Il libro “Il vincolo esterno – Le ragioni della debolezza italiana” del politologo Emidio Diodato è l’occasione per noi per capire quanto influisca la politica estera nelle vicende italiane e nel suo sviluppo storico. E’ anche uno strumento che forse può aiutarci a comprendere la qualità della democrazia italiana e lo sviluppo dell’Europa alle prese con la globalizzazione, lo scetticismo in crescita al suo interno nonché le vicende Ucraine e i tormenti del mondo arabo dove il fondamentalismo appare ormai minaccioso alle nostre porte.
In queste ore la pace mondiale è a rischio. Gli italiani stanno lasciando la Libia. Un paese che ormai non ha più una guida e che in un caos assoluto vede avanzare minacciose le truppe dell’Isis. Il tutto mentre la guerra è già in Europa e l’Ucraina e la superpotenza russa si fronteggiano in un’escalation che sembra irrefrenabile. Nel mondo globalizzato la politica estera evidenzia in tutta la sua sostanza il suo valore, la sua importanza.
La politica estera, è sempre stata, in modo un po’ provinciale, snobbata dall’italiano medio. Eppure le vicende degli ultimi decenni dimostrano che finita la guerra fredda ed in assenza di nuovi equilibri mondiali, con l’affermarsi contraddittorio di speranze e timori suscitati dalla globalizzazione, la politica estera è diventata centrale, capace d’influenzare con l’economia la storia e le vicende di ogni paese incluso il nostro. Vincoli, economici e di politica internazionale che hanno ricadute sostanziali sul nostro futuro. Forse più ancora che sull’economia il futuro dell’Europa, e per certi versi il nostro, si gioca proprio sullo scenario internazionale. Uno scenario che impone alla sinistra, come alla destra, di rivedere valori e funzioni con cui interpretare le relazioni estere.
Un tema dunque di grossa sostanza. Prendendo spunto dall’interessante libro di Diodato, ne parliamo con l’autore* anche per riuscire a capire le intricate vicende europee ed in particolare quelle ucraine ed Isis, che costituiscono tra i più realistici pericoli alla pace mondiale. Con l’Italia che, avvertito il pericolo del fondamentalismo islamico ormai giunto sulle coste libiche, si dichiara pronto ad entrare in guerra, sia pure nel contesto delle regole internazionali, mentre si ricorda l’anniversario della prima guerra mondiale e Papa Francesco dichiara che la terza guerra mondiale è in realtà già in corso e i tanti profughi che rischiano la vita per arrivare sulle nostre rive, sono li a ricordarcelo.
NG. Caro Emidio il tuo ultimo libro si chiama : « Il vincolo esterno ». A beneficio dei nostri lettori puoi spiegarci che cos’è questo concetto ?
ED. L’espressione ‘vincolo esterno’ risale al 1953, quando in una Relazione annuale della Banca d’Italia si vide nell’organizzazione europea un vincolo, appunto, che aiutava l’Italia a limitare i suoi errori in materia economica. Ma fu resa nota, e io la riprendo da lì, grazie a un libro di memorie di Guido Carli. Artefice del trattato di Maastricht, che introdusse la sorveglianza multilaterale e la disciplina di bilancio, il ministro del tesoro Carli considerò il vincolo europeo quale causa della fine della spendacciona prima Repubblica e, al contempo, quale strumento salvifico per affrontare le sfide della fine della guerra fredda. Carli è più noto per un’altra espressione, il famoso slogan dei ‘lacci e laccioli’ ammnistrativi e politici che avrebbero impedito all’Italia una libera economia di mercato. Ma il concetto di vincolo esterno è più profondo del riferimento ai lacci e lacciuoli, poiché mostra come il liberalismo economico non sia da considerare una dottrina anti-politica. Al contrario, in un paese come l’Italia un programma liberale può divenire per certi versi giacobino. Con il vincolo europeo si intendeva impiantare nel paese uno strumento istituzionale che de facto modificava la Costituzione adeguandola, per un verso, al modello tedesco e, per altro verso, all’ideale dello stato minimo. Fu Carli stesso a parlare di modifica costituzionale, un vero e proprio atto