Adesso la grande attesa è per il dibattito radiotelevisivo tra i due candidati qualificatisi per il secondo turno delle presidenziali francesi. Una nuova campagna elettorale è cominciata in Francia. Campagna vera, Campagna dura. Le elezioni presidenziali si cristallizzano nel duello tra due persone – Emmanuel Macron e Marin Le Pen – che hanno la volontà e la possibilità di riunire attorno a sé componenti ben radicate del paese reale. Macron è il volto di una Francia che guarda con fiducia al futuro; la sua rivale è il volto di una Francia che ha paura del futuro. Le due sensazioni sono reali, legittime, profonde. Per questo, la sfida del 24 aprile 2022 rifletterà una vera contraddizione dell’attuale società francese.
I partecipanti al duello sono gli stessi delle presidenziali del 2017, ma le loro esperienze li hanno in parte cambiati. Macron deve rendere conto del modo in cui ha guidato il paese in un periodo difficilissimo, con le crisi sociali (gilets gialli, grandi scioperi contro la riforma pensionistica), col Covid e col problema dell’Ucraina. Il suo bilancio è buono (oggi, ad esempio, la disoccupazione è molto bassa), ma l’opinione pubblica lo percepisce come «distante» e talvolta altezzoso. Marine Le Pen ha cercato di rifondare il sovranismo alla francese puntando (con un certo successo) a presentarsi come la candidata dei giovani e delle classi popolari, ma la collocazione d’estrema destra del suo partito scoraggia gli elettori moderati. Nel 2017 la vittoria di Macron fu schiacciante: 66,1 contro 33,9 per cento. Stavolta i sondaggi e gli oroscopi danno per favorito Macron, ma nessuno immagina un trionfo paragonabile a quello del 2017.
Domenica 10 aprile, il primo turno si è svolto dopo una campagna elettorale lunga, spenta e affollata di candidati (dodici). Macron, che in questo semestre ha anche la presidenza europea, ha puntato sulla propria immagine di statista. Le Pen ha scommesso sulla denuncia dell’aumento del costo della vita. Jean-Luc Mélenchon, espressione del radicalismo di sinistra, ha sfruttato i sondaggi per puntare tutto sul «voto utile», facendo discorsi come : « Potete votare solo me se volete che un rappresentante della Gauche sia al secondo turno ». I risultati hanno dato ragione a tutti e tre, mentre gli altri nove candidati escono malconci dalle urne del 10 aprile. Col 27,6 per cento, Macron arriva in testa, superando il livello da lui ottenuto al primo turno del 2017 (24,01). Col 23,41 per cento, Marine Le Pen ottiene l’essenziale, qualificandosi per il ballottaggio e migliorando il suo 21,3 di cinque anni fa. Col 21,95 per cento, Mélenchon arriva in terza posizione (nel 2017 era quarto col 19,58) e può presentarsi come perno della rifondazione della Gauche. Da decenni si discute sulle «primarie» di partito o di area. Queste elezioni sembrano dimostrare che le vere primarie possono essere i sondaggi. I tre candidati favoriti dai sondaggi hanno drenato il sostegno delle rispettive aree politiche sulla base del discorso del « voto utile », mai tanto efficace come stavolta.
La Francia del 10 aprile ha uno schema chiaro: un forte centro macronista ha inglobato il vecchio centrodestra neogollista e il vecchio centrosinistra socialista; le opposizioni di destra e di sinistra si sono spostate verso le estreme, trovandosi così in una posizione oggettivamente difficile. Il risultato dei partiti storici è catastrofico. I Républicains, che si considerano gli eredi del gollismo, hanno tenuto «primarie interne» per scegliere la loro candidata Valérie Pécresse, che il 10 aprile ha avuto il 4,79 per cento. La socialista Anne Hidalgo ha avuto un imbarazzante 1,74 per cento. Nessun candidato dei grandi partiti storici supera il livello del 5 per cento, indispensabile a ottenere il rimborso pubblico delle spese della campagna elettorale. Il leader ecologista Yannick Jadot ha avuto tre anni fa il 13,48 per cento come capolista alle europee e adesso torna a casa col 4,58 per cento. Il candidato comunista Fabien Roussel si accontenta del 2,31.
In vista del secondo turno, l’attenzione si sposta sulle «riserve elettorali» di cui dispongono i due personaggi in cerca di voti. Una cosa è più o meno chiara: Emmanuel Macron e Marine Le Pen (che può contare sul 7,05 dell’estremista di destra Eric Zemmour e sul 2,07 dell’euroscettico Nicolas Dupont-Aignan) partono praticamente da una base di circa un terzo dell’elettorato. Il restante terzo sarà il campo di battaglia delle due prossime settimane. Gli sconfitti del primo turno danno indicazioni di voto, talvolta formulate in modo ambiguo. Mélenchon esorta a non votare Le Pen, ma – non invitando esplicitamente a votare Macron – lascia una porta aperta all’astensione, al voto bianco e al voto nullo. Il 10 aprile l’astensione (circa un quarto degli iscritti alle liste elettorali) è aumentata rispetto al 2017, ma in misura inferiore a quanto si temeva. In attesa del dibattito televisivo Macron-Le Pen e della grande sfida in programma per il 24 aprile, resta da chiedersi (ma su questo nessuno può avere la risposta) se la campagna elettorale sarà o no turbata da particolari vicende di cronaca o magari da scandali o «rivelazioni». C’è molta elettricità nell’aria, ma ogni tentativo di strumentalizzazione, da qualsiasi parte venga, rischierebbe comunque di trasformarsi in un boomerang. Dunque, oltre all’elettricità, c’è nell’aria anche un bisogno di prudenza.
Infine, vale la pena di ricordare che la stagione elettorale francese non finisce affatto col secondo turno delle presidenziali. La Francia è una «Repubblica presidenziale» fino a un certo punto. Lo è quando c’è sintonia tra il colore politico dell’Eliseo e quello dell’Assemblea nazionale. Altrimenti c’è un reale problema e il potere del presidente della Repubblica si restringe drasticamente. Nessuno può dire come andranno le cose alle elezioni legislative di giugno, quando verranno rinnovati i 577 seggi di Palais Bourbon. Macron, sempre che vinca la sfida con Marine Le Pen, può anche trovarsi senza una chiara ed omogenea maggioranza. L’anno elettorale della Francia è ancora lungo.
Alberto Toscano