Di Adele Tirelli: “Le mie estati a Vietri sul Mare” in provincia di Salerno

Le estati negli anni ’60 erano lunghe, interminabili per noi bambini.
Si trascorrevano principalmente al mare, ma non si escludevano sortite in campagna o in montagna.
La mattina partivamo alle sette alla volta di Vietri sul Mare, un ameno paese alle porte della Costiera amalfitana, noto in tutto il mondo per la ceramica e per la sua marina, che distava una decina di chilometri da casa nostra.

All’epoca avevamo una Fiat 600 azzurra ed io durante il tragitto, dal momento che non era ancora nato mio fratello, potevo godere di tutto lo spazio possibile del sedile posteriore, ora distendendomi per sonnecchiare ancora un po’ ora osservando la strada piena di cartelloni pubblicitari che mi divertivo a leggere con sommo stupore dei miei genitori. Non frequentavo ancora le elementari e all’asilo dalle suore ci andavo poco, a causa delle frequenti tonsilliti, e controvoglia per la profonda malinconia che mi infondevano quelle sale austere e il giardino solitario.

Allora il clima d’estate era ancora mite e le giornate non erano torride come adesso, talvolta al mattino indossavo un golfino di filo sul prendisole prima di arrivare al mare. Ero sempre molto eccitata al pensiero che avrei ritrovato i miei compagni dell’anno passato. Quando da lontano scorgevo la cupola maiolicata del Duomo di Vietri, era fatta! C’eravamo quasi.

Bisognava soltanto percorrere la strada che dalla piazza, piena di caratteristici negozi di ceramica, rappresentati emblematicamente dal famoso ciucciariello verde, scendeva giù per la Marina e portava ai lidi.

Il Lido Azzurro si trovava alla sinistra della lunga spiaggia, con i suoi numerosi stabilimenti balneari, separata a metà da un fiumicello che sboccava direttamente a mare.

Alla spiaggia si faceva ingresso attraverso un corridoio sormontato da una volta coperta di cannucce dove cominciava una lunga fila di cabine di legno gialle e azzurre che delimitavano l’ampio lido e che, nella parte prospiciente il mare, diventavano delle vere e proprie palafitte, salvaguardate nel punto più alto da una ringhiera e una scala di legno che consentiva l’accesso al bagnasciuga. Sotto le cabine noi bambini ci riparavamo spesso per stare un po’ al fresco o per giocare in santa pace lontano dallo sguardo vigile dei nostri genitori.

Varie file di ombrelloni blu con sedie sdraio a righe bianche e blu erano disposte con rigoroso ordine.
L’arenile di sabbia fine, tutto liscio e ben rastrellato, offriva ai bambini la possibilità di costruire castelli e giocare con palettine, formine e secchielli colorati che riponevamo in cabina a fine giornata.

La spiaggia si affacciava su un mare tutto blu di acqua pulita, quasi sempre calmo. A sinistra si vedevano da lontano il porto e la città di Salerno e due enormi scogli, vicinissimi, detti i Due Fratelli, ammantati di leggenda, da sempre il simbolo di Vietri sul Mare.
Erano due bambini separati alla nascita, mi raccontava il babbo, l’uno rapito dai Saraceni l’altro dai Longobardi. Da grandi si erano battuti vicendevolmente durante l’assedio in cui i pirati saraceni tentarono di espugnare Salerno. La battaglia ebbe il suo epilogo a Vietri, quando i due, stremati, si resero conto, dallo stesso emblema che portavano addosso, di essere fratelli. Qui si fermarono a riposare, ma furono inghiottiti dalla marea e riaffiorarono in seguito, trasformati in sassi.

A destra lo sguardo si apriva sulla Costiera amalfitana, patrimonio dell’UNESCO, e su Raito, una frazione di Vietri, un tranquillo borgo antico e panoramico che si inerpica su un’altura, oggi sede del Museo della ceramica vietrese.

ll bagno si faceva dopo le nove perché la temperatura dell’aria prima era fredda.
Era un vero e proprio rituale: innanzitutto bisognava gonfiare il salvagente, poi la mucca Carolina con il gonfietto del materassino da spiaggia blu di gomma telata, che doveva essere ben teso prima di essere messo a mare.

Poi bisognava spalmarsi di crema solare Nivea, dal fresco profumo misto di agrumi e fiori, una fragranza che sapeva di salsedine, di buono, di un tempo ormai irrimediabilmente perduto. Infine, mentre assaporavo qualche succosa pera cocomerina, offertami dalla mamma, in compagnia dei miei amichetti mi stendevo al sole per prevenire le febbri e i mal di gola invernali. Andavano evitate anche le ore più calde, per questo tornavamo  casa per il pranzo.  Le mattinate scorrevano veloci e a me dispiaceva sempre un po’ andare via dal mare, ma tanto ci saremmo tornati l’indomani.

Al rientro tenevo sempre aperto il lunotto per il troppo caldo e intanto davo un ultimo sguardo alla spiaggia che si allontanava sempre più e, mentre l’auto saliva su verso l’autostrada e il paesaggio cedeva il passo agli alti muri tappezzati di ipomea viola, ci accompagnava il canto delle cicale dai folti pini mediterranei.

Adele Tirelli

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Adele Tirelli
Adele Tirelli è docente di Italiano e Storia negli Istituti Superiori. La sua esperienza professionale copre molti campi: nell'istruzione, nella storia locale, nell'archeologia e nella poesia. Ha collaborato con varie riviste tra le quali "Artepresente", diretta da Raffaele Bussi e Giorgio Agnisola, "Meridione. Sud e Nord del mondo", rivista trimestrale diretta da Guido D'Agostino e "Resistoria", Bollettino dell'Istituto Campano per la storia della Resistenza, edito da La Città del Sole. E' curatrice di mostre di pittura e libri di ricerca sulla storia del Novecento e autrice di numerosi articoli e saggi monografici. E' autrice insieme ad altri e curatrice della pubblicazione del volume "La negazione dell'altro. Percorsi della memoria per non dimenticare", ricognizione sul percorso della Shoah.

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