La critica pirandelliana si è come arrestata di fronte all’ultima produzione pirandelliana, quella che comunemente definiamo il teatro dei miti (Vedi: Pirandello 150 e le frontiere della critica pirandelliana).
Miti sono La nuova colonia, La favola del figlio cambiato e I giganti della montagna, l’ultimo capolavoro pirandelliano che rappresenta il mito dell’arte. Incompleto per la morte dell’autore e portato in scena postumo nel 1937, è forse il più evocativo.
Però ancor prima, Lazzaro e Liolà, possono essere considerati appartenenti ad una dimensione altra rispetto alla consueta tematica pirandelliana.
Lazzaro, celebra il tema del ritorno alla vita, dell’aldilà oscuro, dell’esistenza dopo la morte e Liolà è pervaso di un sentimento di naturalezza e di gioiosità e sembra aprire alla positività.
La critica definisce l’insieme di queste opere l’approdo al fantastico, al poetico che tutto sommato non giudica originale e nuovo.
Ma c’è una novità e straordinaria a leggerla con la sensibilità di noi contemporanei. I giganti della montagna parla della perdita della bellezza, anzi della sua morte. È la profezia più tremenda e più attuale.
Abbiamo ucciso la bellezza ed invano tentiamo di recuperarla, di farla risorgere. Ne siamo inutilmente consapevoli.
Pirandello ha consegnato al pubblico, che dapprima subendolo e poi accettandolo senza confutazione, l’idea della vita ridotta a ripetizione, a sfilata di specchi riproducenti la stessa cosa, una vita smarrita in labirinti privi di senso, vera e propria trappola come lui stesso sottolinea già nel titolo di una sua novella.
Cotrone il mago de I giganti, prospetta un’utopia, la libertà, la naturalezza del vivere, come Pirandello d’altro canto aveva celebrato in Liolà. Subito dopo però Ilse viene uccisa dai giganti ed Ilse rappresenta appunto la bellezza.
C’è un approdo, ma all’elemento simbolico, a Ilse, alla poesia, alla bellezza che i giganti uccidono. Uccidono senza comprendere che l’uomo non vive di solo pane ne’ di denaro ma ha bisogno di un elemento impalpabile, invisibile, etereo e sconfinato che produce senso, che ha significato per lui.
È Euridice che Orfeo invano cerca, si dispera e la piange, perduto e smarrito com’è ormai nello scandaglio dell’oltretomba. L’Ade è irremovibile.
Invano ai nostri giorni tentiamo di salvaguardare il paesaggio, l’ambiente con leggi, progetti. Ne abbiamo perduto irrimediabilmente il senso. Esso è muto per noi, avvolto dalle nebbie di Avalon.
La tremenda profezia di Pirandello suona come maledizione. Con essa, secondo la critica, Pirandello chiudeva i conti con la cultura occidentale contro cui aveva iniziato la guerra demolendo uno ad uno i miti perversi del progresso, della ragione della centralità dell’uomo.
Infatti, diceva Pirandello ne L’umorismo: “Ecco il re dell’universo armato di una scopa, il re Lear impazzito, in preda al delirio”.
La cultura rinascimentale, con il mito della centralità dell’uomo, crolla nella follia, e la storia, non è più maestra di vita, ma porto di rassicurazione e di certezze erudite. Elemento di profonda falsificazione.
La razionalità cartesiana è ugualmente scomparsa e con essa il grande tema dell’illuminismo che sostituisce altre certezze ora impossibili.
L’ultimo mito, la bellezza: anch’esso volge le spalle all’uomo lasciandolo senza più consolazione.
Si comprende la distanza di Ilse rispetto ai giganti, esseri mostruosi ridotti a pura materialità che inconsapevoli la uccidono e tardivamente se ne pentono.
I moderni giganti inconsapevoli che fanno lievitare le megalopoli, non possono comprendere ciò che è opposto alla loro materialità e per questo uccidono Ilse che finora li aveva tenuto lontano dalla barbarie.
L’ultima produzione pirandelliana contiene sì la nostalgia per ciò che non è più possibile, la gioia e la naturalezza del vivere, ma anche il tremendo sentimento della perdita irrimediabile della bellezza.
Carmelina Sicari
Foto di Simone Cecchetti: I giganti della montagna, regia di Roberto Latini.