E’ semplicemente un’opera eccellente AMOUR, il film del regista austriaco Michael Haneke, che ha vinto la Palma d’oro a Cannes, nel maggio 2012. Uscito ormai anche nelle sale italiane, il film non tradisce le aspettative di un autore talmente perfezionista come Haneke, capace di mostrare “quella violenza contro gli altri o contro se stessi di cui è capace l’essere umano”.
Con il suo precedente film Il nastro bianco, solo tre anni fa, aveva vinto un’altra Palma d’oro: due primissimi riconoscimenti in breve tempo, straordinario.
In questo citato film (un eccellente bianco e nero), ambientato in un villaggio tedesco nel 1913, all’autore non interessa scoprire chi si nasconde dietro inspiegabili episodi di violenza, quanto piuttosto riflettere su una società che sta ponendo a dimora i semi che il nazismo metterà a frutto, dopo la Prima Guerra Mondiale.
In “Amour”, invece, Haneke si misura con il sentimento amoroso, non già quello giovane da “stato nascente”, bensì quello di una coppia di ottantenni, uniti da una incessante carica affettiva mai scalfita nemmeno dalla malattia e dal dolore, causato da un ictus che colpirà la moglie. E nemmeno dall’invecchiare dei corpi: l’amore invecchia e patisce con loro.
Ad interpretare la coppia sono gli immensi Jean-Louis Trintignant ed Emmanuelle Riva, eccellenti in ruoli tanto delicati.
La figlia della coppia parigina (nel film) è Isabelle Huppert, icona francese del grande cinema nel mondo.
Senza Trintignant – ammette il regista – il film non si sarebbe realizzato. Poche battute lasciano trasparire una forte intesa nella coppia, persone di raffinata cultura, già insegnanti di musica. La malattia della donna arriva come un lampo a ciel sereno, mentre fanno colazione. Parlando del concerto di un loro allievo la sera prima, sembra che la coppia accolga lo spettatore nella loro casa con sensibilità e delicatezza, come ospiti invisibili.
La loro naturalezza è disarmante, e persino l’arrivo del degrado fisico, con la totale assistenza da parte del marito, ci rendono partecipi di una quotidianità che si dipana ora per ora.
La coppia decide di isolarsi da tutto e da tutti, compresa la figlia (Isabelle Huppert), che sembra, almeno all’inizio, quasi indifferente ai genitori. Il resto non va raccontato, vi è una idea di vita e di morte che lambiscono i loro gesti; e vige una sorta di simbolismo: il piccione catturato con una tovaglia e tenuto vicino al viso prima di liberarlo, un ultimo emblema di vita prima che tutto si compia. E la fine della coppia viene raccontata con una sensibilità senza pari. Lui accompagnerà la moglie ma, dimenticando di indossare il cappotto, fa quasi intuire che il corpo, nonostante l’amore verso la moglie, voglia ribellarsi alla fine, ormai ineluttabile.
Con lunghi piani-sequenza, Haneke sembra voglia fermare il tempo.
Una eleganza espressiva ed una maniera leggera di dare senso alla dignità sono gli elementi che condensano quest’opera drammatica, in una visione del cinema che sa diventare linguaggio universale.
Armando Lostaglio