Per Missione Poesia proseguiamo nella presentazione di un nuovo lavoro che ci racconta dell’Armenia. Dopo il libro sulla biografia del poeta Yeghishe Charents, ecco il romanzo poetico di Arthur Alexanian, Il calice frantumato, che ricostruisce, in un viaggio non solo fisico, ma dell’anima, un intero universo fatto di luoghi, personaggi, storie, tradizioni, racconti, incontri in vari paesi, da Bandirma alla Francia sino all’Armenia sovietica, l’identità del padre, la propria, e quella dell’intera comunità armena.
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Arthur Alexanian nasce in Francia a Grenoble da genitori armeni. Frequenta il collegio armeno di Venezia dove consegue il diploma di maturità. Si iscrive all’università La Sapienza di Roma, poi continua i suoi studi a Bologna. Nei suoi spostamenti per motivi di lavoro approda negli USA, in Canada e nel Nord Africa. Dall’Algeria si sposta in vari paesi europei e in medio oriente. Si stabilisce a Firenze per occuparsi delle problematiche ambientali e per questa materia pubblica articoli su riviste specializzate. Nel tempo libero si dedica al teatro amatoriale. Pubblica anche due raccolte di poesie: Sottovoce (Ibiskos-Ulivieri, 2017) e Il melograno e la luna (Ibiskos-Ulivieri, 2018). Per la narrativa ha pubblicato: Il bambino e i venti d’Armenia (Ibiskos-Ulivieri, 2015), Il calice frantumato (Ibiskos-Ulivieri, 2021) premiato a Firenze con il Fiorino d’Oro nel 2021.
Conosco Arthur Alexanian da alcuni anni. Ci siamo incontrati a Bologna in occasione di partecipazione a eventi culturali. La sua prosa è portatrice di valori universali perché, oltre a descrivere l’eterna condizione umana che unisce le generazioni, ci propone la storia di una nazione, l’Armenia, i cui figli scampati al genocidio sono stati costretti all’esodo, innescando una diaspora che continua tutt’ora, per le note vicende politiche e di sopraffazione a cui quel paese è ancora soggetto. Con lui, attraverso le sue opere, analizzeremo la storia e la cultura armena nell’incontro dedicato a questa terra nella assegna Un thè con la poesia, per l’appuntamento del mese di febbraio 2024.
Il calice frantumato
Il Calice frantumato è il romanzo che Arthur Alexanian ha composto con memorie dedicate al padre Boghos, e che si affianca delicatamente al precedente romanzo Il Bambino e i Venti d’Armenia. Boghos, diventa quindi il personaggio principale, il protagonista del libro, colui che rappresenta il prototipo dell’uomo che si è dovuto spostare dalla propria terra, l’armeno scampato dal genocidio trovando la Francia come sponda di salvezza.
Arthur, figlio appunto di Boghos, fa parte della prima generazione nata in Francia da genitori armeni e riesce, in questo libro, ad aprire una finestra sul padre, diventando anch’esso una delle voci narranti del romanzo. Nella dinamica del libro, e probabilmente anche nella realtà, il figlio segue il padre nelle ambizioni e nei desideri in un viaggio, che diventa il viaggio di vita, ed è per questo che ciò che li unisce, ci sembra, davvero, non avere fine, diventando la loro storia, una storia che rappresenta l’eterna condizione umana.
Nella prefazione il Console onorario della Repubblica Armena di Milano, Pietro Kuciukian, tra le altre cose, dice che il libro gli ha fatto ripensare a suo padre, scampato al genocidio… immaginiamo che questo sia certo un pensiero ricorrente, nella lettura del testo, da parte di chi ha vissuto, se pure di riflesso, la dimensione di duemila anni di persecuzioni, saccheggi, stermini, di chi ha dovuto abbandonare la propria terra non per scelta ma per salvare la vita, di uomini e donne dispersi e rifugiati in ogni parte del mondo, dove sono sempre riusciti, alla fine, per loro capacità e sensibilità a integrarsi. Si racconta che, se due armeni si trovano in uno stesso luogo, essi riescono a dare vita a una piccola Armenia: questo dipende probabilmente dal fatto che quella nazione ha sempre contenuto al suo interno molte etnie e che i suoi abitanti sono stati abituati ad essere divisi tra loro fra occidentali e orientali, ma hanno continuato comunque a co-esistere e, se pure diversi, a sentirsi un unico popolo.
Da questo, e dal fatto che i figli e i nipoti di coloro che vissero in prima persona le traversie dei genocidi si sentono comunque tirati in causa e partecipi nel dolore, nascono le pubblicazioni come quella di Arthur Alexanian, che intendono ricomporre non solo la storia personale e della propria famiglia, ma quella identitaria di appartenenza ad un paese di origine, che si rinnova continuamente nei paesi dove essi stessi, o i loro avi, hanno trovato accoglienza.
