Cantautore di confine e fuori dagli schemi, sperimentatore curioso e insaziabile, Andrea Gianessi è un musicista attivo già da parecchi anni nel panorama indipendente italiano. Il suo primo album La Vita della Seta è dedicato alla contaminazione tra la tradizione cantautoriale italiana ed i colori e le sonorità acustiche orientali, mediorientali e mediterranee.
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Intervista ad Andrea Gianessi di Pietro Bizzini per Altritaliani
Pietro Bizzini : “La Via della Seta” è uno dei dischi che più mi ha colpito durante il 2011, da dove ti è venuta l’idea di unire la tradizione cantautoriale italiana agli strumenti musicali delle terre che si estendono dal Medio Oriente alla Cina?
Andrea Gianessi : Ti ringrazio molto, mi fa piacere che lo apprezzi a tal punto. Devo dire che sono sempre stato onnivoro musicalmente e credo che la contaminazione e la compresenza di mondi culturali anche distanti fra loro sia una parte fondamentale del mio modo di concepire la musica stessa. Scrivo canzoni da parecchio tempo ormai, e negli anni ho attraversato molte fasi e molti stili, dal rock alla psichedelia, dal prog alla sperimentazione più estrema e folle, fino al folk e all’elettronica.
In questo ultimo periodo ho sentito però la necessità di ritornare ad un approccio all’arrangiamento in chiave acustica – che io considero decisamente più umano, per così dire più suonato – per esplorare così le possibili interazioni tra la canzone d’autore tipicamente italiana e le culture orientali, mediorientali e mediterranee.
L’ambito delle musiche extra-europee è un mondo sonoro che mi ha sempre affascinato molto e l’idea di sperimentare una fusione è nata in primo luogo dalla curiosità di confrontarmi con esse, con le loro strutture complesse, con strumenti fantastici e raffinati, dalle sonorità incredibili. Ho iniziato lavorando sulle mie canzoni con un amico tablista, Francesco Gherardi, e con un altro grande musicista e amico, il violinista Francesco Giorgi. Con loro abbiamo intrapreso una sorta di destrutturazione pop dei miei brani, eliminando quelle che sono considerate normalmente le impalcature standard di ogni canzone, basso e batteria. Su questa tabula rasa abbiamo ricostruito dalla base degli arrangiamenti nuovi, per restituire agli strumenti una funzione realmente strutturale, evitando di impiegarli come mero colore timbrico. A noi si sono uniti col tempo altri ottimi musicisti come il flautista Antonello Bitella, il percussionista Domenico Candellori, il fisarmonicista Alessandro Zacheo e la violoncellista Maria Paola Balducci.
Tutti insieme abbiamo lavorato molto per costruire degli arrangiamenti che, pur nel rispetto dovuto alle tradizioni musicali di origine, si svincolassero dal purismo e dalla nicchia della musica etnica, cercando di oltrepassare quelle barriere che cristallizzano la creatività musicale, sia nel pop moderno che nella musica tradizionale.
P.B. : Quali sono le tue radici sonore? A chi t’ispiri?
A.G. : Come ti dicevo le mie radici sono molto ampie e si infilano molto in profondità nel terreno musicale. Per il disco “La Via della Seta” le influenze che sento più vicine sono probabilmente il De André degli ultimi album, da “Creuza de Ma” a “Anime Salve”, che già aveva intrapreso il percorso della contaminazione tra cantautorato e musiche “altre”, ma anche autori come Battiato, Fossati e Battisti, nonché sperimentatori come Mauro Pagani, gli Area, gli Aktuala, fino agli insuperati Beatles e Pink Floyd. Arrivando ad artisti più recenti citerei sicuramente i primi Quintorigo, in particolare con l’album “Rospo”, che aveva il grande merito di rompere certi tabù del pop.
Detto questo comunque i miei ascolti spaziano molto e potrei davvero mettere insieme una playlist grandissima che attraverserebbe molti generi e molti artisti, anche fra loro completamente diversi: dai King Crimson ai Massive Attak passando per i Coil, i Black Sabbath, la PFM, Donovan, i Beach Boys, Brian Eno e chi più ne ha più ne metta. Ultimamente ascolto con molto interesse i dischi solisti Eddie Vedder.
P.B. : Leggo che hai fatto esperienza in una città complessa come Londra. Ci puoi raccontare la tua vita là? Cos’hai imparato a livello umano e musicale?
