Nello studio i libri avevano assunto altezze indicibili: si sovrapponevano, si urtavano, si accartocciavano, erano pericolosamente pensili. Non riuscivo a disfarmi di nessuno di essi. Amavo guardarli così ammucchiati come torri di guardia a difesa della mia mente e del mio corpo. Sentivo in loro una straordinaria protezione, mi rassicuravano, non s’allontanavano mai. Quelli che avevo letto e recensito mi erano più cari come fraterni amici confidenti, pronti ad intavolare conversazione in qualunque momento lo volessi. Gli altri ancora da leggere e da scoprire erano misteriosi. Aspettavo d’entrare in confidenza con loro, quasi prolungando il piacere del loro incontro.
C’erano poi quelli che tornavo a leggere in determinati momenti critici della giornata: i racconti di Kafka per esempio. M’inducevano a riflettere su quelle zone d’ombra esistenziali ch’erano pure le mie. M’immedesimavo nell’oscuro impiegato ch’era stato lo scrittore praghese e cercavo di capire in che cosa avesse sbagliato per ritrovarsi così angosciato. Qualcuno della sua famiglia, se non lui personalmente, doveva aver commesso errori. Ho letto più volte la lettera scritta al padre e ne ho tratto la convinzione che il rapporto tra i due fosse stato senz’altro fonte continua di tensione e di rammarico.
Nella mia vita non c’era stato un simile approccio. Conservo il ricordo d’un padre molto tenero con me, anche se non uno stinco di santo, imperfetto in molti dei suoi comportamenti, facile all’ira, incostante e soprattutto volubile nelle decisioni e nelle scelte, che pretendeva però dai suoi figli quello che non gli era riuscito di conseguire per sè, quell’attenzione ed accortezza e presenza di spirito che potevano salvare le situazioni più penose. Per lui se uno avesse imparato tali accorgimenti avrebbe potuto cavarsela quasi sempre.
Per quanto io mi dimostrassi convinta dai suoi ragionamenti, in cuor mio disapprovavo questo modo di generalizzare la vita e pensavo ch’essa dovesse esser vista da angolazioni diverse a seconda delle circostanze. M’ero fatta l’idea d’una avventura che riservava cioè aspetti inediti da essere vissuti e scoperti man mano che gli anni scorrevano. Allora naturalmente sbagliavo per inesperienza, ma devo confessare che, senza quell’attesa del nuovo e del bello, che si sarebbe all’improvviso rivelato, non avrei sopportato tanti e tanti avvenimenti incresciosi che mi si rivelarono dopo e frequentemente.
Di Kafka poi m’affascinavano i suoi trasporti amorosi. Leggevo le sue lettere e cercavo d’intendere il motivo per cui non s’era fatto una famiglia tutta sua. Dimostrava molto attaccamento alle donne che aveva frequentato e queste a loro volta lo ricambiavano con trasporto e confidenza. Eppure c’era qualcosa che aveva finito poi con l’avvelenare i loro rapporti e tutto il bene s’era dissolto come nebbia al sole. Il carattere, sì. Era stato quello a tradirlo. La mancanza d’una sua ferma decisione e d’una decisiva scelta. Egli parla quasi sempre d’angoscia come d’un sentimento non di vaga incertezza, ma presente e terribilmente concreto nella sua esistenza. Da allora mi sorge dentro, ogni volta che lo rileggo, una sorta di ribellione e di condanna. Vorrei dirgli: -Ma non capisci che sta proprio qui il male di vivere?- e sembra ch’egli mi risponda: -Ma come si fa a non sentirlo se ci sono cresciuto insieme?- Poi c’è la questione ebraica a complicare la sua situazione esistenziale e la malattia con cui egli dapprima convive ma che poi finirà con il fiaccare ogni sua, anche debole, resistenza.
Un altro infelice che accentua il mio stato d’inquisizione su alcuni condizionamenti esistenziali è l’italiano Pavese. Mi son fatta l’idea, leggendo i suoi libri, d’un intellettuale libero che però ha pagato disperatamente la sua voglia d’autonomia, dapprima con il confino cui fu inviato dal regime fascista ch’era venuto in possesso di alcune sue lettere compromettenti scrittegli da amici oppositori del regime. Colpevole solo d’un reato di opinione, dunque, cioè praticamente innocente. Capisco il suo malumore e la sua malinconia che lo hanno segnato anche una volta riacquistata la libertà, quando aveva iniziato quel percorso che l’avrebbe portato ad essere un grande scrittore non conformista, ma ribelle e lirico nello stesso tempo. Quel suo libro “I dialoghi con Leucò “ sono quanto di più moderno si possa concepire: sogni, elucubrazioni della mente, aporie del pensiero consegnati con molta semplicità in forma di miti in una libera associazione di figure e colloqui.
Per trovare una fantasia che non sia solo fine a sé, ma lezione di vita così dovremo arrivare a Calvino. Egli ci riceve con il suo sorriso leggermente ironico. Ci fa sedere di fronte a lui nel salotto buono della sua casa e ci inizia ai meandri della sua scrittura, come se si trattasse d’andare a visitare un labirinto. Poi nel più bello, quando sembra d’essere sul punto di svelare l’arcano, ci lascia soli. Un senso di smarrimento subentra e di solitudine, perché la vita non è un gioco come vorrebbe farci credere, bensì dilemma.
