Dal Festival Internazionale di Poesia di Genova “Parole spalancate”, al libro omonimo «Spalancati spazi – Poesie 1995-2016». La poesia quale gesto primordiale, legato alla nascita.
Claudio Pozzani è nato a Genova nel 1961. Poeta, narratore e musicista, è apprezzato in Italia e all’estero per le sue performance poetiche che ha effettuato nei più importanti festival letterari a livello internazionale in Europa, Asia, Africa e America Latina e in Saloni del Libro importanti quali Torino, Parigi e Francoforte. Le sue poesie sono tradotte e pubblicate in oltre 10 Paesi e sono comparse in importanti antologie e riviste di poesia internazionale contemporanea.
Nel 1983 ha fondato il Circolo dei Viaggiatori nel Tempo (CVT), un’associazione culturale che dirige tuttora e che si occupa di arte e in particolare di poesia e letteratura, organizzando manifestazioni internazionali in Italia e all’estero. Tra queste, il Festival Internazionale di Poesia di Genova « Parole spalancate », considerato l’evento di poesia più importante in Italia oltre che il più longevo, essendo stato creato nel 1995.
Altri eventi ideati e organizzati da Claudio Pozzani e CVT sono la Semaine Poétique di Parigi, BruggePoésie, l’Helsinki Runo Festival, Musik&Poesie Munchen in Germania e l’Euro-Japanese Tokyo Poetry Festival in Giappone. Nel 2001 ha creato la Stanza Internazionale di Poesia sita a Palazzo Ducale a Genova. Per le sue attività culturali e le sue performance artistiche, il grande poeta e drammaturgo Fernando Arrabal l’ha definito « maestro dell’invisibile, aizzatore di sogni, ladro di fuoco: il suo cuore danza nell’alcova festante”. Il suo CD di poesia e musica « La marcia dell’ombra » è rimasto per oltre due mesi nella top 20 di preferenza delle radio indipendenti italiane, prima volta per un disco di poesia. E’ appena uscito il volume « Spalancati spazi – Poesie 1995 – 2016 » per Passigli editore.
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Conosco Claudio Pozzani da diversi anni, sono stata ospite della sua “Stanza della Poesia” per diversi incontri e ho avuto modo di apprezzarne l’arte, la sua poesia, alla quale ha dedicato ogni istante della sua vita. E’ una persona speciale, che ispira un’empatica condivisione d’intenti e sentimenti: con lui sembra di essere stati costantemente in contatto spirituale e poetico. Ho avuto modo di ascoltare la sua modalità di lettura dei testi, al nostro Thè con la poesia, presso il Grand Hotel Mjestic di Bologna, al quale ha partecipato mercoledì 15 novembre, trovandola molto performativa, apprezzandola per l’originalità e l’intensità espressiva.
SPALANCATI SPAZI
Iniziare un libro di poesie con un testo che parla della propria nascita è certo una modalità generosa e coraggiosa che il poeta decide di adottare per regalare, da subito, l’indicazione primaria della propria dichiarazione di poetica. Dichiarazione che, sempre più spesso, non siamo più così abituati a ricevere, o almeno non così esplicitamente.
Claudio Pozzani, nel suo Spalancati spazi, edito da Passigli proprio nell’anno in corso, trova un espediente molto suggestivo per aprire, anzi per “spalancare”, questi “spazi” della propria poesia, e quindi per dirci cosa intende per poesia, come sente la poesia, quanto fa parte della sua vita e quanto intende – di questo – raccontare nel suo lavoro, spiazzando il lettore ovvero aprendo il libro con un testo che parla della propria nascita. Ora, a chi è attento a cogliere i segnali dell’interiorità, che vengono filtrati attraverso la poesia, quel mistero che spesso i poeti ammiccano ma tentano di celare, e che fa capo al proprio modo di vedere e vivere il mondo e le esperienze, che poi diventano poesia stessa, non può sfuggire che aprire un libro come questo, che raccoglie testi che vanno dal 1995 al 2016, con una simile esplosione di versi, non può che voler dire: la poesia ce l’ho nel sangue, è nata con me, è un gesto primordiale che mi appartiene dal momento stesso della mia nascita. E di questo, prova ne sia, il percorso che in quest’arte Pozzani ha portato avanti da sempre. Poeta tradotto, come pochi, in molte delle lingue del mondo, ideatore di eventi poetici, in specie di un Festival Internazionale –da cui prende spunto il titolo del libro – e che a Genova ormai è diventato un appuntamento fisso da innumerevoli anni, appassionato di poesia performativa, in continuo viaggio verso i luoghi mondiali della poesia… e chi più ne ha più ne metta.