A.G. : Ero andato per vedere da vicino la realtà di quella che può essere per certi versi considerata la capitale della musica degli ultimi 50-60 anni. Ho vissuto a Londra per un periodo relativamente breve, circa sette mesi, in cui sono stato a stretto contatto con la scena musicale undergrund, lavorando di giorno in uno studio di registrazione a Brixton e di notte con una agenzia di booking, che organizzava concerti di gruppi emergenti in molti locali della città. Devo ammettere che le mie aspettative erano piuttosto alte e forse per questo non sono rimasto particolarmente colpito dalle esperienze musicali che ho incontrato in quei mesi. Sicuramente molti musicisti ben preparati, grande entusiasmo in generale, ma nel concreto la situazione, almeno per la piccola parte che ho visto io, non era molto più esaltante di quella italiana. Se si considera anche che io ero in UK nel 2006-2007, appena prima della crisi finanziaria del 2008, e quindi in un periodo di relativa prosperità, devo dire che i nostri colleghi inglesi forse non se la cavano molto meglio di noi.
Dal punto di vista umano comunque è stata un’esperienza molto formativa, e penso di aver cominciato proprio a Londra a maturare, per antitesi, un certo distacco dalle logiche sociali e produttive che dominano il nostro mondo attuale. Ho ricominciato ad apprezzare maggiormente la dimensione locale, la tradizione popolare, e l’idea di un rinnovamento che trovi le sue radici nella cultura umana e non in quella di mercato.
P.B. : Ascoltando i tuoi testi, spesso s’incontrano temi sociali forti come Precari a Primavera. Secondo te la musica può avere ancora un ruolo educativo e politico?
A.G. : La musica, come la cultura in generale, ha per me un aspetto intimamente sociale, si rivolge verso gli altri, tenta di stabilire un contatto, una comunicazione. Veicola un messaggio anche quando non vuole, e in questo è anche politica. Non credo che si possa parlare però di una funzione propriamente educativa, direi più che altro che la musica può essere uno stimolo, può aprire finestre che normalmente rimangono chiuse e attraverso esse far entrare aria pulita nei nostri pensieri, anche grazie alla libertà che ci concede, libertà di interpretazione, di gioco, di sentimento ed emozione.
P.B. : Cos’è Atlantide nel tuo disco e chi il Re di Spazi Infiniti?
A.G. : Atlantide è una canzone che ho scritto dieci anni fa, dedicata alle vicende del G8 di Genova del 2001. E’ nata per caso: leggendo il giornale mi ha colpito una serie di articoli che in apparenza erano completamente scollegati fra loro. Si parlava delle violenze della polizia sui manifestanti, dell’omicidio di Carlo Giuliani, della Diaz e di Bolzaneto, ma si parlava anche dell’eruzione dell’Etna e infine c’erano due articoli culturali, uno sulla città proibita dell’impero cinese e uno sul mitico continente di Atlantide, inghiottito dalle acque con tutta la sua complessa e ricca società, ritenuta fino ad allora potentissima, ma in realtà fragile ed effimera. L’associazione tra queste immagini mi è venuta spontanea in un momento in cui otto cosiddetti “grandi” capi di stato se ne stavano arroccati in una pace surreale in una cittadella protetta, mentre al di fuori infuriava la violenza… l’immagine della decadenza, della tracotanza fatta sistema, dell’incuranza autodistruttiva: Atlantide appunto.
Re di spazi infiniti invece è un brano più intimistico, parla della libertà interiore ed è ispirato ad un verso dell’Amleto di Shakespeare che recita più o meno così: “Potrei essere rinchiuso in un guscio di noce e considerarmi comunque il re di uno spazio infinito”. Nulla a che vedere con personaggi come il Re del Mondo di Guénon o altre amenità esoteriche… diciamo che Re di spazi infiniti è chiunque non si rassegni alle gabbie mentali, sociali o fisiche che spesso ci imprigionano.
P.B. : Qual’è stata la reazione della critica ad un disco così insolito? E quella del pubblico?
A.G. : La critica ha finora accolto benissimo l’album e l’idea della contaminazione, che ha suscitato grande interesse e in alcuni casi persino reazioni entusiastiche. Ci sono state anche talvolta delle incomprensioni, soprattutto nel tentativo, da parte di qualche commentatore, di collocarmi in un genere di nicchia, nella categoria della musica etnica tradizionale o della world music. Cerco sempre di rivendicare la mia libertà da questi schemi: io e i miei amici musicisti non abbiamo operato nel senso del purismo o del recupero tradizionale, anzi… l’obiettivo è sempre stato quello di lavorare sulla canzone, sul pop nel senso più ampio e positivo del termine.
Se proprio si vuole usare la definizione “world music” la si dovrebbe intendere letteralmente come musica del mondo, di tutto il mondo, ma è chiaro che sarebbe una categoria troppo ampia per essere utile! Devo dire che il pubblico invece non si pone questi problemi e accoglie sempre con grande interesse e partecipazione emotiva il disco e i concerti. In un primo momento c’è sicuramente l’impatto della curiosità per gli strumenti insoliti e la formazione particolare, ma subito prevale comunque il coinvolgimento nella musica e nei testi delle canzoni, e si stabilisce così un contatto vero con le persone.
