Dov’è il “centro del mondo” (dal titolo del libro di Domenico Cipriano, ed. Transeuropa, 2014)? È il luogo dove gli affetti e le radici sono già parte integrante della realtà descritta; il luogo contaminato dove alla riflessione sullo stile poetico si aggiungono, anzi predominano, le emozioni suscitate da quegli stessi luoghi e dalle esperienze a essi connesse ed evocate: il luogo dove stare bene con se stessi e con gli altri.
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Domenico Cipriano è nato nel 1970 a Guardia Lombardi, in provincia di Avellino. Già vincitore, per la poesia, del premio Lerici-Pea per l’inedito nel 1999, ha pubblicato la raccolta Il continente perso (Roma, Fermenti, 2000; 2a. ed. 2001), con introduzione di Plinio Perilli e nota del musicista jazz Paolo Fresu (libro vincitore del premio Camaiore “Proposta” 2000 e segnalato al premio Eugenio Montale 2000). Nel 2010 ha pubblicato Novembre (Massa, Transeuropa, prefazione di Antonio La Penna), raccolta nella rosa finalista al premio Viareggio 2011. Una silloge dedicata al terremoto dell’Irpinia del 1980, con accluso il cd di Pippo Pollina Ultimo volo. Orazione civile per Ustica. Ha pubblicato inoltre libricini da collezione, quali: L’assenza (Pulcino Elefante, 2001), La pelle nuda delle stelle (Ibridilibri, 2008), L’enigma della macchina per cucire (Edizione L’arca Felice, 2008).
Conosco Domenico Cipriano personalmente da alcuni mesi. Ci siamo incontrati a Perugia a una Kermesse letteraria organizzata dall’instancabile editore Alessandro Ramberti (Casa editrice Fara di Rimini). Ascoltando l’intervento di Cipriano, in particolare la lettura dei suoi testi, mi sono sentita subito in sintonia con la sua poetica e con il suo stile, provando una forte emozione: sentendolo era, quasi, come se stesse leggendo qualcosa di mio. Quando raramente capita questo, ovvero quando si instaura tra lo scrittore e il lettore, o comunque con chi ascolta le letture, una relazione narrante, quando si crea quella magia che ti fa pensare “ecco, questo mi riguarda, è ciò che sento anch’io…” vuol dire che ci troviamo di fronte a qualcosa di speciale, a un autore che è riuscito a comunicare il suo pensiero penetrando anche nel vissuto degli altri.
Perché avviene questo, lo spiega benissimo Todorov, sostenendo che l’opera letteraria (nella quale possiamo ricomprendere anche la poesia) è storia e discorso allo stesso tempo. Storia, in quanto comprende una certa realtà e avvenimenti che si presume abbiano avuto luogo e personaggi che si confondono con quelli della vita reale; discorso, perché vi è un narratore che narra la storia e un lettore che la percepisce e a questo livello, quello che ha importanza non sono gli avvenimenti raccontati ma il modo in cui il narratore li ha fatti conoscere. Il modo dunque che sia prosa o poesia – ma la poesia ha certo una modalità ancora più immediata se pure forgiata in metafore, immagini e simboli – è determinante: quando un autore è capace di creare quel momento ermeneutico di mimesi nel quale far rispecchiare il lettore in un consonante sentire, ecco che siamo di fronte ad un grande autore e Cipriano, a mio avviso, lo è. Ci occuperemo in quest’articolo del suo ultimo libro “Il centro del mondo” edito da Transeuropa nel 2014, con postfazione di Maurizio Cucchi.
Il Centro del mondo
Sono sette le partiture dell’ultima fatica letteraria dell’avellinese Domenico Cipriano, un libro che porta un titolo emblematico e tutto da scoprire. Cos’è per Cipriano il centro del mondo? Cosa cerca e cosa trova l’autore in questa dimensione dalle tante sfaccettature, dalle tante impronte e dalle tante domande alle quali, noi stessi con lui, cerchiamo risposta? Può la poesia aiutarci a capire cos’è per noi questa sorta di locus amenus dove vivere e rifugiarsi, dove incontrare gli altri e noi stessi? Cercheremo di scoprire questo e altro ancora nell’excursus intorno alla poetica di questo libro e alle intenzioni dell’autore data, tra l’altro, la sintonia di chi scrive – già espressa – con lo stesso con il quale non può, certamente, non trovare che diversi punti in comune.
