Il vocabolario della criminalità. In difesa dell’onore della lingua italiana.

Parte 1. Leggendo l’introduzione di una conferenza sulla lingua italiana, svoltasi di recente all’Istituto Italiano di Cultura di Montréal, sono rimasto colpito da queste parole: “Davvero l’italiano è la lingua più bella del mondo? Da lingua dell’amore, della filosofia e della poesia, l’italiano è poi diventata la lingua del calcio e della moda. Oggi la cucina e la criminalità sono certamente i due settori di un indiscusso primato linguistico dell’italiano”.

Il sapiente giudizio mi trova d’accordo. La lingua italiana, nel campo del crimine, occupa una posizione di tutto rispetto.

La lingua degli Inuit (eschimesi) dispone di un alto numero di termini designanti la neve e il ghiaccio. La lingua araba vanta un’ampia gamma di vocaboli atti ad identificare i vari tipi di sabbia. Gli italiani possono vantarsi di possedere un ricco vocabolario designante la realtà del crimine. E se non tutti se ne vantano, ciò forse avviene per modestia, o anche per reticenza e, nel nostro tormentato Sud, probabilmente per omertà.

Ogni popolo, dopo tutto, ha il thesaurus ossia il patrimonio linguistico che merita. Ed è importante, secondo me, che noi italiani salvaguardiamo la nostra ricca nomenclatura criminosa perché essa, dopo tutto, è – per restare in tema – “cosa nostra”.

I gerghi malavitosi nella Penisola sono tanti.

Vi è il mafiese, lingua della mafia, erede del baccagghiu, che era il gergo dei piccoli malavitosi siciliani e cui facevano ricorso anche i cantastorie che celebravano le prodezze e le infamie degli adepti dell’onore e del disonore; moltitudini nell’isola del rosso delle arance, e del rosso dovuto alla lupara; talvolta – è vero – “lupara bianca”, ma ugualmente letale.

Vi è il dritto che è il gergo dei giostrai e baracconisti del Veneto – proprietari o lavoranti di baracconi da fiera – non tutti certamente malandrini.

Scomparso è il gergo dei briganti del Mezzogiorno, che a partire dall’Unità d’Italia è stato sostituito dal burocratese e politichese dei nostri politicanti, che fanno una politica da briganti a Roma facendo rimpiangere, a molti, nel Sud i Borbone, e nel Nord gli Asburgo.

Nel paese del mammismo, e della famiglia vista come una cosca siciliana o una ‘ndrina calabrese, persino il sacro termine “mamma” ha una connotazione mafiosa. “Quando mamma comanda, picciotto va e fa” ammonisce il detto degli “uomini d’onore”. Il capo società, infatti, è chiamato anche “mamma”. Ma di mamma non ve n’è una sola… Al tempo del processo Cuocolo, infatti, il nome della camorra napoletana, per i suoi affiliati, era “bella mamma”.  E, come dice la canzone, “sono tutte belle le mamme del mondo…”

Con il gusto che gli italiani trovano nel loro continuo sbrodolarsi d’inglese, oggi però si rischia d’impoverire anche il ricco significato di mamma. Il che sarebbe un imperdonabile sgarro all’onore di un’intera onorata società, la quale merita, secondo me, un minimo di rispetto linguistico. No, la mamma non si tocca, dovrebbero dire da veri uomini d’onore e anche da affettuosi mammisti gli italiani.

Dal film « Il Padrino » di Francis Ford Coppola

Ma non dobbiamo neppure recare offesa al padre, che tanto dà alla sua onorata famiglia. Tradizionalmente il capo della mafia è chiamato padre o anche capofamiglia. Il corleonese Michele Navarra, forse l’ultimo esponente della vecchia mafia, era chiamato con grande rispetto “u patri nostru”. In altre organizzazioni mafiose il capintesta è invece chiamato zio, mentre i camorristi sono i nipoti, e gli aspiranti camorristi sono i cugini. Padre, zio, nipoti e cugini… Viva la famiglia all’italiana!

Ma accanto alle mamme e ai padri, e alla “sorella d’omertà” che merita tutto il nostro rispetto, ossia accanto alla “donna che ha il compito di dare assistenza ai latitanti” dobbiamo annoverare la presenza sempre più numerosa di pentiti, delatori, dissociati, “collaboratori di giustizia”. In Italia a collaborare con la giustizia sono i criminali, i mafiosi divenuti infami.

Ma tra tutti, almeno per me, i più infami sono gli sciuscià degli anglicismi-inglesismi-anglismi-americanismi… Il lessico americano è infatti una costante minaccia per il nostro glorioso predominio linguistico nel campo del crimine; predominio che rischia di divenire gloria del passato a causa dell’ignobile scimmiottamento della parlata americana da parte dei nostri ominicchi. Ma cosa volete, nella loro fregola imitativa anglofona, gli organi d’informazione e il popolo dello Stivale preferiscono sempre più far ricorso alla paroletta inglese mal masticata e mal digerita, rinunciando vigliaccamente alla barocca varietà nostrana. È un po’ come se gli Inuit del Canada, affascinati dai film di Alberto Sordi, decidessero di abbandonare la loro ricca terminologia invernale sottozero per adottare al suo posto le parolette italiane neve e ghiaccio. Ma gli Inuit non lo faranno mai. Gli italiani invece credono nel vudù della magica parola straniera e sono inoltre maestri di trasformismo. Ora, senza essere io un pezzo da novanta in campo linguistico, ma meritando comunque rispetto per i miei numerosi scritti in materia, vorrei denunciare i pericoli che incombono sul primato linguistico che gli italiani hanno fin qui detenuto nel campo della nomenclatura criminosa.

