Rubrica Missione Poesia. Iniziamo il nuovo anno con un articolo dedicato all’ultimo libro di Emilo Coco, Il tempo di mettermi in cammino (Passigli, 2021), dove il poeta propone una riflessione molto profonda che parte da una necessità: quella di prendersi il tempo di raccogliere i pensieri, di elencare tutte le cose per le quali si può ringraziare o meno Dio, di assaporare con gioia tutti i giorni che la vita ci regala prima di mettersi in cammino per l’ultimo viaggio, quello che approda alla morte.
Emilio Coco (S. Marco in Lamis, 1940), ispanista e traduttore, ha curato diverse antologie di poesia spagnola e ispanoamericana; e ha tradotto anche poesia dall’italiano allo spagnolo per editori spagnoli, messicani e colombiani. Di grande rilievo, tra gli altri, i tre volumi de « Il fiore della poesia latinoamericana d’oggi » pubblicati con l’editore Raffaelli. Come poeta, ha pubblicato sette libri di poesia in Italia, tra i quali « Il dono della notte », apparso in questa nostra collana nel 2009, tutti riuniti poi nel volume « Poesie 1990-2020 » (Raffaelli, 2021); e quindici fra la Spagna e l’America Latina.
Diversi i premi e i riconoscimenti ottenuti. Nel 2003 è stato insignito dal re Juan Carlos I del titolo di commendatore dell’ordine “Alfonso X el Sabio”, uno dei più alti riconoscimenti che si concedono in Spagna per meriti culturali. Nel 2010 gli è stata conferita dall’Università di Carabobo in Venezuela l’onorificenza “Alejo Zuloaga Egusquiza”. Nel 2011 gli è stata assegnata in Messico la medaglia d’argento per “su gran labor de traductor de la poesía mexicana”. Nel 2014 gli hanno tributato un omaggio al Festival “Letras en la mar” di Puerto Vallarta, in Messico. Nel 2016 gli è stato attribuito il premio internazionale Ramón López Velarde. Nel 2020 è stato poeta omaggiato a Quito, in Ecuador, nell’ambito del festival di poesia “Paralelo cero”. È stato tradotto in dodici lingue e ha partecipato a numerosi festival internazionali di poesia.
Conosco Emilio Coco da sempre come autore e da un po’ di tempo anche personalmente. Di lui mi ha colpito la gentilezza e l’eleganza dei modi nel rapportarsi con gli altri, che si riflette anche nella sua poesia dai versi piani e sinceri. La sua poetica è fonte di sentimenti, orazioni e invettive, ricordi e affetti ed ha come interlocutore un Dio spesso assente, che sembra non ascoltare e voltarsi da un’altra parte. Eppure è a quel Dio che egli si rivolge o meglio al suo figlio, al Cristo umano che segna la sua religiosità per riversargli addosso sofferenza, collera, solitudine, tedio ma anche amore e desiderio di amare ancora.
Il tempo di mettermi in cammino (Passigli, 2021)
Già dal titolo, Il tempo di mettermi in cammino, questo libro di Emilio Coco propone una riflessione molto profonda, se pure pare affrontata con leggerezza di forme e contenuti, riflessione che parte da una necessità: quella di prendersi il tempo di raccogliere i pensieri, di elencare tutte le cose per le quali si può ringraziare o meno Dio, di assaporare con gioia tutti i giorni che la vita ci regala, anche quelli più uggiosi o che non ci piacciono prima, appunto, di mettersi in cammino.
Di quale cammino si tratta? Quale luogo è quello che attende il poeta? Quello a cui sembra anelare? Nessuno stupore se scopriamo, addentrandoci nella raccolta, che stiamo parlando dell’ultimo viaggio, quello che approda alla morte e nel luogo di riposo eterno e assoluto, nessuna meraviglia se leggiamo testi scritti come preghiere rivolte all’Altissimo, nessuna sorpresa se nell’abbraccio dei riti e nel suono delle parole del quotidiano si riconosce la magnificenza di ciò che diventa divino, e si appropria di quello spirito fatto d’amore e gesti e abitudini e suoni che continuano a segnare le ore, i giorni, il tempo della vita rendendolo unico e speciale. Del resto molti sono i poeti con cui confrontarsi, che hanno scritto memorabili versi sepolcrali, ad esempio. È così che la visita al cimitero della poesia che apre il libro, non può non ricordare alcuni passaggi di quel Novembre di Flaubert: così dolce immaginare di non esserci più!/C’è tanta pace nei cimiteri!/Là, disteso e avvolto nel sudario, le braccia incrociate sul petto, i secoli passano senza disturbare più del vento che scivola sull’erba […] La loro pace è così profonda che la vita quaggiù non offre nulla di simile […] si direbbe che dormano, che assaporino la morte. Infatti, in Coco: È tutto così fresco, così intimo/che mi viene la voglia di godermi/una vita più sana accanto a loro,/senza più assilli e senza più tormenti,/per respirare lì meglio dei vivi./Sdraiarmi sottoterra o dentro un loculo,[…]giacere a mio bell’agio sotto un tetto di legno […] dormire il sonno eterno, […] cullato dalla quiete del silenzio….
