Aspettando le presidenziali del 2027… chi vive in Francia diventi francese!

Malgrado la “tregua olimpica” torniamo alla politica in questo inizio agosto con la pubblicazione della riflessione che ci ha affidato Giuseppe A. Samonà. Il dibattito rimane aperto. Buona lettura!

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Il sollievo è stato grande la notte del 7 luglio, dopo i risultati del secondo turno delle legislative.
E anche la gioia. Multipla.

Perché se il voto Rassemblement National (RN) resta drammaticamente importante, quasi un terzo degli elettori (e bisognerà non dimenticarlo nella lunga campagna elettorale che di fatto comincia adesso, è già cominciata, fino al 2027), dopo l’inquietudine, l’angoscia, il timore, scopriamo che gli altri due terzi gli si oppongono fermamente.

Perché il merito di questa vittoria deve molto a una sinistra determinata, matura (almeno, durante il breve tempo della campagna elettorale…) che ha saputo andare al di là delle differenze, anche patenti, delle sue diverse componenti, per gettarsi con entusiamo e generosità – si pensi innanzitutto alla politica delle desistenza fra i due turni – in una sfida che sembrava impossibile.

Perché questa sinistra unitasi nel Nouveau Front Populaire (NFP), con rimando evidente al Front del 1936, ha simbolicamente vinto e quindi, nel prossimo gioco parlamentare, avrà una responsabilità prioritaria, anche se visti i numeri, di tutta evidenza, non potrà governare da sola. (Anche se, mentre i giorni passano, è ovvio che devo correggere modo e tempi verbali: avrebbe dovuto avere…)

Perché la situazione di difficoltà e di stallo che si è creata (i tre blocchi più o meno equivalenti in cui si è diviso l’elettorato) è in realtà anch’essa una buona notizia: è un segno della crisi irreversibile della “monarchia” presidenziale e del possibile avvento in Francia di una democrazia parlamentare. Mentre il funesto progetto di premierato minaccia quella italiana.

Perché (e qui mi permetto di scivolare per qualche riga nel personale) dopo aver sofferto sia pure dall’estero lo stravolgimento del mio paese di nascita, l’Italia, nel segno di una cultura di estrema destra agli antipodi del mondo in cui mi sono formato, l’idea di vederla vincere anche qui in Francia, il mio nuovo paese adottivo, con la possibilità (come in Italia) di legiferare, di infiltrarsi nella società, mi risultava insopportabile. Giugno è stato il mese dello sconforto (ma anche della mobilitazione, del cercar di convincere il più possibile di indecisi…).

E poi appunto, dalle elezioni europee in poi, c’erano dirette e indirette tutte le railleries degli italiani, del genere: bravo, non volevi stare con Berlusconi e con Meloni in Italia, e adesso… O anche, più in generale, i diversi analisti che spiegavano, e tuttora spiegano, che in Italia non c’è nessuna deriva autoritaria, ma un’esemplare alternanza democratica, o ancora che il paese è sano, è un modello di stabilità, nella confortante prospettiva bagnomaria che ha conquistato anche una parte dell’opinione pubblica progressista, per cui in fondo la destra italiana non sarebbe poi così estrema né pericolosa … Insomma, le mie elucubrazioni sull’eterno fascismo [L’eterno fascismo italiano (altritaliani.net)] varrebbero poco o nulla.

E invece no. Il RN è stato sconfitto… E a Parigi la gente per la strada, mentre andavamo verso République per festeggiare, si abbracciava, ci abbracciava, rideva, piangeva, cantava… C’erano soprattutto tantissimi giovani, che quando sono contro il fascismo, e più in generale contro tutte le forme di destra estrema razzista, xenofoba, omofoba etc., è sempre una bella cosa, rassicurante. Subito, per altro, l’euforia si è propagata al di fuori dei confini nazionali, anche al di là delle Alpi … le vittorie sono contagiose: ma allora l’estrema destra si può battere, un’altra Italia, un’altra Europa sono possibili. E questa, qualunque cosa succeda adesso, resta comunque un’eccellente notizia, e un possibile modello di aggregazione democratico-repubblicano per l’Europa. E io, come tanti italo-francesi, mi sono di nuovo sentito a mio agio, contento di vivere in Francia.

