La Pillola novembrina di Puppo.
L’uomo che cammina sui pezzi di vetro è Daniele, 24 anni, di Forlì. Su una rete sociale conosce Irene, che ne ha 20. Tra loro scatta una misteriosa complicità. In un anno si scambiano ottomila messaggi. Trascorrono intere giornate a dialogare. Sempre a distanza, si intende. Parlano addirittura di matrimonio, di figli. Non si incontrano mai. Neppure una telefonata. Certe volte Irene si fa distante, fredda. Allora Daniele chiede consigli, sempre in rete, alla migliore amica della ragazza, Claudia.
Irene nelle fotografie è bellissima (nel mondo virtuale c’è spazio solo per i superlativi). Assomiglia a una certa modella. Anche un po’ troppo. Daniele comincia ad avere dei sospetti. “Chi sei realmente? Perché non mi hai mai mandato un audio?”. Il velo di Maya, la patina che ricopre il mondo di illusioni, comincia a sollevarsi. Finché una notte Daniele si uccide. Si impicca, nella casa di Forlì, un giorno di settembre 2021. Come nella canzone la sedia di lillà di Alberto Fortis, i genitori vedono l’ombra appesa, la vedono dondolare. Si è ucciso perché Irene non è Irene. Irene in realtà si chiama Roberto Zaccaria, è un uomo di 64 anni che vive a Forlimpopoli (a due passi da Daniele) con sua madre e una sorella. Poca vita, sempre quella. Zaccaria è Irene e anche Claudia, l’amica del cuore.
La procura apre un’inchiesta e gli infligge un’ammenda : 825 euro. Per sostituzione di persona. Non è considerato responsabile, in senso penale, della morte di Daniele. Forse non è giusto. Forse una responsabilità c’è. Il padre di Daniele scrive: “Mio figlio è stato vittima di quello che oggi è chiamato catfishing, una relazione virtuale nata sui social con una ragazza, dietro la quale si celava la figura di un uomo di 64 anni. Questa relazione virtuale ha portato alla morte di mio figlio. (…) Spero vivamente che questa storia possa servire a rivedere alcune leggi e far sì che chi commette questi reati venga punito severamente”.
Gli inviati di una popolare trasmissione televisiva, Le iene, vogliono raddrizzare questo kantiano legno storto e vanno a cercare Zaccaria. Lo incalzano mentre spinge la carrozzella della madre disabile. «Ci dice se è andato dai genitori di Daniele? Anche solo per chiedere scusa o beccarsi uno schiaffo dalla mamma? Queste persone hanno trovato il proprio figlio attaccato a una corda. Perché insistere così? Ma lei si sente a posto?”. Zaccaria risponde: “se aveva dei problemi di testa non è colpa mia», «i genitori vadano a rompere i coglioni da un’altra parte». Il filmato viene mandato in onda, con il viso di Zaccaria offuscato.
Ma in paese lo riconoscono tutti. L’uomo porta ormai la lettera scarlatta. I messaggi sulle reti sociali dicono: “Questa merda umana non merita di vivere”, “Non la passerai liscia”, “Forlimpopoli è piccola”, “Nasconditi bene”. Lo chiamano porco, suino, orco. Sui muri della città i manfesti: “Devi morire e andare all’inferno”. Vorrebbero bruciarlo vivo, vedere la sua bocca avvolta dal fuoco diventare un punto bianco che urla di dolore e poi scompare. Finché anche Roberto Zaccaria si uccide. Prende dei farmaci. Lascia una lettera, dove si rivolge a un fratello più giovane: “Non fare gli stessi miei errori, io ho sbagliato tutto, non ho mai avuto un amico, mai una ragazza. Sono stato solo tutta la vita”. Alla madre lascia soprattutto istruzioni pratiche su come affrontare il dopo senza di lui. I commenti su Internet dicono: “Giustizia è fatta», «la giustizia divina ha agito”.
Gli autori della trasmissione televisiva si difendono dall’açcusa di aver messo un uomo alla gogna. Dicono che il loro intento era solo indagare e sensibilizzare. “Stiamo vivendo un vuoto normativo? Abbiamo lo strumento per proteggerci? Sicuramente continueremo a occuparci di catfishing perché imparare a riconoscere il problema è il primo passo per evitarlo”.
Parole abili. “Proteggerci”. “Riconoscere il problema”. Il problema c’è: le reti sociali accentuano il rischio che personalità fragili siano esposte a manipolazioni. Ma braccare un uomo, qualunque uomo, svergognarlo, indicarlo a tutti come un mostro da odiare e bruciare, è in ogni caso un atto orribile. Un uomo di 64 anni che viveva, a quanto si capisce, in una disperata solitudine, in cui si agitavano mostri, fantasmi. Che lo portavano poi a travestirsi virtualmente, a sentirsi una ragazza giovane e bella, che fa girare la testa agli uomini, che si spoglia, si fa guardare, sfila la maglietta alzando le braccia come la Laide prostituta-ballerina di Un amore di Buzzati.
Le reti sociali, le comunicazioni digitali, non inventano, ma amplificano, rivelano ciò che esiste ed è immutato da migliaia di anni. Il fatto cioè che l’essere umano, al di là delle apparenze sociali, è questo abisso. È un pozzo che fissa il cielo (dice Pessoa). E che in ognuno di noi c’è un gioco di specchi, in cui siamo uomini, donne, carnefici e vittime. Disperati e feroci, capaci allo stesso modo di amare e odiare gli altri. Ogni tanto lo specchio si rompe e restano mani sporche di sangue. Come quelle degli inviati della trasmissione televisiva: iene di nome e di fatto.
Maurizio Puppo
Complimenti per questo articolo. Questa storia tristissima e senza pietà mi ricorda due film di Fritz Lang, “M – Il mostro di Düsseldorf” del 1931 e Furia del 1936.
Ed è anche un sintomo della televisione spettacolo e del consumismo attuale. Non è certamente per “fare giustizia” oppure per denunciare un fatto di cronaca pericoloso oppure il cosiddetto “catfishing” che la trasmissione de Le Iene ha “indagato” ma per fare salire la sacra santa “Audience”.
Grazie