Intervista a Roberto De Paolis sul complesso film “Cuori puri”. Una regia sperimentale e concordata con gli interpreti e molti temi di attualità. Dalle periferie alla purezza, dalla religione allo spaccio di droga, la complessa vita delle periferie metropolitane.
RECENSIONE E TRAILER DEL FILM QUI
Abbiamo intervistato Roberto De Paolis, esordiente regista romano che è arrivato sul grande schermo francese con un film che racconta la quotidianità di una qualsiasi periferia italiana (in questo caso romana). E la racconta attraverso la passione che lega due giovani cuori, quello di una 18enne, in cerca del primo grande amore, e quello di un giovane ventenne che vive ai limiti della legalità. Due mondi che si toccano, che si sfiorano, che vivono insieme restando profondamente separati. Il film ruota attorno ad alcuni temi tipici dell’adolescenza e del passaggio alla vita adulta, in particolare: la verginità e l’indipendenza (economica, lavorativa, affettiva).
Fabrizio Botta: Iniziamo subito con due parole chiave che mi sono piaciute molto del film: da una parte l’educazione e dall’altra le barriere. In che modo queste due parole ti hanno spinto a fare questo film?
Roberto de Paolis: Credo che queste due parole siano oggi fondamentali nella vita di tutti. L’educazione è qualcosa con cui dobbiamo relazionarci durante la nostra vita. In particolare spesso si riferisce all’educazione ricevuta, perché è con quella che poi dobbiamo fare i conti. Credo che il primo film di un regista parli spesso di educazione, in quanto è una specie di strappo. Molte opere prime parlano di quello che forse è la prima parte della propria vita. Le barriere sono quelle che invece ho osservato nella concezione di questo film.
Questo film è nato da un fatto di cronaca che mi ha costretto a fare un viaggio dentro universi che non conoscevo per niente. In particolare, ho scoperto il mondo delle periferie, dove le barriere visibili e invisibili sono tantissime. C’è una barriera che sicuramente rappresenta la difficoltà di interazione e di integrazione tra gli italiani e gli stranieri nella periferia, un tema abbastanza drammatico in Italia. Persone che vengono da contesti molto diversi e vivono insieme, una cosa non facile. Diciamo la paura dell’altro è insita nell’uomo, ovvero c’è la paura di chi è diverso.
F.B.: Un fatto di cronaca ha fatto scattare in te l’idea di fare questo film. Un film che rintraccia le vicende della periferia romana, già descritte diversamente ma con la stessa intensità da altri registi, penso a: “Non essere Cattivo” di Caligari. C’è una differenza tra quelle periferie degli anni novanta e quelle che tu hai fotografato? cosa è cambiato? Cosa hai imparato a livello personale viaggiando in queste realtà?
R.d.P.: Come ti dicevo prima, la cosa più bella e più forte che è venuta fuori è proprio quella dimensione di paura dell’altro. Diciamo la paura dell’altro che è diverso e che è la causa che spinge alla necessità di chiudersi dentro delle comunità. Dove c’è una omologazione forte e tutti sono uguali, chi è diverso viene sempre visto come un nemico. Nel film ho cercato di spiegare questa situazione tra gli italiani e gli immigrati in periferia. Penso sia lo Stato che faccia convivere le fasce più povere e svantaggiate degli italiani e degli immigrati perché vivono delle vite molto simili. Le paure sono le stesse. Certamente. Quella di rimanere senza casa, quella di dover andare a rubare, quella di non avere da mangiare.
Un vivere con le paure che non si riescono ad accettare, vivere con la paura ti porta ad una rabbia nei confronti degli immigrati che è molto personale. E’ un problema gravissimo che credo sia anche un po’, come dire, psicologico, emotivo. Un tema che lo Stato non prende in nessun modo in considerazione. No, non si capisce che mettendo insieme i migranti e gli italiani più poveri creiamo un problema di proiezione cioè di sentirsi come loro, cioè la paura di diventare un immigrato, di diventare uno “zingaro”. Questo è un altro aspetto che trovo stupefacente della vita nelle periferia di oggi. E’ incredibile vedere come ancora nel 2017, la Chiesa possa essere l’unico punto di riferimento. Ne lo Stato ne le associazioni aiutano chi è in difficoltà come lo fa la Chiesa, che ti permette di trovare conforto e cibo. Andare al Centro a mangiare un pasto caldo, significa anche non essere solo e far parte di qualcosa. Diciamo che anche lo Stato ha le sue colpe, in queste zone dove e’ assente quasi completamente.
