Ho visto due bambini giocare, in una strada dietro Place de Clichy. Uno aveva un pallone, l’altro le stampelle. Guardandolo, ho sperato (chi salva una vita salva il mondo intero) che fosse solo per un infortunio passeggero, non una condizione permanente.
Come sempre mi accade in questi frangenti, ho fatto finta di niente (è terribile, essere grandi) e sperato di vedere il pallone arrivare vicino a me, e partecipare (per un attimo, si intende) al gioco. Invece no. I ragazzi (ho detto bambini, ma erano già in quell’età in cui l’infanzia comincia a sfuggire e una strana paura ti prende, sensazione inesprimibile di cose future, scrive Buzzati), i ragazzi dicevo avevano una certa maestria (maledetti) nel controllo della palla. Per loro io ero solo un adulto rompiscatole che passava da quelle parti, non certo un possibile complice.
Però ho sentito cosa dicevano: parlavano di sport. Non di calcio (non della bella sberla presa dalla Francia contro l’Italia, ad esempio). Parlavano di altre prove, quelle dei Jeux paralympiques. I giochi olimpici per le persone affette da handicap, o disabilità o come si voglia chiamarle. Ne parlavano con grande serietà, come fanno i bambini ormai quasi ragazzi quando si accostano a quel mondo adulto di cui ancora non sanno tutto, di cui avvertono il fascino e il mistero. Parlavano di chi ha vinto le gare e di chi forse le vincerà, di atleti francesi magari senza una gamba o un braccio, di calciatori ciechi che inseguono una palla che fa rumore e tirano in una porta che mai vedranno. Di giocatori di pallacanestro in carrozzella, di nani (questo è il termine, che suona crudo e crudele, lo so) che giocano splendidamente a Badminton (in italiano, il Volano). E nei loro discorsi non c’era nessun pietismo, e nemmeno ammirazione per lo sforzo di superare la disabilità. Parlavano dei risultati: di chi è forte, di chi potrà vincere la medaglia d’oro, di chi ha giocato meglio.
Avevo qualche dubbio (lo confesso). Non tanto sulla manifestazione in sé (è bellissimo che anche chi ha problemi fisici possa fare sport e avere una tribuna grande e importante). I miei dubbi erano sul culto della forza d’animo che fa superare ogni ostacolo; sulla retorica del “tutto è possibile”; sull’idea che l’individuo possa sempre superare ogni difficoltà. Mi sono chiesto se questa esaltazione del coraggio, della forza d’animo, dell’abnegazione non possa diventare una sorta di tacito rimprovero per chi non ce la fa. Per chi non riesce a sorridere ed essere felice nonostante tutto. La vita è quel che è: non è facile per nessuno. Se ad essa si aggiunge la disabilità, piccola o talvolta grande, può facilmente diventare una condanna tremenda, che nessuno merita, che nessuno dovrebbe vedersi infliggere (e che porta a chiedersi perché un Dio permetta simile cose, perché un essere vivente che non ha chiesto di venire al mondo debba essere imprigionato nel buio, nell’impossibilità di muoversi, in simili prigioni).
Forse (così mi dicevo) è giusto accettare questo dolore, non negarlo, invece di far credere che ogni handicap sia solo un ostacolo da saltare in scioltezza con la forza di volontà. E poi (sempre per la categoria dubbi) mi ero chiesto se in questi giochi paralimpici non vi fosse anche un piccolo velo di ipocrisia; le condizioni della vita quotidiana di chi ha una disabilità sono difficili, è difficile spostarsi, una scala diventa un ostacolo invalicabile, è complicato fare qualunque cosa; non basta una grande kermesse che mostra casi eccezionali per risolvere queste difficoltà. E la disabilità non è un fattore “neutro”, come talvolta si vuole far credere; è qualcosa che può essere terribile, per chi la porta e per i familiari, non può essere sminuita e ridotta a diversità tra le tante. Questi erano i miei dubbi. Che rimuginavo tra me e me, ma non osavo esprimere. Per paura di essere frainteso.
Ma quando ho sentito quei ragazzini parlare delle competizioni, con la serietà della loro età, ecco, mi sono convinto di una cosa: i Jeux paralympiques sono stati una cosa meravigliosa. Certo, l’handicap resta una condizione di oggettiva difficoltà, che non va derubricata a diversità tra le altre. Certo, le condizioni di vita nel quotidiano restano difficili per chi abbia una situazione di disabilità. Ma forse questi giochi contribuiranno a cambiare lo sguardo delle future generazioni su questi problemi. E aiuteranno molte persone, e le loro famiglie, a vivere con più serenità e coraggio una condizione che è difficile, e che richiede una forza che non tutti possono trovare da sé.
Mentre pensavo a queste cose, il ragazzino con le stampelle ha ricevuto il pallone e lo ha ripassato senza difficoltà al suo compagno, meglio di quanto avrei fatto. I ragazzi sono rimasti al loro gioco, ed io ai miei pensieri.
Maurizio Puppo
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