P.B. : Hai fatto concerti all’estero?
A.G. : Con questo progetto ancora no ma penso che sarebbe un’esperienza interessante. Molti mi suggeriscono di provare in area nord europea, dove sembra ci sia molto spazio per proposte come la mia: spero che riuscirò presto a organizzare un piccolo tour all’estero.
P.B. : Accanto alla “Via della Seta” hai altri progetti musicali?
A.G. : Questo è il progetto a quale sto dedicando la gran parte del mio tempo attualmente. Negli anni passati ho suonato in molte formazioni diverse che ora sono per così dire in stand by.
In particolare mi ha dato molte soddisfazioni il Nihil Project, un collettivo di musicisti da ogni parte del mondo, coordinato da me e da Antonello Cresti. Con questo gruppo abbiamo pubblicato ben quattro album dal 2001 al 2006, poi ci sono stati degli anni di pausa, ma ora si sta ripartendo con un nuovo album che vedrà la luce probabilmente nell’autunno 2012 e sarà una pubblicazione particolare, perchè il cd sarà abbinato ad un libro, i dettagli però sono ancora tutti da definire.
Un altro progetto in sospeso che mi vede coinvolto è lo PsychOut Department, che ho fondato insieme a Francesco Viani. E’ un gruppo che si potrebbe definire come una fusione tra il folk, il beat, la psichedelia e una piccola dose di elettronica. Abbiamo già inciso nel 2004 un EP di quattro brani che è rimasto congelato finora, ma sembra che ci siano buone prospettive di completarlo e pubblicarlo nel 2012. Per non farmi mancare niente poi ho cominciato, insieme a Frankspara, che pubblica per la mia stessa etichetta Reincanto Dischi, a lavorare ad uno spettacolo teatrale-musicale che abbiamo chiamato La Notte del Reincanto e che costituisce un ulteriore contaminazione, facendo interagire i miei brani con quelli di Frankspara in un riarrangiamento completamente nuovo per entrambi. Per adesso è in fase di ideazione, poi lo porteremo in giro in teatro… siamo veramente curiosi di saggiarne la resa dal vivo.
P.B. : Quali strumenti musicali orientali ti danno più soddisfazione?
A.G. : Io sono attratto da tutti gli strumenti in generale, di qualunque cultura. Per me hanno sempre una componente che definirei magica, un fascino intrinseco. Tra quelli orientali considero davvero interessanti i tabla, delle percussioni tradizionali indiane, una coppia di tamburi utilizzati solitamente per la musica sacra: la complessità sonora, tecnica e musicale che essi celano nella loro apparente semplicità è davvero sorprendente. Anche per questo è uno strumento che ho fortemente voluto nel mio disco e con il quale come dicevo prima abbiamo iniziato da zero la ricostruzione dei miei brani.
P.B. : Quali parti del disco sono state più ostiche da suonare?
A.G. : Ci sono certo nel disco delle parti strutturalmente complesse, come l’introduzione strumentale del brano “La Prima Onda”, dove si alternano metri diversi in sequenze molto rapide, oppure singole parti strumentali e soli su cui abbiamo studiato molto. In generale però penso che l’impegno maggiore sia stato speso nella cura degli arrangiamenti e della forma, ossia nella direzione da dare a tutto il disco. Ho lavorato, assieme con tutti i musicisti del progetto, ad una struttura ed una sonorità coerente e ben definita, pur nella complessità e varietà. Questo è stato il nostro obiettivo e lo sforzo più grande: unire dei brani tutto sommato pop ad arrangiamenti così complessi e stratificati, trattando allo stesso tempo con il massimo rispetto gli strumenti e le tradizioni musicali di riferimento, per non snaturarle o svilirle. E devo dire che il risultato ha talvolta sorpreso anche noi: penso per esempio al brano “The River” in cui abbiamo rivestito una intima canzone a tre voci, ispirata alle ballad inglesi, con un arrangiamento basato su chitarra, bodhran, tabla, flauto, fisarmonica e violino, e poi l’abbiamo chiusa con un raga indiano cesellato dal violino su tabla e bordone, in una sorta di punto di incontro ideale tra Oriente e Occidente. Non a caso è il brano che chiude il disco!
L’intero disco “La via della Seta” è ascoltabile sul sito http://www.andreagianessi.it/.
Pietro Bizzini
(ndr settembre 2018. Ci scusiamo, le video inserite al momento della pubblicazione dell’articolo non sono più disponibili).