Il film “Berlinguer – La grande ambizione” del regista veneziano Andrea Segre (dall’8 ottobre in Francia – article en français ici) racconta cinque anni decisivi della storia recente d’Italia e di quella di Enrico Berlinguer, segretario storico del Partito Comunista Italiano. Nel 1973 il golpe in Cile induce Berlinguer alla strategia del “compromesso storico” con la Democrazia Cristiana. Dopo lo strappo con l’URSS (“La democrazia è un valore universale”, dice Berlinguer a Mosca), nel 1978 il PCI arriva alle soglie della partecipazione al governo. Il progetto si interrompe, in modo irreversibile: le Brigate Rosse uccidono Aldo Moro, leader della DC, principale (o unico) interlocutore di Berlinguer.
Quei cinque anni iniziano e finiscono con la morte : Allende in Cile, Moro in Italia. Ma racchiudono la vita. Le parole, i silenzi, lo sguardo, il corpo di Berlinguer (interpretato da Elio Germano, David di Donatello 2025), e quella “grande ambizione” (espressione di Gramsci), “indissolubile dal bene collettivo”. Ne abbiamo parlato con Andrea Segre.
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Altritaliani: Qual era la « grande ambizione » di Berlinguer?
Andrea Segre: Costruire una società socialista, senza diseguaglianze, che superasse le violenze e i limiti del capitalismo, e farlo assieme a tante persone. Un’ambizione, come dice Gramsci, “indissolubile dal bene collettivo”: far parte di una grande comunità che si propone di costruirla, questa società, e dedicare la propria vita a questo.
A.I.: In cosa il suo progetto era diverso da quel che chiamiamo socialdemocrazia?
A.S.: Per Berlinguer la socialdemocrazia abdica all’idea di superare il capitalismo. E senza lo scopo di sradicare la relazione tra vita e capitale, non si potrà mai costruire una società socialista. Questo non vuol dir non rispettare la libertà di iniziativa privata, o la competizione economica, a cui Berlinguer e il PCI non erano contrari. Ma per loro, chi gestisce la cosa pubblica deve garantire tutte le condizioni di dignità della vita umana, non essere al servizio del capitale. Lo Stato non si deve occupare del consumatore privato, ma del bene pubblico: è questa la grande differenza tra il progetto di Berlinguer, il socialismo nella democrazia, e la socialdemocrazia.
Invece, nel moderno capitalismo occidentale, lo Stato ha un ruolo fondamentale nell’incrementare i profitti privati. È il progetto neoliberista: il capitalismo occupa il potere pubblico, sulla base dell’equazione secondo cui più ricchi diventano i capitalisti, più il benessere si diffonderà a pioggia.
A.I.: Mi racconti come avete cucito assieme, nella sceneggiatura, i discorsi pubblici, le riunioni politiche e la vita familiare?

A.S.: Abbiamo ripreso i discorsi politici dai verbali, adattandoli al ritmo cinematografico, e ovviamente riducendone i tempi, visto che le riunioni di direzione, ad esempio, duravano dieci ore. Anche per gli incontri privati di potere, abbiamo usato le fonti a disposizione. Ad esempio, per l’incontro con Živkov (capo di stato bulgaro, ndr) abbiamo combinato i comunicati ufficiali, formali e retorici ma comunque utili, con gli appunti manoscritti di Berlinguer, disponibili all’archivio Gramsci. Per l’incontro del 1976 con Brežnev, a Mosca, non c’erano appunti. Allora ci siamo basati sulla testimonianza di Alfonsina Rinaldi, all’epoca giovane dirigente del PCI di Modena. Era stata invitata a far parte della delegazione, come si usava fare con i giovani, per farli crescere e imparare. Le altre persone non ci sono più, ma lei sì, e ci ha raccontato molte cose. Il congresso del PCUS era un evento politico pari alle elezioni americane, c’erano quattromila giornalisti, delegati da tutto il mondo. Brežnev aveva chiesto di incontrare Berlinguer prima del suo intervento. La linea da tenere era stata discussa con le altre persone della delegazione (Sergio Segre, Gianni Cervetti) e al suo ritorno Berlinguer ha accennato a cosa si erano detti. In questo modo abbiamo potuto ricostruire l’incontro. Per il colloquio con Andreotti, ci siamo basati su un articolo di un giornalista dell’Espresso, che aveva ascoltato le registrazioni, senza poterle conservare, e sul diario dello stesso Andreotti. L’incontro con Moro è raccontato in un libro monumentale (900 pagine!) di Luciano Barca, “Cronache dall’interno del vertice del PCI”. La parte familiare è basata sulle testimonianze dei ragazzi, della famiglia.
