Dopo l’intervista a Magrelli di Andrea Monda tradotta in francese da Marguerite Pozzoli, presentiamo in questo piccolo dossier, un’utile, e crediamo gradevole vademecum di Floriana Calitti, Professore associato di Letteratura Italiana presso l’Università per Stranieri di Perugia, per capire e meglio conoscere un intellettuale, poeta e scrittore tra i più innovatori e impegnati del “panorama” italiano e non solo.
INTERVISTA A VALERIO MAGRELLI, clicca QUI
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Valerio Magrelli è nato a Roma nel 1957 ed è uno dei poeti – a mio parere il poeta più importante della generazione poetica ultima, penultima diciamo così. Infatti secondo molti critici e storici della letteratura italiana è il 1980 a segnare una svolta nel nostro “paesaggio” poetico. E uso il termine paesaggio non a caso, uno dei lemmi più magrelliani nel senso della sottrazione maggiore nell’uso e, soprattutto una parola che ha “subito” la consueta manipolazione, scarnificazione lirica puntuale, scientifica, geometrica di asciugatura e “nettitura”-pulizia fino alla scomparsa del termine stesso, inteso come cornice naturale. Leggiamoli subito alcuni dei versi a cui sto alludendo:
Qui sto senza paesaggio,
pere, mele, stagioni, cielo, niente,
soltanto supellettili, una campagna
fatta ad artificio. Ma già da piccolo
per gioco stendevo una coperta
nella stanza, sopra mucchi di carta,
ed era un panorama,
una salma di monti.
Di tutto ciò qualcosa resta,
adesso, che scrivo a letto,
che io faccio la terra.
È il foglio stesso, la pagina bianca o il proprio corpo a diventare paesaggio o perlomeno questa ne è la percezione, la percezione di un occhio che vive una mutazione della fenomenologia dell’oggetto, un tema caro a Valerio Magrelli sia nelle prime raccolte sia nelle ultime (da «Ecco la lunga palpebra della donna» di Ora serrata retinae del 1980 in cui lo sguardo “descrittivo” della tradizione della descriptio feminae, delle lodi del corpo femminile, dei Blasons du corps féminin del Cinquecento francese (tradotti da Magrelli) arriva quasi ad anatomizzare e, allo stesso tempo, a visualizzare un pensiero: ad esempio quando nel distico finale il sopracciglio è paragonato alla forma ad arco degli antichi acquedotti romani: «Questa è l’ultima porta/d’un antico acquedotto di sguardi». Fino a una delle ultime raccolte poetiche Disturbi del sistema binario (Einaudi 2006).
Ma è già dal 1980, appunto, da quell’anno che abbiamo detto essere “cruciale” per tutta la poesia contemporanea italiana che la scelta dell’occhio come visione intellettuale è una scelta privilegiata ed assoluta. La raccolta porta sin dal titolo tutto il carico di significato assegnato al vedere: Ora serrata retinae Feltrinelli 1980 con una prefazione di Enzo Siciliano. Il titolo in latino che si riferisce all’anatomia oculare, come d’altronde le due sezioni che suddividono la raccolta “Rima palpebralis” e “Aequator lentis”. L’atto del vedere è al tempo stesso inizio, origine, archetipo (ante oculos ponere degli antichi) della conoscenza, ma anche tradimento stesso, deformazione, sviamento dalla realtà empirica dell’oggetto da conoscere.
Una poetica della percezione (una nuova poesia che sembrava ricominciare da capo, si è detto, dopo una faticosa operazione di tabula rasa) potremmo azzardare se trovassimo un termine da sostituire al troppo paludato poetica (la poesia sulla poesia? La metapoesia?): basterebbe comunque mettere in fila alcuni versi presi a caso come
Splendido l’occhio./Questo è il suo segreto; oppure:
Gli occhi mi si consumano come matite,/e la sera disegnano sul cervello/figure appena sgrossate e confuse; o, ancora
Dietro queste immagini che lampeggiano sul foglio/c’è una regola, un punto geografico del mio osservare,/una gradazione delle diottrie mentali; o:
È come se avessi perso un occhio./Ho scavalcato la notte nella luce.