Un viaggio attraverso i particolari di luoghi, situazioni, persone e sentimenti per arrivare all’universale: questo in fondo potrebbe essere il percorso intrapreso da Cipriano per mostrarci il centro del mondo, un luogo dove gli affetti e le radici sono già parte integrante della realtà descritta; un luogo contaminato dove alla riflessione tecnica sullo stile poetico si aggiungono, anzi predominano, le emozioni suscitate da quegli stessi luoghi e dalle esperienze a essi connesse ed evocate. Ed è in questo luogo che si tesse, come abbiamo già accennato, attraverso il dialogo tra il lettore e l’autore, una trama che può diventare unitaria con la vita di quest’ultimo. Così, se Hölderlin diceva che “poeticamente abita l’uomo su questa terra”, non distanti, possiamo riconoscere la risonanza intima e archetipa delle vibrazioni dei luoghi raccontati da Cipriano che si accentua dentro di noi andando a ricreare quella psicologia del profondo – di Junghiana memoria – che riflette sugli elementi costitutivi dell’inconscio collettivo, abbracciando persone e luoghi in un tutto, nel quale ognuno può riconoscere il proprio percorso di vita.
Ma, se Cipriano è il poeta dei luoghi e degli affetti e delle radici, possiamo anche riconoscergli una sensibilità che va ben oltre l’apparenza delle cose, che lo porta a riflettere, leopardianamente, sull’infinito e quanto si trova in mezzo per contrastarlo. E’ già il testo d’inizio del libro ad aprirci questo sguardo del poeta, che si confronta col canto del recanatese:
“[…] Nemmeno i corpi uniti nell’amore/e racchiusi in un respiro solo sanno dire/dell’immenso in cui mi perdo ora/per questo tramonto vulnerabile e mobile/nel bagliore di una luce sterminata/tra le voci intrecciate in lontananza.[…] ”
e ancora
“[…] È quel bagliore, che si insinua vorticoso/oltre la forza decisa delle ossa,/ad aprire un nuovo varco sotto pelle,/a rinominare infinito il suono delle cose,/ in quell’oceano che si nasconde eternamente/dietro al volo immobile dei monti.”
Questo bisogno di confrontarsi con l’infinitezza non trova certo il suo limite nella poetica dei luoghi o degli affetti – a cui abbiamo accennato prima – ma, anzi, è dalla dimensione altra e alta dell’orizzonte che Cipriano parte per introdurci nei particolari orizzonti del suo paese d’origine, della sua campagna, dell’Irpinia tutta che attraverso la sua voce si fanno portatori di tempi e spazi narrativo-poetici di ineguagliabile cifra stilistica. E’ così che anche gli affetti più cari (il padre, la madre, il fratello, la figlia, la moglie) si inseriscono nella struttura della costruzione delle pagine, quali fondamenta di efficace solidità. Così come solido sembra il pensiero del poeta che, certo della necessaria dimensione della propria solitudine, affronta con il tempo della memoria il divenire delle cose, il susseguirsi delle immagini legate ai viaggi, agli incontri, agli oggetti parlanti – che dicono anch’essi del loro stare al mondo – del suo bagaglio di scoperte. Le carte, il bicchiere di vino, i lampioni (a cui è dedicata un’intera memorabile sezione) le pietre della vecchia casa, i luoghi delle città e la campagna tutta affiancano il poeta penetrando nell’io narrante, che si fa parte integrante della storia. Non si nasconde il poeta, non ha paura dell’autobiografismo, fa anch’esso parte del suo mondo, e di quel mondo che diventa il centro del mondo racconta e si racconta.