Al di là del sollievo e della gioia, tuttavia, la situazione non è “guarita”, permane molto complicata, incerta, persino inquietante. L’estrema destra resta fortissima, con i più di dieci milioni di cittadini che l’hanno votata, il RN è per altro il partito più grande di Francia; e la sinistra, al di là degli inevitabili proclami (in parte già elettorali, col pensiero al 2027) inevitabilmente retorici eppure anche giusti, i numeri per governare, per governare da sola, per applicare tutto il suo programma, come ha detto Mélenchon alle 20h01 del 7 luglio, non li ha: e per di più, com’era ampiamente prevedibile, dalla gioia è passata alla paralisi, dimostrando sempre di più che se è stata capace di ergersi a baluardo contro l’estrema destra, non sembra invece capace, al di là dei numeri che mancano, di governare, troppo importanti sono le differenze fra le sue componenti. Eppure (ecco perché quelle affermazioni erano anche giuste) bisognerebbe governare, bisognerebbe veramente agire, attuare alcune di quelle reali misure di cambiamento che il paese richiede, altrimenti il sursaut sarà stato solo un sursis: il 2027 è dietro l’angolo, e se le condizioni di vita della gente non cambieranno in meglio, il RN sarà pronto ad approfittarne. Ma appunto, il rompicapo sembra essere senza via d’uscita: agire con fermezza e responsabilità ma anche con la duttilità e la tranquillità che la situazione esplosiva richiede è un cammino difficile, molto, troppo stretto, e diverse anime, non è un mistero, si muovono dentro il NFP, fra chi vuole usare la piazza prima e più del parlamento e chi vuole trovare le soluzioni, e quindi anche i compromessi, innanzitutto nel dibattito parlamentare. Più passano i giorni più aumentano le difficoltà e l’impressione che la sinistra, questa sinistra, non riuscirà a tenersi insieme per proporsi come reale alternativa – i suoi dirigenti, alcuni suoi dirigenti, non sembrano essere all’altezza; per altro, proprio su queste difficoltà sembra puntare la coalizione macronista… Sarà una delusione per molta gente, in Francia e in Europa. E il RN, anche lui pensando al 2027, ricomincia già a fregarsi le mani. O forse – questo mi dico da qualche giorno – era inevitabile, questa era solo il primo atto di una battaglia che non può in nessun caso chiudersi prima del 2027.

