idea dei cambiamenti mi piace, è una nuova vita. Non ho paura dei tradimenti, non mi dispiacciono affatto. L’idea che i miei libri possano cambiare nelle versioni in altra lingua mi piace, è una nuova vita di quella storia. Poi io ho un enorme handicap: non conosco le lingue straniere, mi spaventano tantissimo. Per me l’italiano è tutto. Sono le parole italiane, non le cose, la mia vita. Le mie esperienze nelle lingue straniere, ogni volta che ho provato a studiarle, erano come quelle di un bambino gettato nel mondo da solo. Ho sempre avuto degli enormi blocchi psicologi. Mi fido ciecamente e non faccio mai domande a chi traduce i miei libri.
D. : L’Italiano è la tua patria, il tuo grembo materno. Lawrence d’Arabia diceva (pare) che chi parla diverse lingue perde la sua anima.
S.A. : Io non l’ho persa, allora.
D. : Il titolo del tuo terzo libro, “Da dove la vita è perfetta”, è un verso di una tua poesia. E io ti lascio con un poeta americano, Frank O’Hara: quando ero bambino giocavo da solo nel cortile della scuola, odiavo bambole e giochi (…) E ora, eccomi al centro di ogni bellezza: a scrivere poesie. È così per te?
S.A. : Ho fatto l’unica cosa che poteva rendermi me stessa. E sono diventata me stessa, attraverso la scrittura.
Grazie Silvia, e a presto.
* Samedi 9 avril 2022 à 19h – FESTIVAL ITALISSIMO
SILVIA AVALLONE présente son livre UNE AMITIÉ
Rencontre animée par Fabio Gambaro
Le grand retour d’une des voix les plus importantes de la littérature italienne contemporaine. Après le succès de D’acier, Marina Bellezza et La vie parfaite, Silvia Avallone – qui a étudié la philosophie et viT à Bologne – revient avec un magnifique roman. Dans Une amitié elle raconte les relations compliquées et les chemins inattendus de deux adolescentes très différentes l’une de l’autre, sur fond de révolution internet et d’omniprésence des réseaux sociaux. Avec une question en toile de fond : à quel point notre époque connectée peut-elle ébranler une histoire d’amitié ? La frontière entre amour et jalousie n’est que trop fine parfois lorsqu’on ne sait plus comment communiquer. Un roman poignant et une réflexion sur le choc entre « le monde d’hier », celui du livre, et « le monde nouveau » de nouvelles technologies.
À lire – Silvia Avallone, Une amitié, trad. de l’italien par Françoise Brun, Liana Levi, 2022.