Con link a brani Youtube in ascolto.
Venti sono gli anni che ci ricordano la morte di Fabrizio De Andrè (scomparso l’11 gennaio 1999), ma mi è difficile pensare che uno come lui non sia ancora tra di noi. Fabrizio De Andrè non è morto, così mi sembra giusto pensare. Semmai è partito, ed ora se ne sta in un qualche angolo sconosciuto di questo mondo. Ma non importa: tra poco uscirà il suo ultimo ellepì che ci stupirà ancora, così come fu per quelli precedenti.
E del resto anche Cesare G. Romana suo amico e autore di quella bellissima biografia « Fabrizio De André Amico Fragile »(Sperling Paperback, 2000) che si legge come un romanzo, lo aveva ribadito: « No che non se n’è andato. Lo capisco da questa folla che lo attende non per congedarsi ma per ritrovarlo ». Come fossimo tutti in attesa davanti a quel palcoscenico da dove, tra poco, lui salirà per un altro concerto.
Per oggi, nel chiuso delle nostre camere, possiamo accontentarci di riascoltarlo. Rimesso un ellepì (n.d.r. disco vinile a 33 giri) ritroviamo la sua voce che ci arriva lo stesso, così “encantadora” come ebbe a definirla Fernanda Pivano, pure lei stregata anche da quell’intelligenza che sapeva sempre guardare oltre.
E da quella voce lui continua a dirci del suo mondo, di quell’incredibile folla dove ha trovato un’umanità a lui molto cara, sconosciuta quasi a tutti di cui ci ha raccontato le loro vite. Il suo spirito imbevuto di anarchia e ribellione gli ha consentito di andare ovunque, di leggere e capire tutto quello che gli serviva per dirci che il mondo, il suo, ma poi anche il nostro, aveva un altro volto. Dei grandi temi come la giustizia, la povertà, l’amore aveva trovato che avevano un altro percorso. Anche il suo Dio poi, cercato e trovato lontano dai catechismi, contrastava con quello astruso e distante raccontatoci dai preti dall’alto dei loro pulpiti, dentro a chiese che forse non erano più la casa di tutti.
Riascolto VALZER PER UN AMORE : « Quando carica d’anni e di castità tra i ricordi e le illusioni del bel tempo che non ritornerà, troverai le mie canzoni ». Descritto in vari modi, quello dell’amore è sempre stato forse il suo cruccio più vero. Ce l’ha raccontato in tutti i modi e le situazioni, anche nel versante atroce e surreale della BALLATA DELL’AMORE CIECO ha trovato una scriteriata ragione d’esistere dentro ad una inutile follia. Sembra dirci che anche se gli amori finiscono male, di loro ne rimane almeno il ricordo, unica traccia consolatrice… (AMORE CHE VIENI, AMORE CHE VAI).
Le prostitute per lui, erano qualcosa di speciale. Dispensatrici di momenti amorosi, seppur a pagamento, nelle sue canzoni trovano una dignità che nessuno gli aveva mai riconosciuto. BOCCA DI ROSA, la canzone che preferiva, è molto di più di un inno alla professione. Di lei si innamorano tutti: « … perfino il parroco che non disprezza tra un miserere e un’estrema unzione il bene effimero della bellezza, la vuole accanto in processione e con la Vergine in prima fila e Bocca di Rosa poco lontano si porta a spasso per il paese l’amore sacro e l’amor profano ». Divertente quadro, quasi surreale di questa prostituta « che aveva più clienti di un consorzio alimentare » e che fa il paio con un’altra che invece ci incanta per la sua dolcezza. In « VIA DEL CAMPO c’è una graziosa, occhi grandi color di foglia… Se di amarla ti vien la voglia basta prenderla per la mano e ti sembra di andar lontano. Tu la guardi con un sorriso e non credevi che il paradiso fosse solo al primo piano » perché « dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior ».
Di Fabrizio De André, al tempo del suo esordio, non si sapeva nulla. Nessuno lo aveva mai visto, nemmeno in fotografia. Eppure raggiunge presto le vette delle classifiche.