Ed infine lo stravolgimento della metafora barocca per eccellenza quella dello specchio, o il topos della sera, o quello dell’attraversamento per mare, della salvezza dal naufragio e dal tema romantico per eccellenza; la malattia intesa come stato di alterazione e di straniamento, di spossessamento, la lingua chiara, semplice, coordinativa, una allusione elegante all’impeto e alla quiete del foscoliano sonetto “Alla sera”:
Stasera mi sono visto nello specchio,
con una canottiera bianca
e la barba lunga delle malattie.
Ma avevo ancora attraversato il dolore,
e la carne era fresca
e tutto il dubbio dissolto.
Avevo doppiato una stagione di sconforti.
Appena girato lo scafo,
coperti dal promontorio grigio,
il vento cade di colpo
e l’impeto si quieta
e stupisce del suo esaurirsi.
Così il marinaio è salvo.
Sempre del 1980 una delle poesie più famose in cui l’ordine e il motivo contadino-georgico virgiliano sono terremotati da dentro, dal disordine dell’inatteso. È il mestiere della scrittura come nella similitudine dell’aratro dell’ “Indovinello veronese”:
Io abito il mio cervello
come un tranquillo possidente le sue terre.
Per tutto il giorno il mio lavoro
è nel farle fruttare,
il mio frutto nel farle lavorare.
E prima di dormire
mi affaccio a guardarle
con il pudore dell’uomo
per la sua immagine.
Il mio cervello abita in me
come un tranquillo possidente le sue terre.
Valerio Magrelli insegna Letteratura francese all’Università di Cassino ed è traduttore dal francese di Mallarmé, Verlaine e, soprattutto di Paul Valery su cui ha scritto un importante saggio dal titolo Vedersi vedersi: modelli e circuiti visivi nell’opera di Paul Valery (Einaudi 2002). Tra i numerosi riconoscimenti scelgo quello che nel novembre del 2003 gli ha conferito l’Accademia dei Lincei: il prestigioso Premio Feltrinelli.
Al Magrelli poeta filosofo, è indubbia l’influenza della sua primissima formazione così come indubbia è anche l’influenza dei suoi prediletti filosofi morali francesi come Montaigne, si accosta anche un Magrelli che fa della rivisitazione delle forme della tradizione poetica italiana un punto di sperimentazione molto interessante: è il caso, ad esempio, di
Esercizi di tiptologia (Mondadori 1992: la tiptologia è la tecnica usata dai carcerati per comunicare o quella delle sedute spiritiche) in cui, in una sorta di diario in versi e in prosa, traduzioni, rifacimenti, citazioni, il basso contamina l’alto e l’alto eleva il basso, si veda la forma del poemetto-filastrocca-nenia scelta per una tematica come quella della paternità che chiude la raccolta Poesie e altre poesie: Children’s corner. Oppure quello che può essere definito un poemetto eroicomico, la raccolta dal titolo già “sporcato” “imbrattato”: Didascalie per la lettura di un giornale una specie di elencazione di elementi antipoetici che assurgono a poesia (secondo un’ironia alla Gozzano, possiamo dire, ma con l’aggiunta di un tono civico che guarda all’orrore del quotidiano, senza neppure la salvezza dell’ironia se non per l’andamento sommesso, come in sordina, non urlato che conferisce al tessuto lirico una vita più smorzata, meno esplicitamente pamplettistica)
Magrelli poeta d’amore? Da Esercizi di tiptologia 1992: la combustione universale, un fenomeno scientifico preso a emblema dello scambio osmotico tra i due amanti. Dal punto di vista metrico la prevalenza del settenario nella prima parte più lieve nella musicalità settecentesca molto ritmata, quasi alla Parini, e le terminazioni ripetute in –ino e –ini, scandiscono questo ritmo lieve. Nella seconda parte la tonalità è più grave, la prevalenza dell’endecasillabo lo testimonia così come le allitterazioni consononantiche e l’uso stridente di una costellazione terminologica “infernale” moderna, della nostra quotidianità: termosifone, petrolio, liquame ecc. e il tentativo struggente dell’armonizzarsi degli opposti in ossimoro, della «buia aureola di petrolio».
L’abbraccio
Tu dormi accanto a me così io mi inchino
e accostato al tuo viso prendo sonno
come fa lo stoppino
da uno stoppino che gli passa il fuoco.
