Poesia persiana e italiana a confronto. Siamo nel Trecento. Dante ha appena ultimato la sua Divina Commedia e Petrarca è tuffato nel suo Canzoniere. La poesia persiana è all’apice. Il grande poeta del tempo si chiama Hafez (1315-1390 circa). Come il suo predecessore Rûmi, scrive dei “ghazal”, forma raffinata di poesia cortese orientale. Il Canzoniere (Divan) di Hafez è quindi un celebre classico della letteratura persiana. Accogliamo ben volentieri questo contributo di letteratura comparata di Fatemeh Asgari, docente presso il Dipartimento di Studi italiani dell’Università Statale di Teheran.
Una caratteristica che accomuna Petrarca e il poeta persiano Hafez[[Per le poesie di Hafez si rimanda a C. Saccone, Hafez. Canzoni d’amore e di taverna, Roma, Carocci Editore, 2011. Per le poesie di Francesco Petrarca si veda F. Petrarca, Il Canzoniere, a cura di M. Santagata, Milano, Mondadori, 1996.]], ancora oggi molto popolare e amato in Iran, è senza dubbio la modalità con cui i due poeti-amanti si descrivono e si dipingono.
Hafez:
Volto pallidissimo e sospiro di dolore/ eccoli i segni del morbo degli innamorati! (ghazal 27).
Egli è solo e non ha compagno se non il Dolore:
Io altro risultato non vidi in questa mia azione che Dolore,
nell’Amore di te io altro non vidi compagno che Dolore.
Un intimo, a parte d’ogni mio Segreto, non vidi un istante,
un amico, a parte d’ogni mia pena, non vidi: eccetto Dolore! (quartina 21)
Petrarca, a sua volta, ha un animo sensibile e inquieto e l’ansia di assoluto si vede anche in lui, perciò è pallido e insonne. Si dipinge così mentre prova pietà per se stesso:
I’vo pensando, e nel pensar m’assale
Una pietà sì forte di me stesso…
Per il poeta è impossibile distaccarsi dai sogni: “E veggio ‘l meglio et al peggior m’appiglio”, e l’amore e la gloria sono due massime aspirazioni della sua vita. Egli continua a pensare a lei: “E’ mi par d’ ora in hora udire il messo /che madonna mi mande a sé chiamando: /cosí dentro et/di for mi vo cangiando, /et sono in non molt’ anni sí dimesso.”
Nella stanca lirica a chiusura di Secretum[[Si veda F. Petrarca, Secretum, a cura di Ugo DOTTI, Archivio Guido Izzi, Roma, 1993, pp. 199-201.]], egli stesso, mentre ancora sta pensando all’amata, e mentre vorrebbe tanto dimenticarla, cerca di concepire Dio, senza il nesso amore-Amore. Nell’ultimo sonetto del Canzoniere che precede la Canzone alla Vergine, in una sublime preghiera, Petrarca così rappresenta il suo stato d’animo:
Tu che vedi i miei mali indegni et empi, /Re del cielo invisibile immortale, /soccorri a l’ alma disvïata et frale, /e ‘l suo defecto di Tua gratia adempi: /si’ che, s’ io vissi in guerra et in tempesta, /mora in pace et in porto; et se la stanza /fu vana, almen sia la partita honesta. /A quel poco di viver che m’ avanza /et al morir, degni esser Tua man presta: /Tu sai ben che ‘n altrui non ò speranza.
Insomma i due poeti, Hafez malinconico e sregolato, Petrarca autocritico e fragile, sono solitari, e decisamente si esaltano nel dipingere i bei colori delle loro amate. Uno benedice il loco e’l tempo e l’ora (Canz. XIII) quando ha conosciuto lei, l’altro invece raccoglie la polvere della via che va verso la casa dell’amata e la mette nei propri occhi lacrimanti per guarirli. Tutti e due gli amanti non possono vivere né con l’essere amato né senza. Hafez crea una sorta di storia d’amore; l’altro invece inventa un romanzo autobiografico.
Nell’ amante Petrarca è molto presente il motivo della “memoria”, vale a dire il ricordo dell’amata, in ogni sospiro, nel corso degli anni :
“Tenemmi amor anni ventuno ardendo” (Canz. 346).