di radicale rottura repubblicana; altro che l’abolizione del Senato di cui si discute in questi giorni. Nelle sue intenzioni, tuttavia, il paese avrebbe dovuto rovesciare questo vincolo stabilito nel 1992, liberando le sue energie migliori grazie a riforme in materia economica e finanziaria, oltre che per mezzo di una riforma delle pensioni e del mercato del lavoro. Se per lungo tempo, per più di venti anni, il paese ha esitato a intraprendere questa strada, è altrettanto vero che la filosofia del vincolo e il suo valore pedagogico hanno sortito i loro effetti. Si pensi ai dibattiti sulla necessità di ridurre la spesa pubblica e alle conseguenti azioni, alla stretta monetaria considerata inderogabile, al valore purificatorio attribuito alle privatizzazioni, alla modernizzazione da conquistare sul campo di un rinnovamento del paese nel quadro europeo, fino al Jobs act. Siamo arrivati ad una sentenza in cui, lo scorso 11 febbraio, la Corte costituzionale ha negato la retroattività di un provvedimento finanziario in nome del rispetto del vincolo di bilancio. Ma già con la crisi economica iniziata nel 2008, quindi con le polemiche contro l’austerità degli ultimi due anni, siamo entrati in una stagione nella quale il vincolo istituzionale rimane lì, anzi è stato rafforzato dal Fiscal compact del 2012, senza però che il suo valore pedagogico continui ad operare efficacemente. Nel senso che gli italiani hanno smesso di mitizzare l’Europa e hanno iniziato a chiedersi, addirittura, se non valga la pena uscire dall’euro.
NG. Nella sua ancora breve storia l’Italia ha cercato di accreditarsi come potenza internazionale ora con politiche coloniali, e in tempi più recenti attraverso un’opera di mediazione internazionale che tu spieghi nel concetto di multilateralismo. Tuttavia, questi sforzi sono apparsi frustrati da una considerazione tutto sommato scarsa nei nostri confronti in sede internazionale. Anche di recente nella crisi in Ucraina si sono fatti avanti la Germania, la Francia… e l’Italia? Come ti spieghi questa scarsa influenza italiana?
ED. Io sostengo che il multilateralismo sia la cifra per leggere la nostra politica estera durante la guerra fredda. E lo dico per rigettare le tesi che vedono solo una politica estera ripiegata su difficili equilibri interni, e quindi incapace di difendere gli interessi nazionali. Penso che l’Italia, attraverso la scelta multilaterale, abbia trovato spazi di azione e opportunità politiche che devono essere riconsiderati. Del resto, il paese non è uscito dal disastro fascista per poi divenire la potenza economica quale è, ovviamente nello scenario planetario, senza o malgrado la sua politica estera. Oggi però la questione si pone in modo diverso. L’impegno multilaterale dell’Italia è aumentato, il paese è divenuto un produttore di sicurezza internazionale, partecipando a numerose missioni militari. Ma senza stabilire delle priorità geopolitiche si va poco lontano. Penso che la politica estera italiana nei confronti dell’Ucraina non sia da biasimare. Non possiamo essere in prima fila, ma dobbiamo, come credo abbiamo fatto, contribuire a riportare i falchi al tavolo da cui possono volare le colombe. Non è una partita facile, ma l’Italia può solo adoperarsi per evitare una escalation del conflitto. Prioritario per l’Italia è il Mediterraneo, in particolare quanto sta accadendo in Libia. È qui che occorre guidare le scelte dell’Europa, o almeno tentare di farlo in modo deciso. Il fatto che il ministro degli esteri Gentiloni abbia dichiarato che siamo pronti a combattere, credo segni un cambiamento di passo che personalmente giudico in modo positivo.
NG. Attraverso i secoli si è andata perdendo la centralità del Mediterraneo. Basti pensare, in tempi più recenti, al periodo della guerra fredda. Tuttavia l’area del Mediterraneo resta ancora oggi una delle aree di crisi tra le più pericolose per la pace mondiale. Come ha giocato il suo ruolo il nostro paese? Ricordando sia gli interventi in Libano nel 2006 sia il recente mezzo intervento in Libia.
