Il Capitale umano (Les Opportunistes) per uno sperimentale Virzì

Una recensione. Esce in Francia, il 19 novembre, “Les Opportunistes” (Il Capitale umano), il nuovo film di Paolo Virzi, che sulla linea di “Tutta la vita d’avanti”, continua il suo viaggio nell’Italia di oggi tra bisogno di lavoro e illegalità diffuse. In un Nord Italia da conoscere, va in scena lo scontro generazionale di questi anni. Commedia sperimentale tratta da un romanzo americano dal sapore divertente ed amaro.


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Il Capitale umano è un film di Virzì suddiviso in quattro capitoli, aperto da una breve scena molto dura : in una notte a ridosso del Natale, un cameriere di origini maghrebine viene investito da un SUV in una strada di campagna dopo aver finito il suo turno serale in una ditta di catering. A partire da questa introduzione, inizia un intreccio di flashbacks che hanno gli stessi protagonisti, ma nei quali il punto di vista/personaggio principale cambia per ben 3 volte.

C’è un immobiliarista (Fabrizio Bentivoglio) che si sforza di entrare nelle grazie di un ricco finanziere (Fabrizio Gifuni) e poi una moglie incinta (Valeria Golino) e un’altra infelice (un’ottima Valeria Bruni Tedeschi, in una recitazione di livello come quella di in Viva la Libertà); c’è un teatro da riaprire, ma ci sono soprattutto tre adolescenti che cercano di affrontare la vita con le loro forze, a volte fragili a volte più salde di quel che appaia.

Un Virzì per la prima volta sperimentale, che esce dai canoni tradizionali sui quali ha costruito molti dei suoi successi; «questo film è una specie di puzzle narrativo capace di dirci quello che siamo diventati quando abbiamo creduto che la ricchezza si potesse moltiplicare senza fatiche e invece ci siamo ritrovati in un baratro». Un Virzì che continua, dopo il successo di Tutta La Vita davanti, a trattare l’impatto che la vita economica del nostro paese ha sulla vita di tutti i giorni, sui rapporti interpersonali e sulle vicissitudini familiari di ogni individuo.

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Tratto dall’omonimo libro dell’americano Stephen Amidon, si tratta dell’undicesimo lungometraggio del regista toscano che ha riadattato questa storia della provincia americana alla «ricca Lombardia» dei nostri giorni e, dopo aver girato sette settimane tra neve, pioggia e nebbie, sfrutta il sole per le ultime due settimane di riprese.

Dall’ottima recensione del Mereghetti, mi sono permesso di estrarre una piccola intervista del critico al regista che recita cosi’ : «Nel romanzo, e nel film, si intrecciano il noir e il thrilling, c’è l’ironia beffarda verso una piccola borghesia che vuole fare il passo più lungo della gamba ma soprattutto c’è un viaggio dentro il conflitto tra genitori e figli. Anzi, proprio tra padri e figli». E lo dice con tutto l’affetto e la preoccupazione di chi è appena diventato padre per la terza volta: «Ho appena avuto una bambina, dopo che con Micaela (Ramazzotti, ndr) avevamo già un maschietto. Che si aggiungono alla figlia del mio primo matrimonio, che studia a Berlino e non ha intenzione di tornare in Italia. Posso darle torto? Se mi guardo in giro non vedo un bel panorama: genitori infantili e narcisi, che schiacciano i figli sotto le loro ambizioni e li legano per tutta la vita ai loro destini. Sembra quello che fa il Pd con i suoi».

Molte sono le similitudini tra quest’opera ed il capolavoro del regista rumeno Netzer vincitore a Berlino con Il caso Kerenes. Innanzitutto il ruolo protettivo delle famiglie benestanti verso figli mediocri e poco disciplinati, ai quali nessuna lezione puo’ essere impartita ma la dolce mano materna deve sempre proteggere (anche ad un prezzo molto elevato). I due film si discostano invece nettamente su due cardini dell’italianità post boom economico, alla IL SORPASSO per capirci: la furbizia asservita al guadagno facile e l’edonismo del voler apparire ad ogni costo, la sindrome eterna della vita come un perenne Grande Fratello.

L’immobiliarista Fabrizio Bentivoglio rappresenta in modo magistrale l’italiano medio che cerca in ogni modo, ingannando persino i suoi cari, di guadagnare rapidamente denaro per poter condurre lo stesso trend di vita di qualcuno con entrate chiaramente superiori alle proprie. Il film rumeno pone invece molto di più l’accento sull’arroganza dei nuovi “parvenus” verso la povera gente di campagna, e l’impressione, in molti paesi ex-patto di Varsavia, che tutto abbia un prezzo, anche il dolore tremendo della perdita di un figlio. Virzì si sofferma più sul lato degli arroganti tralasciando completamente (e volutamente) la storia della famiglia e dei genitori del cameriere ucciso in bicicletta.

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Da qualche rapida lettura di eminenti testate giornalistiche italiane è emerso un forte sdegno della comunità brianzola in seguito all’uscita del film. Trovo francamente esagerate certe critiche al regista, che si limita semplicemente a ritrarre una realtà di crisi che rispecchia più in generale il Nord Italia che la Brianza in particolare.

A parte qualche piccolissimo dettaglio, il film potrebbe senza ombra di dubbio essere stato ambientato in un qualsiasi facoltoso feudo della Lega Nord: Brescia piuttosto che Padova, Cuneo piuttosto che Vicenza. Il concetto che Virzì descrive è quello di una certa fetta della popolazione italiana, per fortuna non maggioritaria nemmeno in Brianza, che non ha scrupoli e continua imperterrita a seguire logiche di criminalità economica (evasione fiscale, truffe, speculazione, etc…) nonostante il paese abbia bisogno di gente seria e onesta.

I due personaggi più positivi del film, il giovane tossicodipendente e il professore di filosofia (sempre splendido il nostro Lo Cascio), sono destinati a pagare, uno penalmente e l’altro sentimentalmente, sia le loro povere origini che la loro bontà. Presente anche il tema della fiducia tradita, sotto più risvolti.

Virzì riesce (ed è questo il grande merito del film) comunque a dare risalto a tematiche molto complesse della nostra società moderna, dando nel complesso positività a cambiamenti recenti del pensare italico-cattolico, come le famiglie ricostruite (rapporto tra la matrigna e la figlia del compagno) oppure sull’umanità della psicologa che va con il cuore oltre il semplice esercizio di un mestiere. Toccante è anche la tremenda cattiveria dello zio del tossicodipendente, anche lui un piccolo squalo nel suo mondo dei vinti.

Questo film lancia un monito e Virzì ne è il megafono: i genitori di oggi non aiutano più i figli a maturare. Per egoismo? O forse semplicemente perchè loro stessi non sono davvero maturi?

Fabrizio Botta

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Fabrizio Botta
Fabrizio Botta, Piemontese d'origine e Francese d'adozione, si e' stabilito nella "Ville Lumière" dopo aver ottenuto un Dottorato all'Université Pierre et Marie Curie. Dopo aver lavorato per 10 anni come ricercatore nel campo ambientale, da qualche anno si occupa di valutazione del rischio all'Istituto Superiore di Sanità Francese. Appassionato di viaggi, di geopolitica e di fotografia (https://www.instagram.com/_fabrizio_botta_photographer/), dal 2015 collabora con Altritaliani per la sezione cinema.

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