Nel 2014 si è celebrato il Centenario dei « Canti Orfici« , una ricorrenza che è stata una straordinaria occasione “per un nuovo, approfondito e suggestivo incontro con uno dei massimi poeti del Novecento e con un’opera che costituisce una pietra miliare della poesia contemporanea italiana”. Per i nostri lettori francesi, ricordiamo che una nuova traduzione bilingue (italiano – francese) “Chants orphiques et autres poèmes de Dino Campana” è stata pubblicata nel 2016 (Editions Point), a cura di Irène Gayraud et Christophe Mileschi.
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Uno studio oggi sulla poesia di Dino Campana non può fare a meno dall’analizzare le sue molteplici ascendenze che riguardano il viaggio di Orfeo che dagli Inferi risale alla superficie, di Dante nel suo viaggio interiore dal basso delle tenebre alla luce dello spirito, i poeti simbolisti: Verlaine, Rimbaud, il filosofo della modernità Nietzsche, i poeti visionari, profeti di un’altra realtà ultrasensibile ed altri elementi connotativi della grande Poesia.
Il suo è un rapporto molto stretto con le arti visive che gli danno la possibilità d’inventarsi una scrittura allucinatoria dall’andamento circolare che sembra ogni volta rinnovarsi. La sua tendenza è di rivolgere lo sguardo verso l’inconscio per catturare immagini ossessive. Campana passa dal Classicismo al Simbolismo, dal Primitivismo al Futurismo con accenti carducciani e dannunziani, per cui la sua opera sfugge ad una sola univoca definizione.
La parola Canti fa naturalmente pensare a Leopardi, mentre l’aggettivo Orfici rimanda ad una poesia compresa solo dagli iniziati, poesia magica che parla di mistero e che, per dirla con Nietzsche, è più dionisiaca che apollinea, nella quale il vissuto è intimamente legato all’attività creatrice.
Eppure un poeta come lui di grande innovazione è stato per molto tempo considerato un fallito, uno che non ci stava con la testa e che aveva bisogno di viaggiare, di muoversi e visitare luoghi e di fare strane esperienze.
Prima dell’internamento a Castel Pulci, che dura ben otto anni, intervenuto dopo alcuni altri episodi, Campana reagisce ad alcuni avvenimenti capitatigli in parte con leggerezza, in parte, quando se ne rende veramente conto, con rabbia. È il caso del manoscritto dei suoi Canti (la sua unica e folgorante opera), inviato a Papini e Soffici della rivista Lacerba, nel 1914, che viene perduto (verrà poi ritrovato nel 1971). In conseguenza di ciò, egli decide di pubblicarlo a sue spese. Ma due anni più tardi torna a scrivere ai due letterati, parlando di sequestro del suo lavoro e facendo loro minacce di morte. Una reazione eccessiva, a distanza poi, che genera un certo sconcerto.
Dà in escandescenze contro la cultura italiana e si crea il mito del poeta outsider ed isolato. In effetti è un poeta colto che conosce in profondità i movimenti letterari, che non s’allinea però con le scuole e le correnti, ma che ricrea una vasta area sorgiva nella quale brillano sogni ed interferenze poetiche di nuovo conio. Il suo inizio è in quel “ulissismo”, come dice Cecchi, ch’egli stesso riconosce:
Poi fuggii. Mi persi per il tumulto delle città colossali, vidi le bianche cattedrali levarsi, congerie enorme di fede e di sogno colle mille punte nel cielo, vidi le Alpi levarsi ancora come più grandi cattedrali e piene delle grandi ombre verdi degli abeti e piene della melodia dei torrenti di cui udivo il canto morente dell’infinito nel sogno. (La Notte)
Le quattro parole-chiave dei Canti Orfici, come bene ha intuito Asor Rosa, sono: Notte, Chimera, Viaggio, Melodia in perenne interscambio tra di loro.
“Melodia” è il trait d’union tra Chimera, Viaggio e Notte, un insieme di suggestioni fisiche e percettive cui il poeta aspira sia nella esistenza individuale che cosmica.
