Un po’ dappertutto si commemora il Centenario della guerra 1914-1918, per gli Italiani cominciata il 24 maggio del 1915, dopo un lungo periodo di ripensamento e di neutralità. È stato istituito un comitato storico-scientifico con un decreto del presidente del Consiglio dei Ministri, presieduto dall’on. Franco Marini, con lo scopo di ravvivare la memoria nelle giovani generazioni e suggerire un monito: no alla guerra.
Già si è realizzato a Roma un convegno internazionale dal titolo suggestivo: Documenti ed immagini della grande Guerra, in collaborazione con l’Istituto centrale per il Catalogo unico delle biblioteche italiane, l’Istituto per la Storia del Risorgimento italiano, il portale Europeana collection (http://www.europeana1914-1918.fr/it). Molte sono dovunque le testimonianze di giornalisti e scrittori sull’argomento.
In Francia un grande favore di pubblico è stato riservato all’ultimo romanzo del grande scrittore contemporaneo Pierre Lemaitre: Ci vediamo lassù, da poco edito in Italia da Mondadori, che ha già venduto mezzo milione di copie ed ha avuto nel 2013 il Premio Goncourt. Le 442 pagine di questo testo rivelano come sia ancora d’attualità il ricordo di quella guerra che ha spento nei superstiti la speranza d’una vita normale. Essa è stata infatti un vero flagello, ha dato origine a tutte le guerre successive che sconvolsero l’assetto politico e civile di tutti i paesi che ne furono coinvolti e che segnò un grave vulnus nel corso della storia. Niente dopo di essa fu più come prima. Il cambiamento che percorse gli stati fu così profondo da lasciare un segno indelebile ed un vuoto che stentò molto ad essere colmato, forse ancor non del tutto.
Ma, in un certo senso, la guerra fu il risultato non solo della crisi politica, culminata con l’assassinio di Serajevo dell’arciduca d’Austria Francesco Ferdinando e della moglie, il 28 giugno 1914, ma del travaglio e della perdita di valori di tutta una generazione che aveva coltivato l’idea della guerra ed a tutti i costi l’aveva sollecitata come soluzione salutare per far trionfare nazionalismi e colonialismi, allora molto diffusi, e come antidoto all’immobilismo imperante.
La memoria non va solo ai futuristi che l’invocarono come igiene del mondo, ma a dei grandi autori come G. D’Annunzio che con il suo Andrea Sperelli, protagonista di successo del Piacere, propose il modello d’una borghesia oziosa e corrotta e nel dramma La Nave incoraggiò la corsa agli scontri : Arma la prora e salpa verso il mare, mimando il desiderio di un’avventura spericolata dal facile esito, ma per molti letale. G. Pascoli non fu da meno con il discorso tenuto a Barga, nel 1911: La grande proletaria s’è mossa, con cui sostenne la guerra libica, in nome d’un nazionalismo considerato “nido di protezione” come la famiglia.
L’attività delle riviste
Ma la responsabilità altrettanto grave fu pure di tante voci di intellettuali che, nelle riviste del primo Novecento, si levarono e condizionarono l’opinione pubblica senza alcun senso di responsabilità.
G. Papini sul “Leonardo” diffondeva il messaggio della necessità di chiamare tutti allo sbaraglio:
« Abbiate del coraggio, della temerarietà , della pazzia…. »
e sull’Acerba: “Ci vuole alla fine un caldo bagno di sangue. La guerra rimette in pari le partite… Fa il vuoto perché si respiri meglio… Amiamo la guerra ed assaporiamola da buongustai… La guerra è spaventosa ed appunto perchè è spaventosa e tremenda e terribile e distruggitrice dobbiamo amarla con tutto il nostro cuore di maschi”.
Prezzolini ne “La Voce” e Corradini ne “Il Regno” insisterono a preferire la guerra come unico rimedio per vincere l’impasse delle remore che ad essa si contrapponevano. Queste voci si fecero sempre più insistenti e riuscirono a convertire alla guerra anche persone solitamente miti che fraternizzavano con i più deboli.
Renato Serra, intellettuale pensoso e moderato, propenso alla solidarietà umana ed alla giustizia sociale, non sfuggì a questa regola, anche se fu spinto da motivi ben diversi. Egli infatti nell’ “Esame di coscienza d’un letterato del 1915” non mette in conto l’azzardo e la voglia d’avventura, bensì la considerazione che la guerra è un punto d’onore da cui non si può fuggire, per restare isolati in un cantuccio: Se non parteciperemo alla guerra invecchieremo falliti. Saremo la gente che ha fallito il suo destino. Nessuno ce lo dirà e noi non lo sapremo, ci parrà d’averlo scordato e lo sentiremo sempre, non si scorda il destino. Siamo insieme aspettando oggi come saremo nell’andare domani. …Per cui la conclusione è in una sua dichiarazione falsa ed oscena:
La guerra è un fatto, come tanti altri in questo mondo; è enorme, ma è quello solo, accanto agli altri che sono stati e che saranno: non vi aggiunge, non vi toglie nulla nel mondo. Neanche la letteratura.
Certo la responsabilità fu dei politici in primo luogo, ma pure degli uomini di cultura che non ebbero la sensibilità di respingere la grande catastrofe.