A.I.: L’episodio di Berlinguer che nasconde un biglietto da cinquantamila lire in un libro (ma poi dimentica quale) è vero?
A.S.: È un fatto vero. Quello che ho aggiunto io è il libro in cui ritrova la banconota: “L’accumulazione del capitale” di Rosa Luxembourg. Mi è venuta in mente questa trovata, non ho saputo resistere e l’ho suggerita allo sceneggiatore, Marco Pettenello.
A.I.: Berlinguer ritrova la banconota e tutto contento dice ai familari: bene, domenica andiamo a mangiare fuori.
A.S.: Non abbiamo voluto enfatizzare troppo questo aspetto, farne una sorta di “eroe onesto” che vive con poco avrebbe significato prendere una direzione retorica pericolosa. Però abbiamo disseminato il film di cose che permettono di capire le sue scelte, precisissime, il suo modo di vivere. Berlinguer abitava con la famiglia in un quartiere bene di Roma, scelto per ragioni di sicurezza. In quel periodo, il rischio di attentati era molto alto. I suoi predecessori, Togliatti e Longo, avevano abitato in una villa ai Castelli, isolata e facile da controllare. Ma Berlinguer, a differenza di loro, aveva dei figli, quattro, e non voleva farli vivere in un posto isolato. Così gli trovarono una casa alla Cassia, in un palazzo in cui era possibile mettere quattro posti di blocco: tre gestiti dal partito, uno dalla polizia. Era un quartiere alto-borghese. I suoi figli non potevano permettersi lo stesso tenore di vita dei loro compagni di scuola; Berlinguer prendeva lo stipendio di un operaio specializzato. In vacanza andavano dieci giorni a Stintino, in Sardegna, prendendo in affitto una piccola casa di pescatori. Andavano a mangiare fuori una volta al mese, in pizzeria. Con la scorta e la famiglia della scorta.
A.I.: A proposito di sicurezza, nel film è rievocato l’incidente del 1973 in Bulgaria, in cui Berlinguer rischia la morte. Un episodio oscuro.
A.S.: Per il modo in cui è avvenuto, è stato sicuramente un attentato. Se un camion militare colpisce l’automobile del segretario del partito comunista (nei paesi del blocco sovietico, trattato come un capo di stato), vuol dire che qualcuno lo ha lasciato passare. Ma non sappiamo di più. A fianco di Berlinguer, viaggiava Boris Velchev, un oppositore interno. Qualcuno poteva volere la sua morte, e magari anche quella di Berlinguer, per fare un favore a Živkov, e allo stesso Brežnev: eliminare due oppositori in un colpo solo Oppure, all’opposto, qualcuno voleva mettere nei guai proprio Živkov, creandogli un incidente diplomatico come sarebbe stata la morte del segretario di un Partito Comunista. Berlinguer sopravvive, vede che in Bulgaria non se ne dice niente, e decide anche lui di non parlarne. Non per proteggere Živkov, ma per non fare un favore a chi ha organizzato quell’attentato.

A.I.: Quando viene rapito Moro, Berlinguer sceglie la linea della fermezza. Apparentemente senza esitazioni.