Tutto parte dal viaggio che è esperienza di libertà. E i viaggi di Campana furono molti e quasi senza tregua in un perenne spostarsi, quasi per cercare l’ubi consistam. Suggestivi sono il Viaggio a Montevideo e La Verna che sono veri pellegrinaggi.
La sua nevrosi lo rendeva irrequieto. Il viaggio per lui rappresentò un percorso di conoscenza alla ricerca di una patria vera, mai identificata come pacifica e serena perchè nel suo cuore c’era l’inferno. Vi furono momenti bui nel suo percorso di vita da cui spesso uscì sempre con l’ansia di spostarsi e di essere altrove.
Una parentesi che potrebbe esser definita felice, ma anche tormentata, fu la sua relazione con Sibilla Aleramo (autrice del famoso « Una donna » del ’16), che incontrò nel ’17. Il suo amore, finché durò, fu appassionato ed allucinato.
Ed esso fu il perno di tutta la sua poesia, visto in trasparenze di sogno, intramezzato da visioni oniriche che preludono ad un assoluto a cui vorrebbe approdare senza più soffrire. Sembra richiamare Rimbaud: “La première étude de l’homme qui veut ȇtre poète est sa propre connaisance entière, il cherche son ȃme, il l’inspecte, il la tente, l’apprend.”
La Chimera che occupa un posto importante nella sua poesia forse gli è stata suggerita dalla figura bronzea mitologica nel Museo di Arezzo, raffigurante una belva con la testa di leone, il corpo di capra, la coda di drago, spirante fiamme dalla bocca. È una potente immagine che prelude ad una voluttà che strazia. La memoria è visivo-pittorica, omnivora, febbrile, ansiosa:
Guardo le mute fonti dei venti
e l’immutabilità dei firmamenti
e i gonfi rivi che vanno piangenti
e l’ombre del lavoro umano curve là sui poggi algenti
e ancora per teneri cieli lontani chiare ombre correnti
e ancora ti chiamo ti chiamo Chimera.
I versi hanno un ritmo incalzante che alludono ad un segreto misterioso che si svela nella carnalità a contatto con gli elementi della natura.
La notte non è una discesa nell’oscurità, né un’esperienza di natura infernale, ma il tentativo di descrivere un grande viaggio coscienziale, nel quale la frequentazione dei classici non solo non s’interrompe, ma s’intensifica: da Dante a Svevo.
Però il poeta che aveva pensato di violare il segreto delle tenebre, ne è rimasto alla fine prigioniero. Forse per questo resta uno dei poeti più amati dalle giovani generazioni, come Leopardi.
È stato ricordato nel Centenario dei Canti orfici (2014) con studi, mostre, incontri anche a Marradi, dove è nato nel 1885, nella confluenza tra Ottocento e Novecento.
Gaetanina Sicari Ruffo
Link esterno: Dino Campana, storia d’amore e di follia
CANTI ORFICI / Chants orphiques et autres poèmes
de Dino Campana
Edition bilingue
Poèmes choisis, présentés et traduits de l’italien par Irène Gayraud et Christophe Mileschi
320 pages, Editions Points
Dino Campana (1885-1932) est l’un des très grands poètes de son temps, qui est encore le nôtre. Tout en s’inscrivant dans la haute tradition italienne, il ouvre la modernité littéraire en Italie. Son unique et fulgurant recueil, Canti Orfici (1914), retrace un parcours existentiel et poétique dans lequel les époques, les lieux, les perceptions sensorielles, les grilles de lecture de l’expérience se mêlent, s’entr’appellent, se confondent. Irène Gayraud et Christophe Mileschi en présentent ici une traduction nouvelle, accompagnée d’Autres Poèmes tous inédits en français.
Irène Gayraud est à la fois poète et traductrice. Elle a publié deux recueils de poésie (à distance de souffle, l’air, Éditions du Petit Pois, et Voltes, Al Manar). Elle est également membre du groupe de traduction créative Outranspo (Ouvroir de Translation Potencial).
Christophe Mileschi a publié divers recueils de poèmes, quelques romans, plusieurs traductions. Il est par ailleurs professeur en études italiennes à Paris Nanterre.