Ma, parlare della propria nascita, significa anche parlare della propria madre: Ti ho vista in quella stanza/io sporco di sangue e muco/tu stravolta e curiosa/Ho tentato di dirti che non ero sicuro/di voler restare fuori di te/ma le parole che avevo in testa/nella mia bocca si impastavano male…
La madre di Pozzani è una donna dolcissima e determinata, spalla e conforto sicuro del poeta, che ho avuto il piacere di conoscere a Genova, alla ormai mitica Stanza della Poesia, inserita nel contesto del Palazzo Ducale, e che l’autore gestisce insieme a Barbara Garassino, invitando e ospitando buona parte della poesia nazionale e estera, e avvalendosi proprio del prezioso aiuto di questa donna, cantata nei versi che spalancano al lettore l’animo del poeta, affermando fortemente: sono un poeta dalla nascita, devo molto – se non tutto – a questo gesto primordiale e a chi me l’ha donato, a mia madre.
Ci vorrebbe una rubrica a parte, solo per parlare del valore della madre, dell’amore verso questa figura, in poesia cantato dai più grandi poeti quali Ungaretti, Montale, Pasolini, Caproni … solo per citarne alcuni che hanno davvero lavorato in tal senso, per pagine restate memorabili.
E di Montale e Caproni non possiamo non parlare andando a indagare oltre le pagine iniziali del libro, che ci fanno conoscere un altro dei grandi temi d’amore dei poeti: quello per la propria città in generale, quello per Genova, in particolare, per Pozzani. Con questa sua quasi litania per Genova, che ricorda il noto testo di Caproni (ma potremmo parlare anche di altri testi non meno belli, come l’ultimo di Morasso, ad esempio o come quello del prefatore del libro Mussapi) ci imbattiamo ancora una volta nella meraviglia di una città che troppo spesso è considerata ai margini di un’attività culturale che, invece, è davvero ricca e di notevole e pregiato interesse. Questo riguarda non solo le sue bellezze monumentali e quotidiane, Il Palazzo Ducale e le viuzze del centro storico, il mare e le vie imponenti, ma anche l’impegno di tanti uomini e donne di cultura che si prodigano, oltre che nel loro lavoro di scrittura, anche nell’organizzazione di eventi. Genova assurge così, grazie a tutti loro, a capitale culturale di quel nord ovest che rappresenta tanta parte della nostra storia italiana
Ancora. L’amore, cantato alla moda dei grandi Canzonieri, non manca tra le tematiche di Spalancati spazi
, e compare, ad esempio, nel testo La donna dalle lacrime dolci dove tutta la delicatezza e lo stupore del sentimento sono affidati a versi di estrema liricità – a dimostrazione dei vari ritmi che albergano nella poesia dell’autore – e che riassumono per massima parte la nostra tradizione poetica, di cui si sentono trasparire le note e lo spessore, il retroterra culturale e la passione per gli autori che hanno fatto immensa la nostra poesia: Sei la donna dalle lacrime dolci/Ogni tuo gesto è una fiammo leggera/Sei l’ombra, sei il gatto che fugge e poi ritorna/Sei l’impatto del treno contro i rami sporgenti […]
Pozzani però, nello scorrere del libro, insiste ancora sul tema di ciò che più gli sta a cuore, ovvero su quello della poesia. In Vengo a portarti una poesia per Neruda, l’autore con un galoppo nel cuore dice alla persona amata (che potrebbe essere anche il suo lettore immaginario) che in questo secolo che ci vede esiliati egli confida di portare in dono la sua giacca logora, la sua resistenza/e questa poesia smarrita di Pablo Neruda, quasi a testimoniare che solo la poesia può essere fonte di salvezza, motivo per esistere e resistere. Mentre, in Cerca in te la voce che non senti (invocazione per voce, cassa toracica e solitudine), ecco che Pozzani detta alcuni di quelli che potremmo definire i punti cardinali della sua poesia: il cercare la voce che non si sente e il mangiare l’universo se non la si comprende. Questa ricerca, per essere completa, va fatta nel mondo che ci circonda, oltre che dentro noi stessi: nelle basse case dai tetti spioventi/lacrimanti pioggia da gronde ormai marce; nel fumo di nebbia… nelle auto veloci/che brucano leste tagliatelle d’asfalto… negli obliqui fantasmi stampati sul muro [che] ricordano fughe e cavalli di frisia. E la ricerca non è solo fatta di pensieri e parole bensì richiede un ritmo, un ritmo di vita e di voce che diventa musica: una musica che canta la solitudine del poeta.
Una considerazione a parte merita lo stile, a cui abbiamo solo brevemente accennato, utilizzato da Pozzani. Uno stile variegato ma non per questo non riconoscibile, una cifra solida che unisce versi brevi a lunghe ricognizioni di parole, una miscellanea di semi aforismi e poemetti, questi ultimi preferiti a dire il vero, quasi a sentire un forte bisogno narrativo che possa esplodere in quell’intérieur drammatizzabile e performativo, al quale ricorrere come modalità espressiva per un’oralità della poesia a cui egli stesso ha abituato il suo pubblico.
Un libro, Spalancati spazi, da cui apprendere molto in merito al percorso di un artista che, come detto, ha fatto della poesia la sua dimensione di vita, realizzando un sogno che a quanto pare gli apparteneva già dalla nascita.
