Il silenzio arabo sui fratelli palestinesi.

L’Inghilterra, come il Canada e l’Australia, hanno già riconosciuto lo Stato palestinese. Il 22 settembre tocca alla Francia e altri paesi dell’occidente con regimi progressisti. I paesi occidentali più conservatori, tra cui l’Italia, temporeggiano, attendono le mosse del Consiglio dell’ONU. Il dibattito almeno da noi, nei paesi a sistema democratico, ferve, non mancano polemiche tra i pro e i contro. Vi sono anche iniziative di piazza sollecitate dai partiti progressisti e finanche sindacati che premono per il riconoscimento delle Stato palestinese.

In quanto dibattito manca la voce dei paesi arabi, un silenzio insolito che lascia pensosi e sul quale si può azzardare una qualche riflessione.

Tutti quelli della mia generazione ricorderanno le oceaniche manifestazioni di piazza che, dal Cairo a Damasco e da Amman, Beirut e Baghdad, per non parlare di Algeri, Tunisi, fin alla più remota penisola araba sul Mar Rosso, spontaneamente muovevano milioni di persone, in occasione della “Guerra dei sei giorni” o nella più recente guerra del “Kippur”, a sostegno dei “fratelli” palestinesi e della loro causa. Manifestazioni spesso di autentica ostilità verso il nemico sionista, l’odiato Israele, con tanto di rituali incendi di bandiere con la stella di David e di quelle del loro alleato a stelle e strisce, vissuti come portatori di un modello di vita in contrasto con i costumi e finanche i precetti religiosi di quei popoli.

7 Ottobre 2023 i terroristi di Hamas seminano orrore e morte in Israele.

Nel 1974 i paesi arabi arrivarono finanche all’embargo petrolifero per punire gli occidentali, rei di essere alleati “dell’usurpatore” sionista. Le conseguenze per noi furono terribili, il costo energetico divenne insostenibile e si vissero mesi in “austerity” come fu battezzata dagli inglesi quel periodo. Città senza luce, industrie a rilento, divieto di circolare con l’auto, riduzioni dei mezzi pubblici, persone che persero il lavoro, imprese che chiusero, un danno economico che in breve tempo cancellò tutti i benefici che si erano vissuti nei due decenni precedenti nel “Miracolo economico”.

Oggi la guerra di Gaza, che si trascina ormai da due anni, ha, almeno per i civili, effetti molto più sanguinosi delle guerre di cui abbiamo accennato. Le vittime innocenti tra bambini, donne e anziani, sono innumerevoli. La banda di Gaza è rasa al suolo, anche nel Libano meridionale i danni sono numerosi, si è arrivati a colpire il centro di Doha, mentre nuovi coloni israeliani, favoriti dalle politiche di Netanyahu, occupano ulteriori territori in Cisgiordania.

La reazione degli israeliani a Gaza non si fa attendere.

Eppure, malgrado l’evidente ingiustizia di una rappresaglia, che seppur motivata dalla feroce e orribile aggressione effettuata dai terroristi di Hamas in territorio israeliano, oggi travalica ogni giustificazione, i governi arabi e i loro popoli tacciono. Perché?

In realtà, nel mondo arabo è in corso una resa dei conti tra quei paesi che vogliono, per svariati motivi geopolitici, una definitiva soluzione della questione israelo-palestinese e chi come l’Iran, paese teocratico tra i più intransigenti, questa soluzione assolutamente non la vuole, puntando alla cacciata di Israele e alla fine della perturbante presenza di un avamposto occidentale che contrasta con le aspirazioni fondamentaliste degli ayatollah e dei loro alleati.

In questa guerra interna al mondo arabo c’è di tutto: lo scontro tra fondamentalisti e nazionalisti, tra chi aspira a un mondo arabo che acquista caratteristiche occidentali, il modello democratico e un maggior liberismo economico, a veri e propri scontri tra clan politici, etnici, in alcuni casi come in Libia, tribali, per la creazione di nuovi assetti politici nell’area.

Tuttavia, un elemento accomuna quei paesi arabi che oggi non scendono in piazza a sostegno della Palestina, l’avversione verso l’Iran sciita, parliamo di paesi che negli ultimi quarant’anni hanno subito violenze fondamentaliste da diverse organizzazioni come Al Qaida, Isis, Fratelli Musulmani ed altri e che vedono nella ex Persia un’autentica minaccia alla loro stabilità. Forse non è un caso che l’unico a manifestare tra i paesi musulmani a favore dei palestinesi sia stato proprio l’Iran.

Prima dell’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023, si era arrivato a un passo dalla possibile soluzione dell’epocale conflitto israelo-palestinese. Con gli accordi di “Abramo”, i principali paesi arabi, in buona sostanza, erano pronti a riconoscere lo Stato israeliano per poi studiare con gli stessi la ripartizione di territori per giungere all’agognata, possiamo dire da tutti, formula dei due popoli e due stati. Un percorso non semplice ma avviato su cui proditoriamente è intervenuto l’Iran con i suoi alleati, in prima linea Hamas e poi Hezbollah.