In questo senso, per il medio termine (il 2027 appunto…), urge che la sinistra si interroghi e si chiarisca su alcune questioni politiche di fondo provvisoriamente messe in sordina, per le quali sono venute alla luce ambiguità e derive, cortocircuiti e vuoti di memoria, vera e propria ignoranza, che hanno qua e là gravato sul suo percorso collettivo. Certo, lo spauracchio del Mélenchon autocrate antisemita, che avrebbe impartito la sua linea a tutto il NFP e sarebbe diventato automaticamente un dispotico primo ministro in caso di vittoria, è stato pretestuosamente utilizzato durante la campagna elettorale dalla destra, estrema e non, e anche dal campo presidenziale, per spingere la gente a non votare per il NFP, e il suo ossessivo ripetersi è risultato ridicolo, grottesco – era del tutto evidente, infatti, che la maggior parte della coalizione di sinistra non voleva e non avrebbe mai permesso che Mélenchon fosse primo ministro. Ma dire questo, sottolineare che il pericolo si trovava altrove (come altrove si trova il più robusto e omogeneo antisemitismo) non basta, come non basta attribuire a qualche bicchiere di vino di troppo, o a un eccessivo surriscaldamento dei toni, a un improprio escamotage retorico, alcune frasi, alcune scelte, alcuni atteggiamenti infelici, se non sciagurati, affiorati troppo spesso in questi mesi – purtroppo mi ci sono imbattuto anche nella gioiosa notte a République, il 7 luglio. No, in Francia l’antisemitismo non è un fenomeno residuale, ha nella società radici profonde, e in un alcune zone della sinistra ci sono delle ombre, dalla – diciamolo! – lunga tradizione, su cui è necessario soffermarsi… Questa riflessione inquieta, triste, è stata del resto al centro di molte discussioni con amici durante tutta la campagna elettorale, ed era cominciata in realtà nell’autunno dell’anno precedente – il che non mi ha impedito di condividere, al di là della sacrosanta necessità del barrage, il programma che miracolosamente il NFP è riuscito a mettere insieme in pochi giorni.
Non di questo però voglio scrivere adesso, ci vorrebbe ben altro spazio e poi, forse, più che di un ennesimo articolo ci sarebbe bisogno di un gigantesco seminario collettivo, che rompa gli stereotipi che avvolgono la comunità ebraica e quella musulmana e le mettono spesso in opposizione, a tal fine anche combattendo l’ignoranza e le semplificazioni che concernono la storia di Israele e della Palestina e di un conflitto il quale, ben al di là di quest’ultima terribile guerra, dura da più di un secolo – e che esportandosi in Europa e in particolare in Francia (che possiede le comunità ebraica e musulmana più grandi d’Europa) alimenta stereotipi, equivoci e tensioni.

***

… Ma appunto, non per riflettere su questo ho deciso di mettermi a scrivere questo articolo – anche se un po’ inevitabilmente ne ho scritto, nelle righe che precedono, perché la questione mi occupa e mi duole da troppo tempo – né più in generale per riflettere sulle possibilità o impossibilità della sinistra francese, o ancora più in generale sulle possibili soluzioni politiche per il paese in cui vivo. No, se mi sono messo a scrivere adesso è per un’esigenza, un’interrogazione più che politica, diciamo, antropologico-culturale. Ben più semplice e immediata.   

In un articolo dell’anno scorso [1922-2022: tre piste di riflessione dopo il voto del 25 settembre in Italia # 3 | NAZIONE INDIANA] problematizzavo una legge italiana, tutta imperniata sullo ius sanguinis, che dà nazionalità e diritto di voto potenzialmente a milioni di discendenti di italiani in giro per il mondo che dell’Italia sanno poco o nulla, e spesso non ci hanno neanche mai messo piede. Ecco, più o meno sempre dall’anno scorso mi interrogo su un caso per così dire inverso, qui in Francia.

Conosco personalmente una trentina di persone, molti sono amici, per la maggior parte italiani, ma anche alcuni tedeschi, spagnoli, americani, svizzeri, che tutti vivono qui da decenni, si sono francesizzati, hanno compagne e compagni, figli francesi, e sono politicizzati, impegnati, partecipano al dibattito civico in Francia più di quanto non facciano nel loro paese di nascita, hanno seguito e sofferto gli ultimi eventi: et pour cause, è qui che hanno scelto di vivere, e qui che vivono crescono sono educati i loro figli. Persino, in questa prospettiva, seguono i dibattiti elettorali e post-elettorali, soffrono con i loro amici francesi: solo che, ecco, non possono votare… perché non hanno mai preso la cittadinanza francese.