A.S.: È lacerato, in quelle ore. Però lui e gli altri dirigenti del PCI non hanno dubbi. Vogliono salvare Moro e fanno tutte le pressioni possibili perché ci sia un’azione di polizia che lo liberi; cosa non impossibile, ma che qualcuno non ha voluto. Però il PCI non vuole trattare con le Brigate Rosse, non vuole dare autorizzazione a chi sta facendo quell’azione, chiunque sia, i brigatisti oppure i servizi deviati. Non si può trattare con chi sta attaccando la democrazia e anche lo stesso PCI: quel rapimento è chiaramente un attacco al progetto di Berlinguer. E questo viene dalla scuola partigiana: con il nemico non si tratta, lo si combatte. Non si possono fare cose tipo scambi di prigionieri, come chiedevano socialisti e radicali. O lo stesso Moro nelle sue lettere. Non si può trattare con i fascisti, e per loro i brigatisti erano fascisti.
A.I.: Quella era la linea ufficiale. Internamente al partito, si sapeva che la realtà era più complessa.
A.S.: Anche all’inizio della loro storia, con Franceschini e Curcio, le BR erano per la rivoluzione armata e chiaramente contro il PCI e il progetto di Berlinguer. Però in quella fase non c’erano ancora legami con personaggi dubbi come Senzani, o altri, che avevano rapporti con i servizi deviati. Moretti, dopo l’arresto di Franceschini e Curcio (che probabilmente lui ha agevolato) costruisce un’altra cosa.

A.I.: Il caso Moro significa la fine del progetto politico di Berlinguer.
A.S.: È una cosa che non fa ancora parte con chiarezza della memoria storica. I libri e film sul caso Moro, anche bellissimi come quelli di Bellocchio, non lo hanno veramente detto: il caso Moro ferma il progetto di Berlinguer, in maniera violenta. Il corpo viene messo vicino al suo ufficio. Per i ragazzi di adesso, che vengono a vedere questo film, invece è un’evidenza: Moro è stato ucciso per fermare Berlinguer. Questa cosa è di una importanza storico-politica gigantesca. Oggi tutti sanno cosa sono state le Brigate Rosse, ma nessuno sa chi è stato Berlinguer: questo è il risultato.
A.I.: Cosa è rimasto di quella “grande ambizione”?
A.S.: Resta un pensiero talmente profondo e lungimirante che pian piano ne stanno riemergendo con grande forza l’attualità e la centralità. Ho visto molti giovani venire a vedere il film, e non solo perché attratti dalla presenza di Elio Germano, dalla colonna sonora di Iosonouncane, o perché spinti dai genitori; c’è un nucleo rilevante di giovani venuti a cercare un riferimento politico e culturale diverso da quello che trovano nella sinistra odierna. Noi abbiamo attraversato la crescita del neoliberismo, loro ci sono nati dentro. Questa consapevolezza fisica, biologica, li rende i soggetti più pronti a reagire. Se sentono dire che la felicità è comprare il nuovo modello di telefono, sanno che non è vero, si sentono incastrati, e cercano qualcosa per liberarsi.

A.I.: Nel film, è molto importante il corpo di Berlinguer, il suo modo di muoversi.
A.S.: Abbiamo lavorato sulla sua fragilità, interiore e fisica. Sulla tensione tra l’essere un corpo e una persona fragile, delicata, con dolori molto profondi, e contemporaneamente avere una responsabilità così grande, che ti porta a parlare magari davanti a settecentomila persone.
Avere quella responsabiltà, quella grande ambizione, ed essere un uomo piccolo, sottile, fragile, chiuso, debole, delicato, silenzioso, è una cosa potente. Elio Germano, come tutti i grandissimi attori, è capace di far vedere nel corpo e nella faccia quello che sta pensando. Ed è questo che rende quel corpo così potente: non è un’imitazione. È più un sentire che un fare.
Grazie da Altritaliani !
Intervista a cura di Maurizio Puppo
Présentation du film et bande-annonce en français ICI






































