La pillola di Puppo.
Io ora sono qui. Faccio finta di nulla. (Lavoro, leggo il giornale, scrivo). Ma prima di me (prima che io esistessi), ci sono stati i miei genitori. Prima di loro, i miei nonni: certi li ho conosciuti, altri no.
Se mi spingo oltre, comincia il buio. Scendendo per li rami già arrivo all’Ottocento, all’Italia post-risorgimentale, in cui si muovono persone da cui provengo e di cui non so neppure i nomi. Poi sempre più giù. Nell’abisso del tempo. Il passato è una vertigine matematica che segue le potenze di due. Due genitori, quattro nonni, otto bisnonni. E poi sedici, trentadue, sessantaquattro. C’è una generazione, più o meno, ogni trent’anni. Ogni trent’anni, quindi, il numero dei miei progenitori si raddoppia.
Se torno indietro di dieci generazioni (meno di tre secoli: il tempo che ci separa dalla musica di Bach) conto già mille persone da cui discendo direttamente. Se risalgo a venti generazioni fa (cinque secoli: molto dopo la spedizione di Cristoforo Colombo), i miei antenati sono un milione.
A quel punto inizia una discesa verso l’infinito. Andare oltre significa perdere il conto. Una moltitudine di estranei, di esseri umani come tutti gli altri. Di cui non so nulla e da cui discendo direttamente. Tra loro ci sono stati soldati, assassini, santi, criminali, maniaci, persone timide, torturatori, eroi. Tutti scomparsi nel silenzio eterno degli spazi infiniti che spaventava Pascal. Non so chi siano. So solo che ognuno di loro è stato necessario e decisivo per me. Per far sì che io sia inspiegabilmente qui adesso, che io abbia questa unica, insensata occasione di esistere.
E per far sì che ci siano anche le mie figlie, sbucate a Parigi da questa folle vertigine di combinazioni. Anche loro, forse, un giorno si chiederanno da quale mistero del tempo sono venute. In quale gorgo si nasconde il destino che le ha portate a essere loro, e non qualcun altro.
Maurizio Puppo