Vediamo attraverso i suoi occhi disegnarsi mille sfaccettature e possibili soluzioni, città invisibili, sere d’inverno, viaggiatori misteriosi, itinerari impossibili, persino racconti onirici che fanno dubitare della realtà. Ma quella linea all’orizzonte cos’è ? L’autore non arriva a definirla e concretizzarla. Ci indica solo una soglia d’ingresso e molti temono di entrare, perchè dietro di essa potrebbe nascondersi il vuoto. Penso ch’egli abbia voluto denunziare proprio questo pericolo. Si pensi alla favola del cavaliere inesistente rivestito della sola armatura. Le cinque lezioni poi cosiddette americane, sono un capolavoro di scioltezza ed eleganza e di raffigurazione di tutto ciò che manca al nostro tempo.
Preferirei avere per me la leggerezza.
Mi par di prediligere questi scrittori del mistero, chiamiamoli così, fortemente critici della condizione umana contemporanea. Buzzati, uno dei miei preferiti, enigmatico nella sua vita e nella sua scrittura, tocca la corda dell’onirico nel “Deserto dei Tartari” ed immagina nei suoi racconti una dimensione psicologica che cattura l’inafferrabile, quello che non può essere visto dagli occhi o percepito dai sensi, ma registrato da una sensibilità subliminale per usare un termine spesso adottato dallo scrittore Cassola.
C’è un filo rosso privilegiato che corre tra questo narratore che è stato per molto tempo giornalista del Corriere della Sera e l’argentino Borges. Il suo infinito intrattenimento, la sua biblioteca di Babele vuole affidare frammenti di vita che si richiamano ad infiniti altri frammenti di libri letti e non letti. Che la mia passione per essi derivi dal fascino della sua frequentazione? Quando lo leggo mi sembra d’inoltrarmi in lunghissimi corridoi, non bui, ma ariosi ed invitanti con il verde che s’intravede dietro i vetri. C’è un gran silenzio e un profondo raccoglimento come è giusto che sia davanti al mistero costituito da una vicina scoperta. Il tempo non esiste più. Le ore passano e non mi accorgo. Passano i giorni e gli anni. Ed io sono sempre là a cercare tra gli scaffali ricolmi il libro della verità, quello che contiene una filosofia speciale che finalmente spiega senza enigmi i segreti della vita ed oltre.
Un giorno m’è sembrato di trovarlo. Era L’Alef, l’inizio, l’avvio verso un cammino rigeneratore. Sono ancora intenta a leggerlo.
E se ne inventassi uno anch’io? Quali prerogative dovrebbe avere? Vediamo! Dovrebbe raccontare la storia d’un uomo solo o di tanti esseri umani?
Se possibile l’uno e l’altro intrecciati, ma in modo che il lettore non s’annoi, secondo una naturale partitura che assecondi la voglia di silenzio intelligente, interrotto da brevi, ma intensi dialoghi, magari come le Operette Morali di Leopardi in cui fantasia e filosofia si mescolano in modo gradevole, magari senza molte insistenze .
Una grande “Opera Morale” potrebbe essere un dialogo tra l’Anima e l’uomo, cosa che il poeta recanatese non ha mai affrontato proprio per il fatto che non era un credente, oppure tra il Tempo presente ed il Futuro, oppure ancora tra il Destino e la Libertà.
Tutto sommato però penso che ancora non sono pronta a scriverlo. Prima dovrei rispondere a molti altri interrogativi ed essere certa della mia conoscenza. Preferisco ancora leggere ed imparare dai personaggi e dalle situazioni ciò che ancora è possibile e quello che no. L’esperienza è un’ottima maestra, ma non cerco soltanto ciò che accade nel mondo, ma ciò che potrebbe accadere di diverso, d’ineffabile, d’inconsueto.
In questo senso ho come autrici di riferimento due donne che mi fanno da guida per la straordinaria capacità di vedere oltre il presente, di spingersi nel passato e nel futuro, quasi per un’interpretazione al limite con la magia. Sono le francesi Marguerite Duras e la Yourcenar. Della prima mi affascina l’intreccio delle storie, in un andirivieni apparentemente disordinato, ma che si ricompone successivamente in modo quasi impressionistico, dopo che la lettura è finita. Tutto appare sospeso in un’atmosfera lontana e vicina nello stesso tempo, cosicché l’animo del lettore rimane affascinato come per un’imminente rivelazione. Succede ne: Il marinaio di Gibilterra caratterizzato da stacchi di monologo, pause cadenzate, particolari di evidente realismo per una storia che realistica non è assolutamente.
Nella Yourcenar, prima donna eletta nell’Académie Française, la narrazione è più profonda, tocca i livelli conscio-inconscio. Suscita in me ammirazione il suo modo di coniugare il passato storico alla sensibilità moderna di cui è maestra in: Memorie di Adriano e poi mi fa romanticamente sognare il rifugio che s’è scelta per vivere, in Mount desert, sulla costa Atlantica circondata dalle onde dell’Oceano, sola per la sua scrittura, per ricreare il mondo e vederlo sotto una nuova luce.
Alle due scrittrici aggiungerei e perché no: l’italiana Elsa Morante del cui realismo il filosofo Georg Lukàcs era affascinato. Non è infatti per nulla squallido anche se presenta situazioni e personaggi che vivono una profonda crisi d’identità. Piuttosto la scrittrice sa comporre insieme ad affreschi di grande autenticità di vita reale aspetti della vita umana che toccano corde profonde di sentimento e di amicizia. Si legge nei suoi testi non tanto la pietà per la triste condizione degli emarginati, di cui lei si occupa, quanto la solidarietà spontanea di altri esseri imperfetti che giudicano senza condannare perché appartengono ad un’unica famiglia.
Gae Sicari Ruffo