Anche le liriche in forma di preghiera hanno sicuramente una loro tradizione ben consolidata in poesia, a cominciare dalle scritture dei Salmi che altro non sono che componimenti poetici, se letti nella loro matrice musicale e retorica, tra immagini e simboli che li compongono. Qui l’autore si rivolge costantemente al Signore, non solo nell’orazione ma anche nel rimprovero del silenzio, dell’assenza, del consenso al male senza impedire che si verifichi o ancora, per affidargli questo o quell’altro caso disperato, perché ne protegga al meglio l’andare o lo svilupparsi: Li affido a te, Signore, questi neri/ che sbucano a decine a centinaia/a gruppi/o in fila indiana/dal sottopasso della ferrovia/vicino a casa nostra. E se la constatazione della finitudine del corpo, data dalla scoperta costante di abbandono dell’una o dell’altra parte: Oggi si sfibra un muscolo o mi si irrigidisce,/domani mi riprende il dolore alla spalla…, non determina comunque la resa ma anzi, è fonte di ulteriore ringraziamento alla vita per le tentazioni materiali che giungono improvvise e gradite; Ti ringrazio, Signore,/per tutte le commesse che ho incontrato […] che gioia quelle bianche camicette/morigeratamente sbottonate…; se l’invocazione alla madre di tutte le madri, a Maria, altro non è che il desiderio di ritrovare la figura di una propria madre: Madre che ho riscoperto ai miei ottant’anni,/riversa sopra l’animo mio arso…; se la frequentazione della poesia è vista come un elemento fondante dell’esistenza, tant’è che l’autore prova addirittura ad allontanarla da se, in un testo che ne esorcizza la paura di perdere l’ispirazione o quella parola che ormai sta sul liminare della vita stessa: La poesia è come un esorcismo:/se trovi le parole misteriose/-ardue e rare purtroppo-/potrai cacciare il demone dal petto… è nei testi dove la carnalità antica dei corpi si affaccia prepotentemente ad affermare l’amore, la capacità e il desiderio di amare che la raccolta, a mio avviso, tocca le punte più alte di verità, se pure velata di malinconia: Dipingeremo la stanza da letto/d’un color rosso intenso che ricordi/l’ardore dei ostri anni giovanili/e ci stimoli nella tarda età/a ripetere i giochi dei vent’anni. È qui che si delinea la poetica di Emilio Coco, uomo di passioni poco soffuse, poco sussurrate, poco nascoste che non accetta certo di arrendersi e che torna, nella parte finale del libro a confrontarsi anche con la casa dell’infanzia, delle radici, dei ricordi ancora capaci di infiammare una testimonianza che risvegli le memorie collettive: Entro con il pensiero nella stanza/e resto fino a tardi quando nonna/mi grida di raggiungerla nel letto/prima che lo scaldino con gli scarsi carboni/si spenga e venga il freddo a ghiacciarmi le ossa.
Alcuni testi da: Il tempo di mettermi in cammino
Mai, SIGNORE, LA MORTE
mi ha fatto assaporare tanta vita.
Cammino lentamente per i viali
bordati da decrepiti cipressi
che lasciano filtrare un po’ di sole
ad allietare lapidi e cumuli disfatti
su cui campeggia instabile
una croce di ferro arrugginita.
Ogni morto ha il suo fiore
qui un’orchidea o un tulipano nero
lì un mazzo di garofani spennati
legati con lo spago ad un anello.
Ognuno ha la sua casa, questa quasi cadente
invasa dalle erbacce e scalcinata
l’altra vistosa e carica di marmi.
Tutte hanno una farfalla svolazzante
o una vespa che ronza tra le lampade.
È tutto così fresco, così intimo
che mi viene la voglia di godermi
una vita più sana accanto a loro,
senza più assilli e senza più tormenti,
per respirare lì meglio dei vivi.