Nell’ amante Hafez, invece la memoria non esiste quasi, come non esiste la metamorfosi dell’amata, in quanto lei non subisce l’esperienza della morte, che “rende gentili”, come scrive Sapegno nella sua nota lettura del Canzoniere. Manca la narrazione. L’amante è cosi ebbro e fuori d’intelletto che non evoca i ricordi dell’amata, ma la chiama piangendo e sospirando. E in fine, tutti e due gli amanti, com’è tipico della lirica d’amore, vivono l’autoisolamento e momenti di ripiegamento interiore, e subito dopo si proiettano nella “mirabile visione”. Tutti e due gli amanti confessano che l’amore offusca la ragione ed entra in conflitto con essa, perciò lo colpevolizzano.
Leggiamo in Hafez:
Velo è agli occhi di Ragione lo splendore di Bellezza,
vieni e il gran padiglione del sole illumina! (gh.122)
La lingua di Ragione spiegando la Bellezza di lui si fa muta:
cosa può quella “penna” dalla punta mozzata e ognora delirante? (gh.131)
Per quell’amante persiano, per quell’asceta orientale, l’amore per la donna si riflette nell’amore per Dio, e della donna egli fa l’immagine di Dio stesso. Anche per lui, come per Petrarca, l’amore è un’insidia, ma questa gli è venuta dal cielo. Per l’amante aretino invece quell’insidia è rimasta irrisolta, almeno così pare dalle sue dichiarazioni nella chiusura del Secretum.
Per Hafez l’amore resta l’unica fonte di felicità dell’uomo e l’unico ponte per giungere a contemplare il bel viso dell’Amato assoluto, mentre per Petrarca “il peggiore dei tanti mali causati dall’amore è che fa dimenticare Dio e se stessi” (Secretum III).
Uno in maniera ossessiva, sconsolato, conta puntualmente gli anni in cui è rimasto fedele all’amore, e l’altro, ebbro e isolato in un angolo della taverna, si lamenta dell’infedeltà dell’amore. Uno se la prende con la morte: “Morte m’ha liberato un’altra volta/ e rotto ‘l nodo e ‘l foco ha spento e sparso/contra la quale non val forza né ‘ngegno”. E l’altro invoca la morte per liberarsi dalle afflizioni causate dall’amore.
Sospirano stanchi e affannati, pallidi in viso e insonni i due amanti con stile diverso, ma veri amanti solitari, credono nell’immortalità della poesia. I due sono solitari per antonomasia:
L’amante Hafez è sempre solo in un angolo della taverna, o per la strada che porta a casa dell’amata. Anche quando l’amante viene presentato nel duo Rosa-usignolo, l’amante usignolo è sempre solo nel giardino ad attendere che l’amata Rosa si schiuda all’alba. E davanti alla scena della morte della Rosa, l’usignolo sprofonda in una tale tristezza che lo conduce alla morte.
Altrove, sulla c. 143 v. del ms. Lat. 6802 della Nazionale di Parigi, contenente Pilinio, Petrarca ha disegnato di suo pugno uno schizzo che rappresenta Valchiusa insieme ad un trampoliere o pellicano che, secondo gli studiosi, in realtà è l’amante Petrarca che s’immedesima nella figura di un pellicano che è a sua volta l’emblema della solitudine. Perciò il pellicano e anche la fenice per gli studiosi, rappresentano il solitario di Valchiusa, cioè Petrarca stesso.
Un altro punto di convergenza tematica tra i due poeti si trova nell’uso che fanno del mito feniceo: per l’amante Hafez, la fenice è l’allegoria dell’immortalità dell’amata la quale tale rimane perennemente. Ma la fenice è un essere raro e nascosto agli occhi e Hafez con la sua poesia è alla ricerca della fenice-amata immortale che è invisibile.