LA CANZONE DI MARINELLA da molti definita la più bella di sempre, cantata poi anche da Mina, è un successo inspiegabile, considerati i gusti della gente di allora. In quell’ellepì c’è pure PREGHIERA IN GENNAIO scritta quasi di getto per ricordare l’amico Luigi Tenco suicidatosi dopo esser stata escluso dal Festival di Sanremo. « …Quando attraverserà l’ultimo vecchio ponte ai suicidi dirà baciandoli alla fronte: venite in paradiso là dove vado anch’io, perché non c’è l’inferno nel mondo del buon Dio ». Ed erano i tempi in cui la chiesa non permetteva l’ingresso in chiesa a chi si era suicidato.
Quale era la cultura a cui aveva attinto De André? Anzitutto quella delle strade della sua Genova, quella dei caruggi dove, fin da adolescente, amava andare per scoprire dove stava la vita, quella che stava al confine. I suoi volevano che si laureasse in legge, ma giunto alla soglia, sentì che quella non sarebbe stata la sua strada. Più che ai codici dava ascolto ai dischi che suo padre gli aveva portato dalla Francia. Fu così che scoprì Brassens, Brel, forse Aznavour. Da loro capì che la canzone, se portata ai livelli più alti, poteva aprirgli un mondo. Ma al tempo stesso leggeva Bakunin, Malatesta poi Max Stirner. Abbandona in seguito la visione collettivistica di Bakunin per abbracciare quella più individualistica di Stirner. « Dopotutto ci vuole tempo a trovare gente con la quale vivere le mie idee e così me le vivo da solo. Con una sola regola da osservare e la osservo proprio perché nessuno me l’ha imposta: anarchico non è un catechismo o un decalogo, tanto meno un dogma, ma uno stato d’animo, una categoria dello spirito » (Cesare Romana op. cit.).
Con queste convinzioni De André ha portato avanti la sua vita, credendo anzitutto a quello che vedeva e sentiva. La sua curiosità innata non gli fece mai escludere nessuno dal suo orizzonte mentale. Tra i suoi personaggi era passata anche la tesi che la storia di Cristo forse aveva un’altra genesi. Scoperta attraverso i vangeli apocrifi di cui pochi, forse nessuno, in quegli anni ne conoscevano i testi, trova motivi per incidere un nuovo disco che sembra un adattamento alla dottrina cristiana. Lo chiamerà La Buona Novella dove ci parla anche di MARIA costretta a credere che quello che le nascerà sarà il figlio di Dio. Per De André era valida l’ipotesi che Maria fosse rimasta incinta di un uomo giovane e bello arrivatogli un giorno, ma che lei credette fosse un angelo. Giuseppe poi, molto più vecchio di lei, poteva passare per suo padre.
De André era da tutti considerato un poeta. Ma lui non ci sta. In un’intervista a Vincenzo Mollica, noto giornalista Rai, disse che « (…) quando si è giovani siamo tutti poeti. Ma se a trent’anni ne scrivi ancora o sei un poeta veramente oppure un cretino. Non volendo appartenere a quest’ultima categoria preferisco essere un cantautore ». Ma per molti rimase ugualmente un punto di riferimento culturale. Se si parlava di lui si finiva sempre per dire che era un altro rispetto al resto. E il resto erano i vari Celentano, Morandi, Villa solo per citare i più conosciuti. Forse perché il suo linguaggio non era convenzionale, sapeva portare i suoi testi ad una riflessione che « lasciava il segno » nelle discussioni tra amici.
A lui siamo debitori delle più belle melodie mai apparse prima. Un repertorio musicale che ci arricchiva ad ogni nuova incisione. Molti tra i suoi colleghi lo andavano a trovare con il segreto desiderio di riuscire a strappargli la promessa di una nuova canzone. La stessa Mina, poi la Vanoni, Michele ( si quello di Se mi vuoi lasciare) lo incalzarono a lungo. Ma quella per cui avrebbe scritto volentieri un intero album era Dori Ghezzi, che al tempo furoreggiava assieme a Wess. Dopo aver lasciato la prima moglie, De André si innamora di lei, tanto che la sposerà (da lei avrà una figlia, Luvi, che ritroveremo nei suoi concerti e con la quale canterà la bellissima ballata inglese del 1500 GEORDIE che tanto ci piacque allora).
