I quindicimila passi di Vitaliano Trevisan è un resoconto: il resoconto di un evento eccezionale. La scrittura del testo prende le mosse, e si giustifica, per l’eccezionalità di un evento accaduto al narratore: avvezzo ad annotare in un taccuino, che porta sempre con sé, il numero dei passi che lo separano – o che lo portano – da casa sua ad uno o ad un altro luogo, prova una sottile gioia nel constatare la coincidenza del numero di passi dell’andata e del ritorno. Questo evento, molto sporadico del resto, si realizza con maggior frequenza per tragitti inferiori alle tre centinaia di passi. Chiaramente, più grande è il numero dei passi minore sarà la possibilità di una coincidenza del numero di passi dell’andata e del ritorno. Due sole volte, spiega il narratore nell’introduzione, gli è capitato di vedere un numero di passi uguale all’andata e al ritorno, per passeggiate superiori al migliaio di passi. Oltre queste due occasioni, numero statisticamente non significativo, un’altra volta si è realizzata una tale sorprendente coincidenza. Alla terza occasione, il numero dei passi è addirittura superiore alle decina di migliaia: sconcertante! Tale episodio convince il protagonista a redigere il resoconto degli eventi intercorsi durante detto spostamento e la conversazione avuta con il notaio Strozzabosco nel suo studio, di ben quindicimila passi. Un resoconto, dunque, che dà modo a Trevisan di attraversare con le parole tanti di quei vicoli ciechi e strade mal illuminate di un’Italia che in questo caso si riduce al Veneto e a Vicenza, ma può assurgere a immagine della nazione intera.
Con il pretesto di una narrazione intimistica, in più luoghi l’autore mette in piazza un feroce attacco alla cultura cattolica nella quale fu allevato. Dopo appena venti pagine si capisce che non si tratta di un libro leggero su una passeggiata insolita, quando, raccontando di un teatro del vicentino, il teatro Roi, si legge: caduto poi nel corso del tempo sotto le sgrinfie dei preti che, cattolicamente, l’hanno distrutto. I preti, del resto, pensavo, distruggono sempre tutto. I preti ci distruggono tutto fin da quando siamo bambini, ci rovinano l’esistenza e non si fanno nessuno scrupolo a rovinarcela appena nati. Non passano che pochi giorni dalla nostra nascita, pensavo camminando, e già subiamo il trauma cattolico dell’acqua sulla testa. E qui si apre un sorriso, un sorriso di beffarda soddisfazione nel leggere queste parole, un sorriso destinato a rimanere accennato sul viso per la maggior parte del libro.
La verve critica dell’autore non ha come unico obiettivo il posticcio apparato cattolico nel quale ogni buon italiano viene allevato, da bravo agnello del gregge di Dio, ma riesce ad essere cinico e ironico anche in situazioni meno favorevoli, prendendosela, per così dire, con un nemico meno facile. È il caso di Aldo Moro. Dopo pochissime pagine dal primo attacco ai preti di cui abbiamo riportato uno stralcio si lancia in una tirata contro il pullulare, in Italia, delle vie dedicate ad Aldo Moro. Questa proliferazione di vie Aldo Moro e soprattutto i motivi che stanno dietro questa proliferazione di vie Aldo Moro e in definitiva lo stesso concetto di una via Aldo Moro, mi irritano indicibilmente ogni qualvolta mi imbatto, nel corso dei miei spostamenti […] in una via Aldo Moro. Non a caso si è scelto il termine di tirata per definire alcuni passaggi, in una prosa molto serrata, che caratterizzano la scrittura di Trevisan, passaggi in cui l’obiettivo è continuamente attaccato dal ripetere incessante di alcuni termini o nomi, tali da costruire, nella mente del lettore, un vortice di senso che ossessivamente ripete il nome del nemico, lo scruta, lo guarda, lo indica, gli grida contro, vorrebbe afferrarlo, insieme allo scrittore, e sbatterlo lontano.
Inevitabilmente si ha la sensazione di leggere le righe di un pazzo, le sue confessioni, di essere trascinati nella descrizione della mente ossessiva di uno schizofrenico: le continue allusioni alla pazzia, al suicidio, la descrizione di alcuni desideri come quello, ad esempio, di correre nudo attraverso i campi vicentini, e molti altri dello stesso registro, fanno sentire un odore di presa in giro, divertita e divertente. Ma la mente dell’autore, tra un delirio e un altro, viene a soffermarsi sull’abuso edilizio, per esempio, sull’informazione anestetizzante e arriva a considerazioni sull’Italia di oggi: niente ci riguarda meno di ciò che riguarda tutti, specialmente in questo paese retorico al massimo grado e inconcludente al massimo grado. Un nazione che si crede grande, mentre è piccola, in tutte le accezioni possibili della parola. Uno sputo sul mappamondo, queste esatte parole ho pensato stamattina riguardo al mio paese, una ridicola commedia dell’arte all’italiana, con tutto il rispetto per la commedia dell’arte, di cui so poco o nulla.
Ma i Quindicimila passi non si può ridurre solamente a ciò che critica e contro cui si scaglia, ha anche un notevole piano narrativo. Paradossalmente, è molto più difficile parlare della storia che racconta piuttosto che degli inserti critici che contiene. Perché, come si è detto dall’inizio, in questo testo si racconta di una passeggiata, di un’andata e di un ritorno, ma, con tutti gli elementi che possiamo racimolare nel testo, il narratore è come se ci accompagnasse solamente all’andata e, alla fine del tragitto, ci lasciasse tornare indietro da soli, cercando di far coincidere il numero dei passi.
Dopo i primi quindicimila passi, il lettore è chiamato ad essere cooperativo, a riempire gli spazi lasciati espressamente vuoti dall’autore, e si ha voglia di ricominciare il libro, avendo tutti gli elementi a portata di mano. Una passeggiata che in questa sede sarebbe nefasto descrivere per intero, distruggerebbe il piacere o il godimento del testo ai nostri lettori; tanto vale acquistare il libro e leggerlo tutto d’un fiato (Einaudi tascabili – Stile Libero, 150 pagine, 9 euro).
Carlo Baghetti