Sdraiarmi sottoterra o dentro un loculo,
– aborro le cappelle gentilizie –
senza essere pressato dagli orari,
senza più il frastuono delle macchine,
gli impegni di famiglia e altre diavolerie,
giacere a mio bell’agio sotto un tetto di legno
foderato di raso e di velluto
o nel terreno umido dei vermi,
dormire il sonno eterno,
cullato dalla quiete del silenzio
in pace con me stesso e finalmente libero
dalle miserie della sporca vita.
***
GRAZIE, SIGNORE
per questa creatura
che scuotendosi la pioggia dalle ali
s’avvicina a saltelli circospetti
a beccare una briciola di pane
quasi sotto il mio piede
mentre aspetto seduto su una panca
la corriera che mi riporta a casa
dopo una notte insonne in ospedale.
Grazie di cuore per la compagnia.
Grazie per non averla intimorita.
***
RIDAMMI LE PAROLE CHE MI DICONO
lascia lo studio vieni a preparare
la tavola che è l’ora della cena
chinato tutto il giorno sul computer
ti si anchiloseranno gambe e braccia
le parole di sempre che mi dicono
cambiati le mutande e la maglietta
quando ti fai la doccia asciuga bene
il piatto e i vetri con il panno verde
parole sussurrate nell’orecchio
alzati amore è tardi andiamo a letto
ci siamo addormentati sul divano
come è andata a finire la puntata?
La parola buon sonno accompagnata
da un bacio il padrenostro e il Gloria al Padre
recitati a metà hai i piedi freddi
sai che mi piace se mi tocchi il seno
ma coprimi sennò non mi addormento.
Stanotte le parole sono mute
non dicono le cose di ogni giorno
mi affaccio alla finestra dell’albergo
fumo una sigaretta già in pigiama
solo una per bruciare la tua assenza
le parole che leggo sulle insegne
non mi dicono niente non posseggono
la forza delle nostre quotidiane
ripetute e ogni volta sempre nuove
sono soltanto segni indecifrabili
scarabocchi dipinti in rosso e nero
sopra lastre sbilenche rischiarate
dai fari frettolosi delle macchine.
Questa città mostruosa mi cattura
nel suo abbraccio inquietante fa Signore
che torni presto a casa a ritrovare
quelle che danno fuoco all’esistenza.
***
CI SONO GIORNI IN CUI MI SENTO INUTILE
e strascino a fatica la mia noia,
sbuffo e mi siedo accanto alla mia ombra,
la rimbrotto perché mi infastidisce
che mi segua a ogni passo e vorrei cancellarla,
ma più si ostina a farmi compagnia,
ha paura che se mi lascia solo
me ne scappi ho commetta una pazzia.
La rassicuro e vado alla finestra,
scosto la tenda, l’apro, guardo fuori,
ma decido di richiuderla all’istante,
non c’è niente di bello da vedere,
qualche albero contorto e rinsecchito
sulla collina che mi sta di fronte,
e poi fa freddo, siamo già in inverno,
abbasso la serranda sperando che col buio
la mia ombra si dilegui e m’abbandoni.
Potrò così pensare in solitudine
ai tanti fatti che mi fanno male
con nel cuore i fantasmi onnipotenti,
sempre presenti e ogni giorno più veri.
Ci sono giorni talmente difficili
in cui potrei morire senza nessun rimorso.
***
CI CHIEDEVAMO QUANDO AVREBBE SMESSO.
Le travi erano fradice di pioggia
e piatti e bacinelle sparsi sul pavimento
accoglievano l’acqua
che mia madre svuotava nel pitale
dentro lo stanzino. Il sordo ticchettio
ci torturava il sonno e alla luce dei lampi
mio fratello volava a riparare
la scarna libreria con un telo di plastica.
La notte si spegneva la luce ad ogni tuono
e io chiedevo all’arcangelo Michele
la grazia del miracolo.
Che finalmente avvenne.
Il cielo all’improvviso
si colorò d’azzurro e prese fuoco.
E come per incanto echeggiò nella casa
lo strillo tanto atteso:
Piangi bambino, piangi a squarciagola
che ti regalo un cono a tre colori
per sole cinque lire.
Mi lanciai a precipizio nella strada.
Ma, dondolando l’indice, dall’alto delle scale
la mamma mi ammonì che stavo in punizione.
All’istante decisi che da grande
di mestiere avrei fatto il gelataio
e uscii sul balcone
ad asciugarmi il pianto con il sole.
Cinzia Demi
Bologna, 9 gennaio 2022