L’onore dell’Italia, il destino, il desiderio dell’igiene furono tutti pretesti per mobilitare le coscienze ed invitare alla guerra, come ad un banchetto, quasi con un grido di gioia. Ma essa fu devastante e cieca e non risolse la questione degli irredentismi a nord-est della penisola per cui tanti italiani, in nome d’un falso sentimento patriottico si erano mobilitati. Nessuno ne trasse vantaggio: oltre ai lutti ed alle devastazioni, essa inasprì gli animi e li dispose a volere la rivincita in altri duri confitti successivi. Le conseguenze furono gravi ed impreviste: quattro anni di duri scontri, milioni di giovani stroncati nel fiore della loro giovinezza, lo sfascio delle famiglie, rovine e miseria dappertutto, crisi economica e umana per conseguire quella “vittoria” che in Italia fu detta “mutilata” e che divenne fonte di altre rivendicazioni.
Dopo fu tutta un’altra storia
Se andiamo a rispolverare le voci del dopoguerra la musica ovviamente cambia. Chi ha la forza di commentare non ha più la voce dell’entusiasmo e dell’attesa, ma contratta e resa scarna dall’angoscia. La maschera sembra essere caduta per lasciare lampante una profonda verità: la grande guerra è stata un tragico errore, un abbaglio collettivo. Lo testimoniano i poeti che avvertono il cuore dell’umanità:
Ungaretti, uno dei testimoni oculari, nel suo linguaggio secco e scabro, come in un diario senza commenti, documenta lo spettro di quel deserto che la guerra seminò (da Allegria di naufragi,1919):
Di queste case /non è rimasto /che qualche brandello di muro /Di tanti/ che mi corrispondevano/ non è rimasto/neppure tanto/Ma nel cuore /nessuna croce manca/ E’ il mio cuore/ il paese più straziato.
Oppure :
Si sta come /d’autunno/sugli alberi/le foglie.
ed ancora :
Come questa pietra (San Michele)/ è il mio pianto/che non si vede /la morte si sconta vivendo.
Clemente Rebora, combattente sul Carso, rende in Viatico, con drammatica crudezza, l’atmosfera tragica della guerra che annulla la pietà. Come in una sequenza cinematografica l’episodio toccante del ferito senza gambe, soccorso senza successo dai compagni che vengono a loro volta uccisi, si conclude con l’auspicio che possa morire in silenzio al più presto:
O ferito laggiù nel valloncello/tanto invocasti/se tre compagni interi/cadder per te che quasi più non eri./…….affretta l’agonia,/tu puoi finire,/…..lasciaci in silenzio/ Grazie, fratello.
Tra gli scrittori C. Emilio Gadda, tra il ’15 ed il ’19, tenne Il Diario di Caporetto con la descrizione della sua prigionia e delle drammatiche giornate che ivi trascorse (l’opera fu pubblicata molti anni dopo la sua morte). La guerra combattuta con tanto accanimento non fu mai considerata occasione di gloria e di eroismi, ma di lutti, rovine e desolazioni. I toni trionfalistici di prima hanno lasciato il posto allo sgomento ed alla desolazione e ad un sentimento di umana pietà che talvolta diviene ricerca di Dio e dell’assoluto.
Confessava lo scrittore Scipio Slataper alla moglie: Si sente che è vicino Dio nel campo di battaglia. A suscitare questo sentimento religioso era il senso della precarietà della vita e dell’inutilità della furia forsennata del conflitto che non portò a soluzione i problemi per cui era iniziato.
Pure G. Stuparich in La guerra del ’15 scriveva:
…Non amo la guerra. Sono anzi un uomo di pace. Non l’amavo neanche allora, ma pareva che la guerra s’imponesse per eliminare la guerra. Erano bubbole, ma gli uomini a volte s’illudono e si mettono dietro le bubbole.
Proprio così.
Le falsità diffuse prima si trasformarono ben presto in verità lampanti, quando ormai era impossibile tornare indietro.
E’ questo della guerra un maledetto labirinto che ingoia gli uomini e genera confusioni ed errori.
Ardengo Soffici spiega:
La guerra mi ha insegnato tante cose. E, prima tra tutte, che noi artisti eravamo su una falsa strada, quando ci racchiudevamo nell’élite intellettuale senza guardare altro che la nostra strada, senza pensare che al nostro io.
Peccato però che, a giudicare dei numerosi conflitti nel mondo, dopo tante prove negative, la lezione di allora non sia servita ad evitare altre guerre. Speriamo che i giovani imparino presto per il futuro a far tesoro dell’esperienza di quelli che li hanno preceduti.
Gaetanina Sicari Ruffo
*****
Una banca dati di grandissimo interesse:
14-18 DOCUMENTI E IMMAGINI DELLA GRANDE GUERRA
Durante la Prima Guerra Mondiale si assiste ad una straordinaria produzione di materiali documentari diversi: dalle fotografie alle cartoline; dai giornali di trincea ai manifesti; dai fascicoli riguardanti i singoli caduti ai volantini di propaganda; dagli spartiti musicali ai diari e alle lettere.
Il portale www.14-18.it/è costituito da un grande archivio di immagini di straordinario interesse storico che consente la conoscenza e la valorizzazione di collezioni possedute da istituzioni diverse tra cui archivi, musei, biblioteche. Si rende così consultabile sul web, in forma unitaria e con semplici suddivisioni tipologiche, un importante patrimonio documentario poco conosciuto o del tutto inedito.