F.B.: Abbiamo parlato di educazione, l’altra parola chiave è barriera. Barriera nella comunicazione tra i due giovani e i loro genitori. Da una parte c’è la madre sola con la figlia, dall’altra il padre del protagonista che non si capisce se sia o meno il padre naturale. In tutta questa complessità si scorge una critica alle regole che la società ci impone. Per cui certi genitori sembrano solo volersi proteggere senza farsi effettivamente carico dei figli. Come nel caso del personaggio della Bobulova, che nel film si dà delle regole attraverso un gioco, quasi per giustificare la sua fragilità nell’educazione della figlia.
R.d.P.: Il personaggio della Bobulova è un personaggio che io ho conosciuto veramente. Ho conosciuto molte persone che coprono, con la religione e con le regole delle paure, diciamo emotive interiori, dei traumi del passato. Questa donna è stata abbandonata ma è rimasta incinta a 18 anni. Era stata abbandonata dall’uomo che l’aveva messa incinta. Aveva deciso di abortire poi aveva conosciuto questa comunità ed era diventata una mamma cattolica molto radicale, tenendo più o meno tutto sotto controllo e anche sostituendo i rapporti personali con le azioni di volontariato. Diciamo che aveva sostituito i rapporti personali con un rapporto con Dio, con Gesù. Quando la figlia inizia ad avere 18 o 19 anni, lei aveva paura che potesse fare lo stesso, cioè non aveva superato il suo trauma. Non averlo rielaborato, non averlo risolto, ha fatto sì che questo trauma venisse proiettato sulla figlia. Non riuscendo ad occuparsi di questo trauma si affida alla religione prendendo la verginità come fine ultimo della vita. Quindi cercare la religione può diventare una scusa per non vedere i propri problemi, per non soffrire i propri traumi e superarli.
Le persone entrano nelle comunità anche per dimenticarsi del proprio passato. Un passato che nel film pero’ torna in altre forme, in questo caso torna quando la figlia raggiunge la stessa età nella quale la madre era stata stuprata.
F.B.: In un’intervista recente hai parlato di « purezza positiva » e « purezza negativa », proprio riferendoti ai temi discussi precedentemente. Cosa è stata per te questa purezza? Cosa hai voluto trasmettere con queste scene, per esempio al mare? Puoi spiegarci veramente questo tuo senso di purezza, per esempio dell’amicizia, che ci trasmetti molto bene nella profonda relazione tra il protagonista l’amico spacciatore?
R.d.P.: Ho cercato di raccontare quella purezza del primo amore e del primo incontro che spesso è idealizzata. Il film è una specie di sogno, di paradiso terrestre, di purezza dove non c’è la sessualità e nemmeno il peccato. Una specie di Eden dove loro diventano come i bambini molto puri. Credo che il film rappresenti un mondo ideale, ma i protagonisti inizieranno ad amarsi veramente dopo la fine del film, nonostante tutti i problemi che ci saranno. Lei dovrà gestire il trauma dello stupro e lui, la sua nuova vita di spacciatore. Quando ci si s’innamora, anche da grandi, assomiglia un po all’infanzia, a una sorta di purezza di proiezione ideale.
Nel film credo che l’importante sia che si percepisca la proiezione in senso negativo. La purezza come l’incapacità di mescolarsi con ciò che è diverso, cioè restare puri significa non voler rinunciare a niente della identità per accogliere ciò che è diverso. E’ un po’ il problema che c’è oggi in Europa rispetto alle migrazioni. Credo che ci sia una battaglia interna tra il voler rimanere attaccati alla propria religione e la propria storia, alla propria cultura, oppure perdere quella purezza e cercare di accogliere chi è diverso.
Quindi quel parcheggio, dove ci sta il protagonista e ci stanno gli zingari dell’altra parte, è una sorta di luogo puro, che potrebbe contaminarsi con l’entrata dei rom, diciamo che lo renderebbero diverso. Poi credo che i due ragazzi fossero loro stessi molto puri. Puri nel senso positivo del termine. La purezza del loro rapporto e del loro relazionarsi con gli altri personaggi del film dipende molto dal loro modo di essere. Sono entrambi ragazzi di principi molto sani, ed io li ha invitati a tirare fuori anche la loro personalità.
F.B.: Come è nata la scelta di questi due attori molto bravi? Parliamo appunto di Selene Caramazza e di Simone Liberati. Un’attrice esordiente e un giovane attore già visto in Suburra. Due attori giovani, che mi sembra abbiano trovato subito un’ottima sintonia.