Scrivere di De André è come aprire un libro pieno di fatti sorprendenti. Nella sua vita non mancò quasi nulla, anche un fatto che lo segnò particolarmente: quello del sequestro suo e di Dori. I banditi arrivarono una sera nella tenuta dell’Agnata, la loro casa, in Gallura nel nord orientale della Sardegna. I due, presi alcuni abiti, seguirono i banditi fino al nascondiglio, dove rimasero per ben quattro mesi. Quasi tutti i giornali parlarono di loro e le scarse notizie trapelate dai sequestratori alimentavano le ipotesi più funeste. « Restammo in loro compagnia per quattro mesi, prima incappuciati poi, su nostra proposta fummo liberati dai cappucci e incatenati. Così ci lasciarono finalmente soli, visto che ormai non potevamo più scappare ». Fu la Barbagia il luogo scelto dai banditi, posto inospitale per chiunque. « Oggi ripensando a quel periodo » dice De André, « mi viene da ribadire di essere stato sequestrato non dalla mafia, ma da una banda di cherokee che prima ancora di voler i soldi volevano dimostrare il coraggio di rapire una persona». Vissi tuttavia quell’esperienza, almeno all’inizio, con grande curiosità. Fu in parte come assistere ad un film o leggere un romanzo del quale, malauguratamente era il protagonista. Liberati dopo il pagamento di un riscatto oneroso (600 milioni) i due ripresero la loro vita di sempre. Rimasero lì in Sardegna perché quella era la loro terra. Lì avevano amici e un’azienda da mandare avanti. E poi che altro dovevano temere?
Passò altro tempo. Presa la banda, al processo De André si comportò in modo che a molti apparve sorprendente e forse anche sospetto. Non ebbe mai sentimenti di odio nei confronti dei suoi carcerieri, anzi. « Ho perdonato loro perché potendo farci del male, hanno scelto di trattarci bene… Vorrei che certi Catoni vivessero l’esperienza che abbiamo vissuto noi e provassero quanto è importante, in quelle condizioni, essere trattati con umanità ».
Nel giro di qualche tempo incidono altri dischi (anche Dori Ghezzi). Ma per De André c’è un’ostinata domanda a cui non ha mai dato risposta: cantare nel suo dialetto. Nasce dopo collaborazioni varie la canzone CREUZA DE MA che sta per « mulattiera di mare » dove butta dentro tutta la sua genovesità, fatta anche dei racconti dei naviganti, gente che con il mare aveva avuto la sua quotidiana confidenza navigandolo in ogni dove, e ne raccoglie, storie, suoni (par di sentire anche il sapore salato di quell’acqua). Un viaggio che inizia dalla Grecia dove Domna Samiou ci introduce al suono dei suoi bouzouky. Canzoni che toccano varie sponde dove par di vedere marinai di tutti i tipi scrutare rive da dove sperano di trovare qualche donna, premio alla loro sfida con il mare.
De André incise altri dischi. Nel frattempo Cristiano suo figlio lo aveva fatto nonno di tre nipoti e a loro ci pensava. Pur tuttavia sempre a Mollica in un’intervista disse che « La canzone è una vecchia fidanzata con la quale passerei volentieri buona parte della mia vita. A patto, naturalmente, di esserle ben accetto ».
Dopo una malattia che lo aggredì senza dargli tregua, mori a soli 59 anni.
Da IL TESTAMENTO : « Quando la morte mi chiederà di restituirle la libertà, forse una lacrima, forse una sola, sulla mia tomba si spenderà, forse un sorriso, forse uno solo, dal mio ricordo germoglierà. »
Massimo Rosin