La pillola di Puppo. Pensavo proprio a lui, domenica scorsa. Una decina di anni fa andai a vedere due partite del famoso torneo parigino di tennis, il Roland Garros. Trovai le partite noiose, le donne del pubblico bellissime. Annoiate e mezze (ma quel mezze non è ancora abbastanza) spogliate nel sole. L’odore della terra battuta, innaffiata di tanto in tanto, mi riportava alle mie scarse (in quantità e qualità) frequentazioni della racchetta. Il tennis l’avevo sempre trovato erotico, con quell’odore di terra e acqua che ti restava addosso, ed entrava negli spogliatoi, fin sotto le docce. All’uscita sperai di incontrare il bravissimo giornalista (e scrittore) Gianni Clerici. Anche se poi non avrei ben saputo cosa dirgli. Se non qualche banalità impacciata, che mi avrebbe messo di diritto nel novero degli inutili, noiosi ammiratori. Non lo incontrai. Un po’ di rammarico, un po’ di sollievo. Domenica scorsa ho visto in TV qualche scambio della finale del Roland Garros, e ho pensato a lui. Probabilmente (mi sono detto) non sarà più al suo posto, è forse ormai un po’ troppo vecchio. (Aveva 91 anni). Non c’era, infatti. Si stava preparando a morire. Come tutti si muore.
Gianni Clerici diceva di sé: sono un giornalista che narra quello che altrimenti non avreste modo di sapere. Aveva lavorato con Gianni Brera e Beppe Viola, quando il giornalismo sportivo era ancora un sublime escamotage per raccontare il mondo (e l’eterno, e le morte stagioni, e la presente e viva, e il suon di lei), facendo finta di parlare d’altro. Più tardi, era diventato molto popolare per le cronache fatte in televisione. Credo avesse scelto il tennis per tradire la sua vocazione letteraria (Italo Calvino di lui aveva detto che era uno scrittore prestato allo sport, al giornalismo) e la scrittura per tradire il tennis, di cui era stato un discreto giocatore. (Era riuscito a giocare anche a Wimbledon, nel 1953, andandoci dall’Italia con una Cinquecento. Aveva perso al primo turno).
Scriveva meravigliosamente bene. Era bellissimo leggere i suoi articoli, indipendentemente dall’interesse portato allo sport, al tennis. Che con lui diventava un gioco cerebrale e divino, fatto non per vincere o perdere, ma per irridere cielo e inferno. Una volée riuscita, un passante miracoloso, uno scambio indimenticabile per qualche istante sembravano capaci di sfidare ogni destino e anche la morte. Raccontare non significa « riportare » ciò che accade (« i setter, riportano », diceva, fedele a un certo suo cortese e sincero snobismo che ce lo rendeva caro. E che gli faceva dire cose del tipo: “chiariamo subito, non ho mai lavorato neanche un giorno. Ero allergico alle polveri sottili della tipografia”).
Raccontare, significa dare al mondo una forma che prima non aveva. E che senza quel racconto mai ci sarebbe stata. Clerici ha fatto con il tennis quello che Gianni Brera e Giovanni Arpino hanno fatto con il calcio, Gianni Mura e Mario Fossati con il ciclismo (sport letterario, assieme al pugilato, per eccellenza). Ci hanno fatto pensare che non è lo sport a essere una metafora della vita, ma è la vita a essere una metafora (non sempre completamente riuscita) dello sport. Ora la domenica è trascorsa, il Roland Garros è finito, le belle ragazze annoiate sono di nuovo scomparse e chissà in quale angolo del cielo le ritroveremo. (Ma saranno ormai cambiate, diverse, lontane). Gianni Clerici è morto. Che peccato non averlo incontrato dieci anni fa. Avevo da dirgli tantissime cose, che non avrei saputo dire.
Maurizio Puppo