Chissà quante invidie linguistiche avrà suscitato all’estero, a suo tempo, la scoperta, per coloro che ancora lo ignoravano, che in Italia, oltre a “cosa nostra” e a mafia, esistono anche ‘ndrangheta e camorra. Poi, dalla Puglia, regione da dove tradizionalmente ci giungeva un ottimo olio di oliva e un vino a forte gradazione alcolica, arrivò come un regalo di Natale la “sacra corona unita”. Il tutto si è sommato alla stidda siciliana;  al “clan dei Basilischi” della Basilicata;  alla criminale  “banda della Magliana”, nel Lazio; alla  “mala del Brenta”, in Veneto, sotto l’egida di Felice Maniero  e dei suoi pischelli  specializzati in rapine (così amavano farsi chiamare i membri del suo clan); al “clan dei marsigliesi”; ai Rom e ai Sinti come i Casamonica di “Mafia Capitale”; al  banditismo sardo; al gangsterismo di stile americano; e ai malviventi, ai malavitosi, ai malintenzionati, ai malversatori, agli scippatori, agli sgherri, ai ladri, ai grassatori, agli attentatori, ai ricattatori, ai lestofanti, agli spacciatori, ai malfattori, ai rapinatori, agli assassini, ai narcotrafficanti, agli scassinatori, ai sequestratori, ai faccendieri, agli intriganti, ai maneggioni, agli intrallazzatori, ai pataccari, ai magliari, ai balordi, ai ribaldi, ai malandrini, ai manigoldi, ai malviventi, ai furfanti, agli strozzini, ai tombaroli, ai politici corrotti e ai loro referenti… E mi scuso con gli altri filibustieri che non ho citato. Volutamente non mi addentro nella nebulosa del terrorismo con i brigatisti rossi, tutti ormai pentiti, a babbo – altrui – morto.

Per gli stranieri, il raccapezzarsi in questa galassia di termini malavitosi non è facile. È da tempo che un articolo di cronaca nera o di costume sull’Italia non può più essere scritto da un semplice inviato speciale straniero, e ciò a causa della complessità del soggetto. I mass media esteri, per capirci qualcosa, sono costretti ad inviare nella terra della “mafia – cosa nostra –‘ndrangheta – banditismo sardo – camorra – sacra corona unita” – un giornalista che sia sociologo o criminologo e che abbia al suo attivo almeno una tesi di laurea sul Belpaese.

Claudio Antonelli

PARTE 2 della ricerca: Lingua: il ricco lessico delinquenziale italiano.

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Claudio Antonelli
Claudio Antonelli (cognome originario: Antonaz) è nato a Pisino (Istria), ha trascorso la giovinezza a Napoli, oggi vive a Montréal (Québec, Canada). Bibliotecario, docente, ricercatore, giornalista-scrittore, è in possesso di diverse lauree in Italia e in Canada. Osservatore attento e appassionato dei legami che intercorrono tra la terra di appartenenza e l’identità dell’individuo e dei gruppi, è autore di innumerevoli articoli e di diversi libri sulle comunità di espatriati, sul multiculturalismo, sul mosaico canadese, sul mito dell’America, su Elio Vittorini, sulla lingua italiana, sulla fedeltà alle origini e la realtà dei Giuliano-Dalmati in Canada, sull’identità e l’appartenenza...

3 Commentaires

  1. Mise à part l’introduction qui égrène quelques incontournables clichés (le foot, la mode, la cuisine seraient apanages des Italiens) j’ai trouvé cet article consacré au vocabulaire des mafias intéressant et écrit avec un certain recul ironique. Je ne comprends donc pas très bien cette « tempête dans un verre d’eau »…

