“Non temo Berlusconi in sé, temo Berlusconi in me”, diceva Giorgio Gaber, citando un geniale aforisma di Gian Piero Alloisio. Forse è proprio così.
Io ad esempio avevo uno zio simpatico e spaccone. Lavorava in porto, era comunista, anzi comunistissimo. Diceva che il porto genovese era stato penalizzato a bella posta dai padroni per non far partire da lì la rivoluzione. Cantava, suonava la chitarra. Era per la pena di morte. L’URSS non gli dispiaceva: lì sì che c’era ordine. Bisticciavamo spesso. Non eravamo d’accordo su quasi niente. Ci volevamo bene e mi regalava giochi meravigliosi come il Meccano o il Subbuteo, che recuperava in porto, non so bene come. Mi aveva portato allo stadio a vedere la Sampdoria, non nel settore popolare, ma in quello dei “distinti”. Perché aveva già qualche soldo e qualche ambizione in più rispetto ai miei. Mi spingeva a fare il filo alle ragazze e io diventavo rosso. Raccontava barzellette che oggi procurerebbero denunce per sessismo.
Nell’euforia degli anni Ottanta si mise in proprio, fece i soldi e diventò socialista. Al tempo di Tangentopoli diceva che bisognava fucilare i politici ladri, altro che processi e avvocati. Nel 1994 diventò berlusconiano, esattamente come prima era stato comunista e poi socialista: acriticamente, senza se e senza ma. Si innamorò di Silvio. Per la prima volta aveva l’impressione che un potente si rivolgesse proprio a lui, esibisse gli stessi gusti, facesse le stesse battute. I soldi in tasca diventarono tantissimi. Cominciò a lavorare con gli Stati Uniti. Raccontava delle aragoste della Florida, le grandi macchine. Miami era per lui un paradiso. Faceva lunghissime tirate anticomuniste. Se gli ricordavo che lui era stato comunistissimo, mi diceva «sì, ma poi l’ho capita». Andava al mare in Versilia, vicino al Twiga, stabilimento balneare, anzi del berlusconismo ortodosso, dove giravano Flavio Briatore, Daniela Santanché, Emilio Fede. Lì mi disse: «io in fondo sono sempre di sinistra. Una casa, da mangiare, un lavoro per tutti. Se vuoi di più, però, te lo devi guadagnare». Era generoso. Faceva regali clamorosi. Andava a 200 all’ora in autostrada dicendo «sono meno pericoloso di quelli che vanno piano, io so guidare e mi tolgo subito dai piedi». Guardava molta televisione. Soprattutto Emilio Fede e Bruno Vespa. Odiava i magistrati. Ma come, gli dicevo, non volevi fucilare i politici senza processo? Sì, ma non quando i giudici sono disonesti, e comunisti. Comprava moltissime cose costose che poi non usava. Apparecchi sofisticatissimi, destinati a restare chiusi in un cassetto.
A Parigi, al Moulin Rouge, vista la coda per entrare, mise una banconota da cinquanta euro in mano a un ragazzo degli ingressi, e passò davanti a tutti. In casa teneva una pistola: «se vengono gli albanesi, gli sparo». All’inizio degli anni Dieci del XXI secolo, le cose cominciarono ad andare male per Berlusconi (colpito dagli scandali del Bunga Bunga e sostituito a Palazzo Chigi da Mario Monti a metà legislatura), e anche, anzi soprattutto, per mio zio. Fallimento, debiti. L’epoca d’oro era già finita. Per il berlusconismo, e anche per lui. È morto di cancro, l’anno scorso. Negli ultimi anni si sentiva assediato. Dai “comunisti”, dagli immigrati, dai presuntuosi che se la tiravano perché avevano studiato. Non siamo mai stati d’accordo su niente. Sulla pena di morte, sull’URSS, sui politici «tutti ladri», su Berlusconi, sui giudici «comunisti».
La sua vita, se la guardo oggi, mi sembra che racconti un pezzo di storia d’Italia nel secondo dopoguerra. L’Italia povera ma bella, l’ascesa sociale, la ricchezza improvvisa e clamorosamente esibita, guardata con sussiego dai veri ricchi. La fede nel comunismo, l’identificazione con Berlusconi, e poi la caduta. La dolce ala della giovinezza, le ambizioni sbagliate, le illusioni perdute: una storia che forse sarebbe piaciuta a Balzac.
Se per Piero Gobetti il fascismo era stato autobiografia della nazione, forse Berlusconi è stato un’autobiografia di molti italiani. Quella di un eterno paese mancato.
Maurizio Puppo
Maurizio Puppo,
mi ritrovo spesso nei suoi articoli quello che penso scritti magistralmente.
Grazie, saluti
Gino Verrelli
Grazie