Quando esce un film del regista fra i più apprezzati come Matteo Garrone, va visto e basta!
Esce il suo ultimo film Pinocchio – tratto da Collodi che lo scrisse 150 anni fa – la curiosità aumenta, in quanto la cifra artistica del regista romano va inevitabilmente a confrontarsi con i precedenti sul burattino più famoso del mondo. Come il capolavoro televisivo realizzato da Luigi Comencini nel 1972, scritto con la grande Suso Cecchi D’Amico e interpretato dal piccolo Andrea Balestri con Nino Manfredi nel ruolo di Geppetto; o il film che realizzò Roberto Benigni nel 2002 da lui interpretato e scritto con Vincenzo Cerami (costato molto e candidato senza successo agli Oscar). Paragoni superflui, perché la lettura collodiana avrà sempre un proprio immaginario del tutto individuale, nella reminiscenza dei bambini di ogni tempo.
Il Pinocchio di Matteo Garrone va piuttosto inquadrato nella sua filmografia, capace di conferire dignità al contesto umano, sia che tratti di drammatica attualità sia che tratti di favole, esaltando il carattere di una mitologia atemporale. Il regista qui mette in gioco la propria visione del racconto collodiano colorandolo con personalità antropomorfiche, sapientemente realizzate come già fece pochi anni fa con “Il racconto dei racconti”, tratto dal seicentesco “Lo cunto de li cunti” dello scrittore campano Giambattista Basile.
Garrone sembra soggiacere ad una fascinazione per i suoi personaggi da renderli palpabili in ogni scena, fotografate splendidamente sia negli interni di una povertà assoluta sia nella luce vivida della campagna toscana. “A Pinocchio – dice Garrone – penso da quando, a 6 anni, lo disegnavo; è un libro su animali che diventano allegorie della società dove viviamo. È una favola che può essere letta in modi diversi, una storia d’amore tra padre e figlio il quale, attraverso gli errori, capisce l’importanza della redenzione e di amare il padre. Pinocchio rifugge dall’ordine, insegue i piaceri e ha un debole verso le tentazioni, qualsiasi bambino vi si può riconoscere.” Eppure il suo Pinocchio è un bambino imbalsamato nella corazza legnosa e statica che nelle espressioni conferisce poca emozione (al contrario del Balestri di Comencini). Lo ha voluto burattino fino alla finale trasformazione redentiva. Quanto a Geppetto, Roberto Benigni ritorna nel racconto toscano e rimane giullarescamente se stesso pur nella gioiosa umanità genitoriale. E, come ha dichiarato: “Questo è il padre più famoso al mondo, è evangelico, come Giuseppe di Gesù, muoiono e risorgono, padri di figli adottivi.” Padri e figli, evocando il verso dell’Odissea: “Se gli uomini potessero scegliere ogni cosa da soli, per prima cosa vorrei il ritorno del padre”.
Tanta letteratura, musica e Cinema ha ispirato il racconto di Collodi: da Chaplin e il suo Monello, a De Sica e Zavattini del Miracolo a Milano e Ladri di biciclette, a Fellini e la sua anima circense, e persino Spielberg con A.I. – Intelligenza artificiale (del 2001) nato da una idea di Kubrick. E gli innumerevoli intellettuali pronti a rileggere la parabola allegorica, come don Francesco Masi che appena imparò a leggere si fece regalare il libro di Collodi, strumento didattico di una vita da teologo e docente.
Matteo Garrone sa impregnare il suo Pinocchio di poetica visionaria. Grazie a sapienti truccatori, costumisti e scenografi, fa muovere bene i suoi attori (mai così bravi e ben diretti Massimo Ceccherini e Rocco Papaleo, la Volpe e il Gatto); Gigi Proietti – Mangiafoco, e la Fata Turchina la francese Marine Vacth. Il piccolo Federico Ielapi-Pinocchio prima di arrivare sul set veniva truccato per ben quattro ore. Infine, la fotografia di Nicolaj Brüel (utilizzato anche nel precedente Dogman) e la colonna sonora di Dario Marianelli conferiscono un’aura di fantastico e di leggerezza in questo che resterà il racconto più amato al mondo.
Armando Lostaglio
PS: Il film uscirà in Francia il 18 marzo 2020
TRAILER UFFICIALE