Quale sarà la parte di quel centro che prevale, che Cipriano preferisce e sente proprio sua? Ci sembra di capire che l’ultima sezione possa svelarlo. Una sintonia dolorosa, fatta di assenze e di ombre c’è per questo luogo che, tuttavia, costringe a recuperare il senso della presenza, ad assaporare il sole, a viaggiare “dentro il sogno che ci resta/ da compiere ogni giorno/fino a che la disperazione non si piega/lasciandoci un segno di perdono”. Una sintonia che lo porta a concludere: “Voglio consegnarmi alle distese della terra fertile/lontano dal mare che paradossalmente/è sterile ed esplora. Qui nulla ti riconosce e inganna/c’è un profumo di uva secca e muschio/una finestra per il sole, senza un confine netto/tra vivere e sperare.”
Una poetica, uno stile. Un riscontro che lega le tante sfaccettature dei testi di Ciprano al suo modo di scrivere, un modo che propone in certi momenti la prosa poetica, in altri il versicolo, in altri ancora una versificazione più lunga e più verosimilmente lirica, non priva di accenti e venature interne rimate, non lontana dall’espressione dei suoi autori di riferimento: da Cucchi a Pasolini, da Pavese a Pagliarani, tanto per fare alcuni nomi. Mai scontato, mai prevedibile ma molto, molto accessibile e – vivaddio – non ermetico, lo stile di quest’autore si inserisce nella più alta tradizione della poesia contemporanea e lo rende tra le voci più significative del momento.
Qualche testo da “Il centro del mondo”
(a mio padre)
Si è raggrumata in sogno
la sequenza dell’adolescenza
noi due seduti: tu intento
a leggere il giornale, io
un libro, cogliendoci nelle parole,
fermando quell’istante quotidiano
complici gli odori della casa
il calore della stufa a kerosene
e il velluto a scacchi delle poltrone.
Mi hanno sorpreso di notte
in un sobbalzo della mente
che si concede raramente indietro
scompigliando gli anni
alla memoria senza grandi eventi:
quella necessaria, e più segreta.
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È facile abbracciare una figlia
bisognosa del tuo sostegno fragile
coccolarla nella sua leggerezza, lo stesso l’amata
a cui ti doni e prendi l’amore con dolcezza.
Alla madre che ti ha cullato in grembo
dichiari il bene dentro (lentamente), è difficile
stringerla e rigenerarti nel suo affetto,
serrare in quell’attimo ogni fondamento
che la memoria percorre e il pudore non rivela.
L’amore naturale di figlio che diviene padre difensivo
si nutre segreto: raramente stringe il corpo
di chi il corpo gli ha donato.
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(a Cosimo)
Esistiamo perché mutiamo. Il corpo
si trasforma con il tempo, così la voce
…..e l’odore che tutto dice. Conserviamo
poco, diamo segno di noi
nel pensiero che si evolve, nelle azioni
che si alternano, confondendo
….i colori che la pelle mostra, variando i suoni
che all’istante diventano parole.
Se c’è una storia da ricomporre
(pezzo a pezzo) è nel modificarsi
delle orme che tracciamo. Così,
solo le cose ferme ci ricordano
dove siamo già esistiti,
anche se il vento cerca di mutarne le sembianze
con la polvere che accumula
in forme disadorne.
Continuiamo a dirci vivi
ostinandoci a non apparire uguali
e questo morire eternamente
è il volto stesso che la vita ci consente.
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Fiore senz’acqua
Ti regalo un fiore
senza strapparlo alla terra
né chiuderlo in un vaso.
Un fiore di ferro che duri
al tempo, con petali inossidabili,
foglie immobili e variopinte
rughe intersecate sullo stelo.
Ma annaffialo dal rubinetto
costruito al centro perché
la ruggine rinnovi sulla pelle
…..e mutando i colori ricordi
…..che tornerà settembre.
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C’è il buio tra partenza
e arrivo, il nero privo
delle luci. Un vuoto
da colmare col pensiero
in cui disegno una candela,
così chiudo la notte
nella cera e il freddo
ne custodisce la forma.
Cinzia Demi
Il sito di Domenico Cipriano: www.domenicocipriano.it