  2. Vedo che a lei piace rimettere le persone e le cose al loro posto, e vedo anche che a lei nulla sfugge. O cosi’ sembra… Non sembra esserle sfuggita neanche la mia scarsa considerazione per l’inglese. Lingua di cui invece avverto ogni volta, ammirato, la straordinaria ricchezza, rimpiangendo di non averla potuto imparare da ragazzo ma solo da adulto. Il confronto tra l’italiano e l’inglese è un confronto per me quotidiano, poiché vivo in Nord America.
    A lei, cui nulla sfugge, è sfuggito tuttavia il tono leggero, atto a divertire, ma anche critico, caustico, sarcastico che trapela da ogni rigo della mia perorazione (è il primo di una serie di articoli) in difesa del primato della nostra lingua nel campo del crimine. Primato di cui io farei volentieri a meno, ma che lei contesta, poiché a suo giudizio Il gergo dei malavitosi di Londra batterebbe quello degli uomini d’onore di Napoli e di Palermo… Da buon bibliotecario le prometto che cerchero’ di documentarmi in merito.
    Anche sul tema che ho trattato nel pezzo che ha suscitato il suo sdegno, mi sono ampiamente documentato. L’ho fatto attraverso la lettura di articoli, e brani di libri e di tesi di laurea consacrati, appunto, al gergo malavitoso. La mia ricerca va avanti da molto tempo.
    Lei mi chiede: « A che pro è stato scritto? Con quale fine?”
    Le rispondo che Il mio scritto tratta un tema linguistico. Nel quale ho presentato una prima serie di termini – altri seguiranno – associati alla malavita. Ma ho dato anche la stura a frequenti sprazzi di critica di costume: il mammismo, il familismo, il campanilismo, il trasformismo, l’esterofilia degli italiani… Il tutto su un tono leggero, atto a divertire. Ma questa gamma di toni irridenti e provocatori a lei è sfuggita in toto. La invito dunque a rileggere il mio testo.
    Che il mio articolo sia a carattere linguistico lo prova anche il fatto ch’esso è stato inserito nel portale linguistico di tutto rispetto “Sciacqualingua”, che la invito a consultare. Il dott. Fausto Raso, che lo gestisce, lo ha integrato senza che nessuno lo sollecitasse a farlo.
    Non posso nasconderle che ho trovato un po’ infantile e anche capriccioso, quasi da bullo minorenne, il suo sfogo, farcito di allusioni e accuse, rivolte al sottoscritto. Accuse di provincialismo, di ignoranza (« se sa poco chieda, se non sa taccia »), di scarsa conoscenza dell’inglese, e di gusto per le banalità.
    Potrei terminare questa replica con qualche altra battuta sferzante. Rivelero’ invece, pateticamente, una strana verità su di me. Un mio grosso limite. Il suo scritto mi è dispiaciuto. Un po’ per me, è vero, bersaglio dei suoi attacchi, ma soprattutto per lei. Non per lei come individuo, ma per lei come “italiano”, rappresentante di una certa maniera di essere italiani, che soprattutto qui in Québec ci hanno attribuito per anni nel passato: noi saremmo rissosi, polemici, prime donne, opportunisti, settari, improvvisatori, perennemente agitati, un po’ cialtroni e “sconclusionati”. Come gli italiani dei talk show, insomma, che quotidianamente confermano gli stereotipi. Sono anni che, nel mio piccolo, senza chiedere niente a nessuno, m’impegno a fondo, mosso da un’idea alta e nobile dell’Italia, che cerco di difendere da una certa idea caricaturale che invece molti all’estero hanno di noi italiani. Ho scritto qualche centinaio di articoli al riguardo e altrettante lettere a Italians (Severgnini). Ho pubblicato persino un paio di libri sui temi dell’identità, fedeltà, appartenenza… Ma mai prendendo un tono retorico da maestro di scuola, e mai disprezzando gli altri, neppure disprezzando i nostri denigratori esteri. Ma arriva poi lei a confermare i cliché antitaliani…
    Il mio non è moralismo. Tutt’altro. Queste parole riflettono il mio intimo sentire di soldato, non cruento, difensore dell’onore – il vero onore – degli italiani di sempre.

  3. Gentile Antonelli, quando leggo interventi del genere mi domando sempre: son fatti per stimolare una discussione? Son brodi sversati nella noia pandemica? E lo dico, almeno fino a qui, senza polemica, ché mordo il freno. Questo intervento é, innanzitutto, sconclusionato. A qual pro é stato scritto? Con quale fine? O la facilità del digitale ci fa dire di tutto così, per il gusto di farlo?
    Lei dice di essere bibliotecario e docente, quindi suppongo persona che, pur con gusti personali che é giusto possa esprimere, non può credere a una superiorità dell’italianità tout court, perché sappiamo che non é così. Il momento in cui poi sminuisce l’inglese (forse perché ne parla solo la variante internazionale, povera in lessico e in struttura grammaticale, semplificata come può esserlo un esperanto di base) é l’apoteosi delle banalità.
    Non mi dilungherò più del necessario, anche se vorrei spiegarle che SOLO A LONDRA ci sono almeno una decina di « dialetti » nati proprio per opporsi ai linguicismi dettati dal potere e dunque per questo divenuti « criminali ». Non in funzione del crimine, bensì in funzione del rapporto tra sfruttatori e sfruttati, una parte di questi ultimi virati poi al crimine, prima per sopravvivenza (la mafia siciliana, immagino lei sappia come si é formata) poi per convenienza.
    Quindi, se sa poco, chieda, se non sa, taccia. Specialmente, evitiamo di diffondere il provincialismo attraverso l’errata credenza che nell’Italia e nell’italiano (lingua banale e poco descrittiva, se per esempio confrontata con una qualsiasi lingua asiatica) risieda una presunta « superiorità ».

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