ED. I casi di Libano e Libia sono in effetti esemplari. Nel primo caso siamo intervenuti da protagonisti, nel senso che abbiamo convinto l’Europa che fosse bene l’Italia guidasse l’intervento internazionale dopo la guerra con Israele. È stato scritto che il governo intervenne per ragioni interne, ossia per marcare le distanze dalla politica di esportazione della democrazia in Iraq, e così mantenere unita la barcollante coalizione del centro-sinistra, notoriamente divisa sulle missioni all’estero. Insomma, il solito bizantinismo della politica estera italiana, vale a dire tanta politicità a uso interno e poca chiarezza ed efficacia politica esterna. Ma la priorità geopolitica andava nella giusta direzione, ossia riportare l’Europa alle sue responsabilità mediterranee e riportare l’Italia in una posizione di equi-vicinanza tra palestinesi e israeliani. Poi il governo è caduto miseramente e tutto si è perso. Molto diverso è il caso libico. Si ricordi che era il marzo 2011. Il capo del governo era allora molto indebolito, aveva scarsa credibilità internazionale e anche nel paese. Nel giro di pochi giorni, tra il 18 e il 25 marzo, il governo di centro-destra decise di intervenire in una guerra sbagliata avviata da Francia e Gran Bretagna e di firmare il patto Euro plus, che di fatto aprì le porte al successivo Fiscal compact. Insomma, un capovolgimento della politica estera del centro-destra, dettato però da contingenze politiche che non si riusciva a governare. È lì che ha origine, a mio giudizio, la crisi della transizione verso la seconda Repubblica. Si trattò di un momento di rottura che ha aperto la nuova stagione politica che stiamo vivendo: prima il salvifico salvataggio di Monti, con un effimero ritorno alla logica del vincolo europeo; poi il breve governo bipartisan di Napolitano e Letta; infine il trionfo del renzismo come via verso la terza Repubblica.
NG. Tu nel libro parli della differenza politica, direi ideologica, tra una destra liberale ma anche quella fascista (durante il ventennio) che si proponeva come un’aggressiva forza colonialista e diversamente una sinistra internazionalista fautrice del multilateralismo. Nella seconda repubblica, tramonta ogni aspirazione coloniale o neocoloniale a vantaggio di un multilateralismo che sarà sia di Berlusconi che dei governi di sinistra. E’ un segno ulteriore della fine delle ideologie, o come possiamo spiegare questo adeguamento della politica italiana al multilateralismo?
ED. Credo che il multilateralismo resti un riferimento importante. Certo, la politica estera di Berlusconi sarà ricordata più per i suoi rapporti bilaterali, con Bush, con Putin, e con lo stesso Gheddafi. Tuttavia, la differenza tra centro-destra e centro-sinistra non ha riguardato il multilateralismo. È infatti rimasto un riferimento come fu nel periodo precedente, allorché nel corso della guerra fredda l’Italia cercò un ruolo internazionale nel quadro delle Nazioni Unite. Anzi, si è rafforzato in ragione della necessità di trovare un linea bipartisan nonostante la tendenza maggioritaria, come nel caso di altre democrazie occidentali, che a dispetto dell’alternanza al governo cercano unità a fronte dei grandi temi della politica estera. La differenza tra centro-destra e centro-sinistra, dicevo, non ha riguardato il multilateralismo, ma il vincolo europeo. Negli anni ‘90, il centro-destra ha proposto di superare i lacci e lacciuoli della politica per ridare energia al paese, senza tuttavia appoggiare l’idea dello strumento salvifico del vincolo. Il centro-sinistra ha invece inseguito il sogno di costruire un paese normale grazie all’ancoraggio europeo. Non so chi abbia meglio frainteso la lezione di Carli! Dopo l’11 settembre, quando il centro-destra ha potuto governare, il suo euroscetticismo ha trovato un potenziale sviluppo nella guerra globale al terrorismo. Ma con la crisi economica, iniziata nel 2008, quindi con le elezioni di Obama, lo scenario è cambiato. In questo nuovo quadro, il multilateralismo resta l’unica modalità per intervenire all’estero? Penso di sì. Nel 1998 siamo intervenuti in Albania per riportare stabilità in una ex-colonia. Lo abbiamo fatto, direi anche bene, sostenendo che era interesse dell’Europa e della comunità internazionale, e questa rivendicazione ci è stata riconosciuta. Se volessimo intervenire in Libia, perché l’Italia non può accettare l’istituzione di uno stato islamico confinante che si ispira ad Abu Bakr al-Baghdadi, non possiamo riuscirci se non convincendo l’Europa e la comunità internazionale a darci legittimità e magari un contributo di forze. Altrimenti avrebbe argomenti chi ci attacca perché crociati e colonialisti. Il multilateralismo non è un’ideologia, ma l’unica modalità affinché l’Italia repubblicana possa mettere in campo un’azione di politica estera. Tu giustamente poni il problema dell’ideologia. Ma questo tema riguarda la scelta se intervenire o no, ossia la scelta sulle priorità geopolitiche cui prima facevo riferimento. Nel centro-destra la Lega, e nel centro-sinistra Rifondazione comunista e altri partiti affini, contestano l’idea stessa della politica estera. Sostengono che non si debba mai fare politica in modo coercitivo oltre i confini nazionali. Parrebbe che ogni azione di politica estera in tal senso non possa che essere coloniale o lesiva dell’autodeterminazione dei popoli. Ovviamente in un mondo globalizzato non è così. Ma rimane in campo un discrimine, anche ideologico, sulla definizione dell’agenda e sulla scelta delle priorità.