Nell’amante Petrarca la fenice per la natura, per gli dei, e per la Sapienza divina, non “dovrebbe” morire. È allegoria d’immortalità dell’amata, o per meglio dire della poesia, ma nei componimenti fenicei del Canzoniere di Petrarca, la fenice che ha il volto di Laura (si vedano i sonetti 321, 185), vedendo il lauro schiantato dal colpo di fulmine in quella “vallis clausa” – che era una volta un locus amoneus – si dà la morte. Ma non è la donna a darsi la morte, è la speranza dell’ immortalità della poesia che muore; è quindi la poesia stessa a morire. La morte della fenice dimostra la disperazione dell’amante. Secondo Francesco Zambon, Petrarca sapeva benissimo che l’uccello mitico si era venuto caricando, nella cultura medievale, di forti significati religiosi e teologici: la fenice poteva essere simbolo dell’anima immortale, figura del Cristo che rinasce (secondo la tradizione cristiana), ed emblema della Sapienza divina che fa rinascere (in Hafez, poeta di formazione neoplatonica, la fenice ha quest’ultimo valore simbolico). Ma Petrarca proietta il mitico uccello nel loco infernali dove vince il serpente, l’animale che per la tradizione cristiana simboleggia il diavolo ed il Male.
La fenice (Anqa) in Hafez è il simbolo dell’immortalità e dell’inafferrabilità della Sapienza divina [[La fenice (Anqa in persiano) simboleggia l’inaccessibile Dio, ed è già noto nell’Avesta. Un’altro uccello presente nella poesia hafeziana è il falco il quale rappresenta l’immagine dell’uomo e della sua anima come uccello impigliato nelle reti del mondo e che da questo deve fuggire per tornare al suo nido sull’albero. Nella tradizione lirica persiana gli uccelli sono connessi all’anima dell’uomo che è in ricerca del mistico viaggio verso l’Assoluto. Sul ruolo e il significato della fenice e del falco nella poesia classica persiana e zoroastriana si veda Alessandro BAUSANI, Antonino PAGLIARO, La letteratura persiana, Sansoni-Accademia, Firenze-Milano, 1968. Il capitolo Motivi e forme della poesia persiana, pp. 171-174. È interessante anche Angelo Michele PIEMONTESE, Storia della letteratura persiana, Fratelli Fabbri, Milano, 1970, 2 vol.]]. Essa è l’inaccessibile uccello simbolo di Dio.
In Petrarca invece essa arriva a rappresentare – al contrario della tradizione – l’incapacità della poesia a vincere la morte. Nell’immaginario poetico di Petrarca c’è anche il pellicano che rappresenta il poeta-amante. Si ricorda che il pellicano disegnato da Petrarca stesso sul codice di Plinio il vecchio, con la dicitura Transalpina solitudo mea iocundissima, alla destra dell’uccello mitico, simboleggia il poeta solitario. Una solitudine esistenziale!
La solitudine del poeta-amante di Hafez lo conduce ad atti di miscredenza in quanto egli si dà totalmente all’ebbrezza apparente nelle osterie e nelle taverne; un comportamento contrario all’etica islamica e alle convenzioni religiose dell’epoca, che offende i religiosi.
Il poeta-amante di Petrarca, di fronte all’improvvisa morte di Laura (lei viene morsicata da un serpente [[Il serpente nella poesia di Hafez rappresenta la furbizia ed i giochi maligni del destino. Il serpente per il poeta cristiano è il simbolo del grande nemico e secondo la Bettarini, la morte improvvisa di Laura nel paesaggio idilliaco di Valchiusa, morsicata da un serpente, in una tempesta che capovolge tutto in quella valle, rappresenta la furia improvvisa della peste del 1348 durante la quale morì anche Laura. Si veda al riguardo Il Canzoniere, a cura di M. Santagata, op.cit., p. 208.]] nel mentre che sta camminando bella e felice nel verde di Valchiusa) s’immedesima in una fenice che si becca il petto e si uccide.
L’amante vedovo vede nella morte dell’amata una morte totale, senza nessun possibile ritorno. Perde il dono dell’aldilà e vede solo la morte e null’altro, la fine della vita e della bellezza. Questa affermazione che nega l’aspetto religioso della morte nella concezione cristiana della vita, conduce il poeta-amante alla soglia della miscredenza.
Quindi la solitudine e il dolore spingono i due poeti a compiere atti di miscredenza.
Fatemeh Asgari
Docente presso il Dipartimento di Studi Italiani
Università Statale di Teheran