Alla mia domanda, spesso ripetuta, sul perché non abbiano compiuto questo passo tutto sommato semplice, cui avrebbero diritto, le risposte sono sempre fattuali, vaghe, e volentieri contraddittorie (le conosco bene, perché sono state quelle che ho dato a me stesso per un lungo periodo): ora invocano semplicemente la pigrizia, ora la fobia amministrativa, ora il sentirsi più europei che non mono-nazionali (ma intanto restano appunto mono-nazionali), o ancora la paura di perdere irreversibilmente la propria prima nazionalità, anche se questo esplicitamente non è più il caso per queste nazionalità, che una dopo l’altra – l’Italia è stata fra le prime – hanno finito con l’accettare la cittadinanza multipla, anche quando si tratti di più cittadinanze europee. Non c’è in ogni caso, per questi miei amici e conoscenti, nessuna mistica della nazionalità, perché tutti hanno un’idea moderna, francese appunto, della cittadinanza, fondata sul diritto del suolo, e sul patto sociale… Eppure questa resistenza, che di fatto li rende cittadini a metà, tradisce, più o meno consapevolmente, il timore di tradire la propria storia, soprattutto nel caso degli italiani, i cui rapporti di amore-odio con i francesi sono ben conosciuti. In realtà non mi sento francese, è la frase che molto spesso finisce per uscire dalla bocca di molti fra questi miei amici.

Ma ci si sente forse “solo” italiani, tedeschi, americani, soprattutto quando da decenni si è lasciato il proprio paese di nascita? Come spesso succede in questi casi, si confonde lo spazio con il tempo: ed è un tempo, quello dei primi anni della propria vita e della formazione, delle possibilità infinite, che non ci si rassegna a incrinare, a sporcare, non uno spazio, quello del paese da cui si è partiti. Ora questo tempo è una dimensione privata, personale, che nessun documento amministrativo e sociale – questo è di fatto una cittadinanza – potrà mai minacciare. Viceversa – questo mi ha fatto capire il mio itinerario e vorrei condividerlo – sancire anche amministrativamente la propria nuova vita, inserirla nel proprio curriculum vitae nel senso più stretto del termine,  restituisce a quella prima nazionalità una nuova freschezza, la esce dal ghetto del rimpianto e della segretezza, dentro il quale sempre sta in agguato il risentimento. Essere franco-italiani, franco-tedeschi, franco-spagnoli etc. permette di vivere con più chiarezza e fiducia, come un qualcosa di scelto ed agito, tutto il proprio percorso. E permette, permetterà di votare nel 2027!

Fra l’altro, se io ne conosco una trentina, in questa situazione, che a loro volta ne conoscono probabilmente tanti altri, che a loro volta etc… quanti saranno questi francesi di fatto che oramai vivono in Francia senza possedere la pienezza di diritti? Mi piacerebbe – è il mio piccolo impegno, la mia piccola sfida –  raggiungere, tentare di convincere, entro il 2027, qualcuno di quella mia trentina di amici e conoscenti, e magari dietro di quelli qualche altro come loro. Ce ne sono molti. E ogni voto democratico, progressista, antifascista pesa oro.

 Giuseppe A. Samonà

P.s. Ogni giorno che passa succede qualcosa di nuovo, quando questo articolo uscirà alcune delle mie affermazioni risulteranno già superate, ma il fondo resta per me valido, e soprattutto l’invito finale…

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Giuseppe A. Samonà
Giuseppe A. Samonà, dottorato in storia delle religioni, ha pubblicato studi sul Vicino Oriente antico e sull’America indiana al tempo della Conquista. 'Quelle cose scomparse, parole' (Ilisso, 2004, con postfazione di Filippo La Porta) è la sua prima opera di narrativa. Fa parte de 'La terra della prosa', antologia di narratori italiani degli anni Zero a cura di Andrea Cortellessa (L’Orma 2014). 'I fannulloni nella valle fertile', di Albert Cossery, è la sua ultima traduzione dal francese (Einaudi 2016, con un saggio introduttivo). È stato cofondatore di Altritaliani, ed è codirettore della rivista transculturale 'ViceVersa'. Ha vissuto e insegnato a Roma, New York, Montréal e Parigi, dove vive e insegna attualmente. Non ha mai vissuto a Buenos Aires, né a Montevideo – ma sogna un giorno di poterlo fare.

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