NG. Negli anni ’80 tu ricordi che Craxi con la sua politica estera contribuì all’emarginazione del Partito Comunista Italiano. Puoi sintetizzarci questo passaggio che mi è parso cruciale nell’evoluzione della sinistra italiana. Quali furono le responsabilità del PCI in questo farsi emarginare?
ED. L’avvicinamento del Partito Comunista al governo, la cosiddetta solidarietà nazionale, naufragò quando nel 1979 fu deciso di adottare il sistema monetario europeo, che anticipò l’unione monetaria di Maastricht e quindi la politica del vincolo. A quel tempo la sinistra era contraria al vincolo europeo, ma dopo la guerra fredda, come abbiamo detto, le posizioni si sono ribaltate. A differenza del centro-destra, il centro-sinistra ha proiettato il suo residuo giacobinismo nello sforzo di realizzare le condizioni di un paese normale, sorprendendosi quando si è giunti all’esito inevitabile dell’austerità; mentre la sinistra neocomunista si è mantenuta su posizioni marginali. Gli anni ‘80 sono in effetti decisivi per comprendere questa doppia impasse delle sinistre italiane. So che rischio di disturbare qualcuno a sinistra, ma credo che mentre Togliatti avesse una chiara idea delle priorità della politica estera, Berlinguer comprese ben poco di questa politica. Il primo riteneva che la politica estera, che egli definiva politica nazionale, fosse uno strumento per favorire, da parte italiana, le condizioni per un mondo più multipolare a partire dall’Europa, anche se ciò era subordinato, nella sua mente, al mito dell’infallibilità sovietica. Berlinguer schiacciò invece le questioni internazionali sul pacifismo, quindi inseguì il sogno di una casa comune europea, poi tramontato con il fallimento di Gorbaciov. Da questo fallimento, a mio avviso, nasce sia il ripiegamento del centro-sinistra sul vincolo europeo, sia la marginalità in politica estera della sinistra neocomunista. Almeno che non si voglia credere che sia politica estera dare ospitalità ad Ocalan.
NG. Oggi, in questa fase ancora molto fluida della politica italiana, dove sono presenti diverse forze populiste, quanto pesa il vincolo esterno sulle nostre vicende nazionali ed in particolare sui timori che suscita questo vento della globalizzazione? Per fare un esempio, c’è chi dopo le nuove stragi di profughi chiede di fatto la chiusura delle frontiere e chi invoca il ritorno a “Mare nostrum ».
ED. L’esempio dei profughi e dei migranti che tu fai è proprio calzante. Un tempo si pensava fosse solo questione di politica interna o domestica, mentre oggi è chiaro che si tratta di un tema anche di politica estera. È esattamente quello che dicevo prima, ossia che in un modo globalizzato non si può ridurre la politica estera a iniziative marginali e cullarsi nell’illusione che, per il resto, sull’agenda di politica estera si possano segnare solo dinieghi agli impegni internazionali. Nel caso specifico della chiusura di Mare nostrum, penso in effetti che il dibattito sia stato solo strumentale, ossia per l’avanzata dei o per la contrapposizione ai peggiori istinti populisti. Ma tornare a Mare nostrum non ha senso. Occorre semmai dare gli strumenti di Mare nostrum alla nuova missione europea. Ma non ci nascondiamo che l’unico modo per evitare il commercio di migranti è riaprire le frontiere con una politica migratoria coraggiosa.