E i due lumini stanno
mentre la fiamma passa e il sonno fila.
Ma mentre fila vibra
la caldaia nelle cantine.
Laggiù si brucia una natura fossile,
là in fondo arde la Preistoria, morte
torbe sommerse, fermentate,
avvampano nel mio termosifone.
In una buia aureola di petrolio
la cameretta è un nido riscaldato
da depositi organici, da roghi, da liquami.
E noi, stoppini, siamo le due lingue
di quell’unica torcia paleozoica.
Magrelli poeta “civile” nel senso di poesia attenta agli accadimenti italiani senza che questi diventino nell’immediato e nel contingente solo materia poetica, direi nel senso dell’impeto e dell’urgenza etico-civile-morale di Leopardi ( e ancora prima del Petrarca dell’invettiva dei sonetti avignonesi e della Canzone all’Italia).
Nel 2011 ha pubblicato ancora per Einaudi, Il Sessantotto realizzato da Mediaset il cui sottotitolo – Un dialogo agli Inferi – allude in modo esplicito ad una ambientazione da locus inferni: un dialogo tra un poeta denominato “Il Tenerissimo” e Niccolò Machiavelli sullo stato della nazione italiana (vicino alle Operette morali leopardiane).
Ma già nel 2008 aveva presentato al Festival delle Letterature di Roma, per la prima volta aperto ad una serata dedicata alla poesia, questo splendido canto funebre dedicato alla tragedia dello stabilimento della Thyssen.
I.
Thyssen: per i senza parola
Continuano ad ardere come
come le lampade ad olio
ad olio della Bibbia.
“Che devo fare?”, chiedeva.
Ma cosa fare quando
quando si è ormai sgusciati
sgusciati via dal corpo?
Erano usciti per sempre dalla loro custodia.
Continueranno ad ardere
ardere per noi, stoppini
stoppini di carne votiva.
“Non lasciatemi solo”, scongiurava.
Bruciavano al dio del lavoro
lavoro di lingue di fiamma
di fiamma, di forza-lavoro.
II.
Rumore, fa’ silenzio!
C’è gente che trova figure
nascoste nella carta da parati
o nelle nuvole.
A me succede lo stesso coi rumori.
Per essere più esatti, ho un vecchio phon
che appena si accende comincia a vibrare
e man mano
emette un lamento profondo.
E’ l’elica difettosa, o i cuscinetti a sfera,
non ne ho idea,
ma so che inizia a intonare una trenodia,
o meglio, a sussurrarla sottovoce.
Prima si avvertono solo suoni indistinti,
una folla che fugge, moto che si avvicinano,
ma facendo attenzione
appaiono via via urla, richiami.
Io mi concentro; una sera, addirittura,
sono arrivato a bruciarmi,
tale è lo sforzo per afferrare il nodo
acustico, il groviglio dell’asciugacapelli.
Perché il suo sferragliare
non resta sempre uguale:
più dura, più si sciolgono gli intrecci
del fragore, e le voci si distinguono.
Sento dialetti slavi, minacce, spesso spari:
ci sono giorni in cui sono rimasto
a lungo ad ascoltarlo
per seguire le fasi di un rastrellamento
in un lontano villaggio dei Balcani.
A volte ne esce uno squillo familiare,
credo che sia il telefono, spengo,
vado a rispondere,
ma non c’è mai nessuno: quei segnali,
si vede che provengono da un’altra parte, sempre.
Se qualcuno ti chiama, non ci credere,
sarà un miraggio, un’impressione errata.
La verità è diversa:
mentre mi punto alla tempia quell’attrezzo
che sembra una pistola, viene fuori
il racconto di storie terribili,
fucilazioni, il pianto di bambini.
E’ come una confessione non richiesta,
una registrazione spedita per errore.
Che c’entro, io, con tutto questo sangue,
io che mi voglio solo asciugare la testa?
Ormai ci penso due volte, prima di adoperarlo,
prima di sprofondare in quell’orrore
e assistere impotente a certe scene.
Meglio bagnato, allora.
Mi verrà il torcicollo? Poco male.
Floriana Calitti
Professore associato di Letteratura Italiana
Università per Stranieri di Perugia