Alcuni testi da: Spalancati spazi
Ai miei genitori
E quando, vecchio, i miei occhi
saranno cisposi come asterischi
e la mia schiena
s’inarcherà in punto di domanda
mi sembrerà di diventare
una frase stupida
una di quelle
che si dicono in fretta alla stazione
poco prima di restare nuovamente soli
Quando le mie gambe
dure e rigide come punti esclamativi
si faranno più pesanti
sulla cresta di stegosauro
dei caruggi sconnessi
sarà allora
che mi mancheranno ancor di più
le vostre mani grandi e sapute
che apparecchiavano lo spazio
davanti ai miei passi incerti
e le vostre parole
che appoggiavano paracarri e segnaletiche
lungo la mia via
Quando i miei discorsi
s’aggroviglieranno in punti di sospensione
buoni solo per farmi ridere dietro
da ragazzi foruncolosi
e le mie mani
ospiteranno rughe intersecate
in simboli di diesis
sarà allora
che mi mancheranno ancor di più
quelle locomotive di roccia
intorno al lago delle vacanze estive
e quel segno di matita sul muro
che anno dopo anno
scivolava giù lungo il mio corpo che cresceva
Quando il mio movimento
diventerà statico e definitivo come un punto
e i miei baci
rari come un punto e virgola
sarà allora
che mi mancheranno ancor di più
le vostre monumentali presenze
che riempivano ogni armadio, ogni pentola, ogni barattolo
e le vostre teste reclinate nel sonno giusto
sopra pagine sportive e parole crociate
E sarà forse per tentare di riavervi
che mi fermerò per strada
appoggerò per terra i sacchetti della spesa
e allargherò le braccia
come una parentesi che si chiude
ma che non riesce più
a contenere il mondo.
*****
Vengo a portarti una poesia di Neruda
Ho un galoppo nel cuore
e onde al guinzaglio
Di questo mare insepolto
impasterò vento e sabbia
per costruire i tuoi piedi rumorosi
e sentirli danzare dentro i miei occhi
Per raggiungerti salgo
dal mare alla collina
La mia testa si ridisegna stella
per chiamare le tue voci
Le mie labbra si arcuano stanche
in sorrisi autunnabondi e distratti
E io sono qui,
su questo autobus che scuote il mio corpo
come un dado
come un tappeto
arrancando su polverose strade
rese mute dalla pioggia improvvisa
Le farfalle applaudono al mio passaggio
sbattendo le ali
sopra le pozzanghere che ingoiarono Narciso
Ho un galoppo di onde
nel mio cuore al guinzaglio.
Portami dove si possa dimenticare
questo secolo che ci vede esiliati,
questi temporali
che non riescono più a rinfrescarci,
queste celebrazioni e abbracci
che sembrano inutili corone di fiori.
Il mare è laggiù
lontano come un progetto abbandonato
le ruote sparano sassi e ricordi
sulla salita che la tua casa mi srotola davanti
Sono l’intagliatore di foglie di carciofo
e ti porto in dono sagome di nubi
A te,
bicchiere dall’orlo sbeccato
che non posso baciare senza ferirmi
A te,
orecchio reciso e gettato su un prato
per ascoltare i segreti delle formiche
A te,
porto in dono la mia giacca logora,
la mia resistenza
e questa poesia smarrita di Pablo Neruda.
*****
Aperitivo in centro
Il mio cuore è una sedia vuota
dove nessuno si vuol sedere
e il cervello una spugna fradicia
che gli angeli strizzano nel tuo bicchiere
E quel tuo sguardo d’ossidiana rovente
che ti scivola lungo il naso fino a farsi bacio
e più giù, fino alle nostre ginocchia
che si toccano, si evitano
scambiandosi desideri d’ossa e sinoviti
Aperitivo in centro
e non so che cosa dire
Tavolino, piattini, seni sotto il maglione, orlo di bicchieri:
è un delirio di rotondità che sfugge
e falena sbatte contro i vetri del tuo silenzio
La strada balla veloce sulla coda dei nostri occhi
Le dita sono ganci per appendere i tuoi sorrisi
Dammi una parola da incorniciare stasera sopra il mio letto
ché è stufo, sai,
delle lacrime di madonne
e dello stillicidio di stigmate perenni
Dammi i tuoi piedi
e magari sdoppiali
così che li possa far calzare al tavolo di cucina
e baciarli ad ogni prima colazione
inginocchiandomi in orazione laica e carnale
Oppure alzati, andiamo.
Apri quel compasso abbronzato
che fu usato per tracciare l’equatore
Contro il tramonto
il tuo profilo nero
s’intreccia con la stenografia
delle cime di colline
e ogni tuo passo è un punto esclamativo.
Lasciami essere camicia
sotto il ferro rosso della tua lingua
Lasciami essere mare
per le tue mani seppie
gonfie d’inchiostro e certezze
E questa notte
ascolterò il gioco d’arpa dei tuoi piedi sottili
tra le lenzuola e le fiamme
e chiuderò i tuoi palmi
dopo averci letto
l’ultimo indimenticabile capitolo
della mia giornata.
Lascia che sia io
ad aprire la porta dei tuoi sogni
prima di posare
i miei occhi sul comodino
e il mondo sulle spalle di Atlante.
Cinzia Demi
Bologna, 13 novembre 2017