Quel sette ottobre fu un incubo per tutti coloro che amavano una soluzione finalmente pacifica di quello storico contrasto. Fu invece una manna, per i fondamentalisti islamici e per lo stesso Netanyahu che, ormai messo alle corde dal suo popolo, per i numerosi scandali in cui era coinvolto e per le riforme autoritarie imposte specie nel sistema giudiziario e dell’informazione, aveva ora l’occasione insperata di riappropriarsi di tutta o quasi l’opinione pubblica nel nome della vendetta per il martirio subito da donne, giovani e bambini a causa della ferocia di Hamas.

Quel che è peggio è che, come hanno mostrato le drammatiche immagini di quei giorni, i palestinesi, anche della banda di Gaza, esultarono per la scellerata impresa di Hamas e schernirono e vilipesero i poveri e terrorizzati ostaggi, anche bambini, portati lì con violenza dai terroristi.

Tutto ciò ha alimentato ulteriormente l’ormai l’atavico odio tra palestinesi e israeliani, facilitando il gioco del governo Netanyahu e degli stessi fondamentalisti musulmani.

Appare così più chiaro il come e il perché il mondo arabo, privato della prospettiva della soluzione “Abramo”, sia oggi risentito più ancora che verso Israele verso i fondamentalisti filoiraniani e finanche verso i palestinesi, i quali non hanno mostrato alcun segno concreto di volersi liberare di Hamas e di voler ritrovare il filo di quegli accordi per dare una possibilità di soluzione all’equazione: due popoli e due stati.

Khamenei e Netanyahu

La sciagurata e paradossale alleanza tra l’attuale governo israeliano e il terrorismo musulmano, impediranno a lungo, se non ci sono cambiamenti sostanziali, ogni processo di pace nell’area.

Mentre i paesi occidentali progressisti, con molta demagogia e spesso lavandosi la coscienza (si pensi alla Gran Bretagna), si affrettano al riconoscimento dello Stato palestinese, la realtà è che i palestinesi e la loro autorità nazionale ancora retta da Mahmoud Abbas non hanno neanche la forza di chiedere ad Hamas di lasciare i loro territori e di questo altro silenzio sono responsabili gli stessi palestinesi.

Sognare uno Stato palestinese è una cosa giusta e sacrosanta, cosi come tutti i democratici e gli amanti della pace sognano una convivenza tra lo Stato palestinese e quello israeliano, ma non è certo con operazioni simboliche e posticce che si puo’ risolvere la questione palestinese.

Nel loro silenzio, gli arabi che non sono alleati con l’Iran chiedono qualcosa di concreto e non queste soluzioni da sagra di paese.

Evviva lo Stato palestinese è riconosciuto! Ma quale Stato? Dov’è? Qual’è il suo ordinamento? Dove hanno sede le sue istituzioni? Qual’è la sua Costituzione? Come funziona la sua organizzazione politica? Quali sono i confini del suo territorio? dato che lo Stato è pur sempre un ente territoriale.

Per la Palestina non si può neanche parlare di Stato fallito, perché manca concretamente lo Stato. Si capisce che nelle diverse realtà politiche occidentali fa comodo oggi, per il proprio consenso interno, questo irreale e demagogico riconoscimento, utile a cavalcare la tigre antisraeliana che grazie a Netanyahu, ha trovato nuovi stimoli, ma dal punto di vista di una seria e coerente linea politica, questa scelta non ha alcun senso se non di mera e propria speculazione politica.

Peraltro, il riconoscimento di uno pseudo Stato palestinese, retto e tenuto ostaggio dal fondamentalismo di Hamas che, è bene ricordare, considera proprio noi occidentali il suo principale nemico, costituisce secondo me un tragico errore. Si aggiunge all’inutilità del riconoscimento il danno dell’accreditamento del ruolo di quei sanguinari terroristi. Sembrerebbe l’ennesima chicca di una cultura dell’odierna sinistra, sempre più incapace di concretezza e che vive ormai da anni solo di simboli è belle parole.

Si può senz’altro riconoscere l’esistenza di una nazione palestinese; il valore patriottico dei palestinesi che da sempre lottano per il riconoscimento, con la loro identità, di un loro Stato, ma ad oggi, purtroppo, riconoscere uno Stato palestinese che non c’è, non ha senso e anche questa demagogia da parte del mondo occidentale, spiega il silenzio arabo in questo tragico periodo della storia mediorientale.

  • Nella foto in evidenza: Gli accordi di Abramo.

Nicola Guarino

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Nicola Guarino
Nicola Guarino, nato ad Avellino nel 1958, ma sin dall’infanzia ha vissuto a Napoli. Giornalista, già collaboratore de L'Unità e della rivista Nord/Sud, scrittore, avvocato, direttore di festival cinematografici ed esperto di linguaggio cinematografico. Insegna alla Sorbona presso la facoltà di lingua e letteratura, fa parte del dipartimento di filologia romanza presso l'Università di Parigi 12 a Créteil. Attualmente vive a Parigi. E’ socio fondatore di Altritaliani e anche scrittore ("Tutto qui" - Graphe.it ed., è uscito nel 2024).

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