NG. Penso a quell’interessante concetto che tu esponi nel libro di de-democratizzazione del Paese e in particolare al rapporto tra vincolo esterno, comunicazione e democrazia. Un argomento di grande attualità se si pensa al dibattito in Francia e non solo successivo alle vicende di terrorismo avvenute a Parigi. Qual è lo stato di salute, a tuo avviso, della democrazia italiana?
ED. Nel libro sostengo che inseguendo lo spettro del berlusconismo e della manipolazione della comunicazione si sia compreso ben poco del processo di de-democratizzazione in Italia. Il nostro è un paese nel quale la democrazia è consolidata, ma ciò non evita che vi possano essere arretramenti. Più nello specifico, cerco di mostrare che la de-democratizzazione non è imputabile alla rottura di un vincolo interno, al deteriorarsi del legame fra opinione pubblica e ceto politico. Ma è imputabile all’indebolirsi del potere nazionale o, meglio, della capacità dei decisori politici di trasformare i vincoli internazionali, e in particolare il vincolo esterno europeo, in opportunità per il paese.
NG. Il tuo libro si ferma al 2013, dopo c’è stato Renzi, il quale ha voluto, un po’ a sorpresa per alcuni, fortemente che la politica estera europea fosse affidata ad un’italiana, Federica Mogherini. Proviamo ad aggiungere un’appendice al libro. Quali sono le prospettive italiane dopo questa mossa del governo?
ED. Penso sia stata una buona scelta, sia per la persona che per il ruolo. C’è bisogno di donne o uomini che si sono formati dopo la fine della guerra fredda, perché in genere capiscono meglio le sfide contemporanee, specie nel Mediterraneo. Inoltre l’Italia ha ottenuto un ufficio importante per tutto quello che abbiamo detto fin qui. Non un ufficio da cui derivano solo problemi e non vantaggi, secondo le opinioni ricorrenti, ad esempio espresse da un influente giornale conservatore come il Corriere della sera. Ciò detto, devo registrate che il semestre italiano di presidenza dell’Unione ha fortemente deluso le mie aspettative. Il discorso conclusivo di Renzi di fronte ad un Parlamento europeo semideserto ne ha rappresentato il sigillo.
NG. Non possiamo non concludere con uno sguardo sull’Europa, dove la guerra è alle porte con la crisi russo-ucraina. Che ruolo a tuo avviso potrà giocare l’Italia, dove il sentimento europeista sembra scemare sempre più in delusione. Europa o morte? Tu come la vedi?
ED. Ripeto che nel caso ucraino sia bene mantenere i nervi ben saldi, e bene ha fatto la Germania a prendere l’iniziativa. Ho recentemente pubblicato un libro, curato con la collega Federica Guazzini, intitolato La guerra ai confini d’Europa. Per lungo, anzi troppo tempo abbiamo creduto che l’Europa potesse definire la propria identità solo guardandosi all’interno. Si pensi ai dibatti sulle radici cristiane, sugli ideali illuministi, oppure si pensi al tema del laicismo nel recente dibattito sulle vicende terroristiche a Parigi (su cui prima ho sorvolato ma solo per mia incompetenza). Credo oggi sia più chiaro che l’Europa potrà definirsi solo se sarà in grado di considerare l’esterno, ossia chiarendo qual è il suo rapporto con i confini. Ai tempi degli stati nazionali, il modo migliore per capire i confini di un paese era osservarli nel quartiere dove sono ospitate le principali ambasciate estere, ossia al centro delle capitali nazionali. Era un facile esercizio di eterotopia, se vogliamo evocare Foucault. L’apertura di uno spazio di extra-territorialità nel cuore di un paese era il chiaro riconoscimento della sua sovranità territoriale, e il moltiplicarsi dei riconoscimenti bilaterali sfumava nel multilateralismo come potenziale modalità di azione internazionale. Oggi l’unico modo per capire l’Europa, la sua identità, non solo è vedere come gestisce le politiche del vincolo in paesi come l’Italia, oppure nei paesi periferici come la Grecia, ma anche come affronta le guerre ai suoi confini, tanto in Ucraina quanto in Libia. Si tratta di un esercizio di eterotopia al contrario, che dobbiamo imparare a praticare.
Nicola Guarino