R.d.P.: Diciamo che loro hanno dato tanta disponibilità a lavorare più con l’improvvisazione e in particolare lui è stato molto bravo. E poi soprattutto sono stati molto disponibili a fare un lavoro di ricerca. Mi è piaciuto molto il lavoro di ricerca che hanno svolto prima del film. Lei ha dovuto andare in chiesa per tanto tempo, prima di girare il film ma anche lui ha dovuto passare tempo in una periferia. Quindi hanno fatto un vero percorso di identificazione con questi personaggi. Questa disponibilità è stata fondamentale per me. Disponibilità ad imparare, ad andare a pregare, a fare volontariato, ad andare la domenica a fare il pellegrinaggio con quelli della Chiesa. Selene ha voluto veramente mettersi in gioco per diventare veramente Agnese. Ma lui ha anche fatto delle esperienze un po’ border line in periferia. Stefano Liberati è stato quattro mesi con questi ragazzi ininterrottamente, si è anche trovato in situazioni un po difficili o comunque ai limiti della legalità. Non è scontato che un attore voglia fare questo tipo di percorso un po’ fuori dal normale.
F.B.: Cosa ti ha dato questa prima esperienza a livello personale e professionale. Cosa hai imparato da questa esperienza che ti darà delle idee anche per i prossimi films?
R.d.P.: Diciamo che il film deve avere una vita propria che distrugga il controllo del regista o comunque l’illusione di controllo del regista. Ho imparato, strada facendo, che all’inizio avevo dei punti di vista e delle idee su questa storia ma poi tutto è cambiato durante la realizzazione. Alla fine credo che il punto di vista del film sia più quello dei due ragazzi, dei due protagonisti, e meno quello di regista. C’è stata una perdita graduale di controllo, partita dalla ricerca. Scrivere un film, facendo tanta ricerca, significa che tutte le idee che tu avevi vengono distrutte e sono sostituite dalla vita reale. E’ una specie di peccato di superbia quello di pensare di scrivere un film solo attraverso la breve immaginazione della propria fantasia. Mi sembra che ci siano dei viaggi in cui poi ci possa essere una perdita di controllo grande che ti porta fuori controllo. Le cose sbagliate che faccio, gli incidenti e le cose sbagliate che succedono, portano comunque sempre a un continuo cambiamento.
F.B.: Questo tipo film mi ricorda molto quelli dei fratelli Dardenne, che possiamo considerare tra i tuoi diversi maestri. Vedo pero’ una differenza. Il finale del tuo film lascia trasparire una speranza (diversamente da quanto avviene nella cinematografia dei Dardenne) frutto del tuo pensiero positivo o di un contesto socio-culturale (italiano) piu’ propenso alla fratellanza e all’avvenire?
R.d.P: In realtà io penso invece che i loro film finiscano tutti con molta speranza. Il film Rosetta finisce con lei che riesce finalmente ad alzare gli occhi, a piangere e a tirare fuori la sua debolezza e la sua fragilità. Riesce finalmente a guardare lui negli occhi, si abbracciano e si toccano, piangono insieme e si desiderano. Il film finisce quando lui decide di non uccidere l’assassino di suo figlio. Vedo quindi anche una speranza nel finale dei film dei Dardenne.
Personalmente, avrei voluto che questo mio film finisse molto male. Avrei voluto che Agnese rimanesse in macchina, non avendo alcun motivo per scenderne per andare incontro a lui e quindi poi di rivelargli quello che aveva fatto. Ovviamente uscendo dalla macchina lei in qualche modo si prende la responsabilità di quello che ha fatto e ho voluto che lui attaccasse questo dramma. Avrei voluto che Lui attaccasse l’immigrato ma poi ho rinunciato a girare questa scena.
La storia d’amore non era così predominante nel film ma poi è molto cresciuta con i due attori. Queste scene sono diventate più lunghe e più grandi, hanno preso più importanza nel film, quindi alla fine l’hanno deciso loro il finale. Ho voluto che anche loro contribuissero con la loro immaginazione alla fine del film. Loro mi hanno detto che in ogni caso avrebbero voluto un finale dove loro si ritrovavano. Ho deciso quindi di assecondare la loro volontà, pur avendo in testa un finale piu’ drammatico. Questo film mi ha insegnato ad andare oltre le mie proprie idee anche sul lavoro, traendo forza dai miei attori.
Intervista curata da Fabrizio Botta