Se nel libro precedente, Il bambino e i venti d’Armenia, l’autore aveva narrato la guerra greco-turca e l’incendio di Bandirma che costrinse, tra gli altri, due donne armene, madre e figlia, a fuggire per approdare al monastero Mechitarista dell’Isola di San Lazzaro, presso Venezia, sottolineando nella narrazione quanto pesasse sui figli, sui nipoti, sui pronipoti il silenzio dei padri, e ricomponendo parzialmente lo scarto tra anima e corpo, in questo secondo romanzo, nel quale il protagonista, fuggito dalla sua terra per rifugiarsi in Francia si ritroverà sul cammino delle due donne, si fa più forte l’evidenza di una ferita ancora drammaticamente non risanata. Qui, il memoriale del padre, che aiuta a ricomporre i reciproci deserti interiori, diventa parte fondamentale di una nuova interiorità, tutta da scoprire, attraverso le pagine di un quaderno che si fa diario, tra le righe di una lettera ingiallita che si fa portatrice di messaggi esistenziali, di dolori che accomunano intere generazioni… non tenendo conto del fatto che si susseguano scritti formulati in lingue diverse: armeno, turco, slavo ma, al contrario, valorizzando questa ricchezza culturale che non sembra interferire con quella originaria, quella armena, che pare uscirne oltremodo arricchita da nuova linfa.
Alexanian riesce nell’intento di ricostruire, in questo viaggio che, come detto, è un viaggio dell’anima e non solo fisico, un intero universo fatto di luoghi, personaggi e storie, di tradizioni e racconti, di incontri in vari paesi, da Bandirma alla Francia sino all’Armenia sovietica, l’identità del padre e la sua e, attraverso di esse, quella dell’intera comunità armena. Fondamentale risulterà, per questo percorso, quel testo scritto lasciato dal padre al figlio trasformando così il silenzio, in cui il genitore era sempre assorto, in una voce portatrice di un messaggio, come detto, identitario, che porterà l’autore-figlio alla scoperta di un vissuto fatto di fughe, cambi di nome e date di nascita, esistenza di fratelli e sorelle, di una casa, di affetti forti e di un mistero, tramandato tramite una pietra preziosa, che diventerà il filo conduttore della vicenda. La svolta sembrerà approdare in un ritorno speranzoso nell’ “Armenia Sovietica” che avrà, comunque, per il padre sembianze di patria. Senza ascoltare lo scetticismo della famiglia Boghos, allettato dalle lusinghe del rimpatrio organizzato dai comunisti della Resistenza, crederà infatti di poter contribuire alla costruzione di uno stato sovrano, dove finalmente gli armeni avrebbero potuto rientrare e ritrovare la dignità di un popolo. L’illusione cederà il passo a una nuova fuga da quel “paradiso sovietico”, da un’Armenia nuovamente sottomessa e priva di libertà, e di nuovo verrà assaporato il gusto amaro della sconfitta.
Pensiamo che solo chi ha vissuto e vive tuttora nella diaspora possa capire, sino in fondo, quanto pesino sulla propria vita la nostalgia e il desiderio di un ritorno nella propria patria, la ricerca continua di un’identità che si perde, comunque, nei meandri della quotidianità, della burocrazia, delle speranze disattese, dei rinnovati attacchi alla libertà. Forse, libri come questo, aiutano ad abbattere i muri di silenzio, accompagnano nella ricerca di sé stessi, assumono la dimensione di memorie universali, raccogliendo i ricordi e restituendoli ancora vivi e presenti, non solo in chi fa parte di quella storia, ma in tutti noi, perché il male e il dolore hanno tanti volti e non sono mai banali, e vanno raccontati perché diventino consapevolezza e aiutino a non ripetere gli stessi errori, anche se non sempre l’uomo è in grado di capire.
Un passaggio da: Il calice frantumato
[…] «Perché il silenzio negli ultimi anni di vita? Mi ricordo quella frase di parecchi anni fa, quando mi prese la mano e con il solito sguardo indagatore mi disse: “Non mi guardare così, io sono quello che resta dell’età adulta”. Quando mi parlava fissavo sempre i suoi occhi per voler leggere le sue emozioni, mi sembravano sempre sorpresi, come scoprisse ogni volta che ero suo figlio.
Forse il silenzio per lui era una necessità vitale, una cura, ma anche una tattica per stanare la mia curiosità. Quando poi capiva quello che volevo dire mi interrompeva accennando che molto tempo indietro a Costantinopoli esistevano i silenziosi che avevano il compito di far tacere il pubblico prima di uno spettacolo.
Lui e io su un palcoscenico a raccontarci il silenzio? Troppo brevi i nostri incontri, quante cose avrei saputo della sua vita, quante domande gli avrei fatto, ora è troppo tardi, il palcoscenico è sprofondato nel boccascena insieme a mio padre. Lui si aspettava un incontro nuovo, una nuova dimensione. Forse un nuovo teatro.
Di tutto questo non sono stato capace affinché lui potesse rigenerarsi trasferendo il passato nel presente, come si fa in letteratura con un’autobiografia o semplicemente scrivendo.
Forse il quaderno svelerà delle verità nascoste e mi inciterà a ripercorrere il suo passato. In fondo devo anche capire quale fosse il suo vero cognome.
Era cresciuto in un contesto in cui la morte appariva come il risultato di uno scontro con il nemico; muori perché ti uccidono e quella morte non era considerata come uno scacco.» […]
Cinzia Demi
Bologna, febbraio 2023
P.S.:
“MISSIONE POESIE” è una rubrica culturale di poesia italiana contemporanea, curata da Cinzia Demi, per il nostro sito Altritaliani.
https://altritaliani.net/category/libri-e-letteratura/missione-poesia/