La Terra Madre appartiene a tutti ; o meglio, come direbbero gli Amerindiani, noi tutti apparteniamo ad essa. Le dobbiamo rispetto.
Possiamo immaginare che la Terra madre sia nata con l’agricoltura, in quanto garante della fertilità della terra, a volte anche « antenata », e spesso in coppia con un Cielo padre fecondatore (per es. attraverso la pioggia): di fatto, storicamente, è questo il modello che vige nella grande maggioranza delle religioni « antiche », che l’hanno popolarizzata sino a farne, nella nostra cultura, un quasi sinonimo della Natura.
(Non è un dogma, tuttavia, e bisogna ricordare che ci sono alcune eccezioni importanti : si pensi fra tutti al caso dell’Egitto antico, in cui il Cielo, Nut, era una dea, e Geb, la terra, un dio – del resto, in direzione in certo senso analoga, la lingua tedesca non dice « der Mund », il Luna e « die Sonne », la Sole ?).
Terra madre, dunque – assolutamente da non confondere con quella sorta di osceno padre al femminile che è la Patria (anche più osceno, letteralmente, quando si presenta come Madre Patria…). Osceno linguisticamente, certo, ma non solo : la Patria è infatti la terra nel senso del territorio, che inventandosi sempre false origini e confini si lega irrimediabilmente al sangue, e sempre finisce per suonar stordimento, esclusione, guerra.
In questo senso, come ebbe a dire Samuel Johnson, il patriottismo è veramente l’ultimo rifugio dei cialtroni. E mi vien voglia di ricordare anche queste parole (n.b. le ho lette, non so più dove, credo siano di Marx, ma non ritrovo la fonte, e offro un bicchiere a chi me la rintraccia – intanto le scrivo, perché mi sembrano quanto mai appropriate oggi, pensando all’Italia berlusconiana) : l’unico sentimento legittimo nei confronti della patria è la vergogna.
(Invito tuttavia ad esplorare di nuovo dal lato della lingua tedesca, che accanto all’odioso « Vaterland », il Terra padre, « das », la prepotente Patria appunto, contempla la dolce « Heimat », « die », il luogo familiare e intimo della memoria, che non occupa spazio, non pretende, né accampa diritti.)
La Terra Madre invece appartiene a tutti ; o meglio, come direbbero gli Amerindiani, noi tutti apparteniamo ad essa. Le dobbiamo rispetto. Pure, al di là della retorica ecologista di basso costo, non si tratta di « ritornare alla natura », vagheggiando un inesistente tempo o luogo in cui gli uomini l’avrebbero rispettata.
Gli uomini la Terra madre non l’hanno rispettata mai : o meglio l’hanno sin dall’inizio (intendo come dicevo l’inizio delle società agricole) violentata, o creduto di farlo, proprio nel momento in cui le edificavano un culto. Non intendo parlare da psicanalista (per cui certo questi temi costituiscono un cibo succulento), ma dal punto di vista storico e archeologico : le tante varianti del motivo cosiddetto del « dema » (la pianta alimentare « uccisa » che rinasce ciclicamente) indicano che l’uomo ha paradossalmente sentito il passaggio dalla caccia all’agricoltura e all’allevamento come una violenza maggiore, da espiare. L’omicidio e la necessità di riscattarlo coabitano, almeno sin dall’inizio della rivoluzione neolitica, che informa ancora il nostro modo di pensare.
(La Terra madre, d’altrocanto, è veramente buona ? Le madri, lo sono sempre ? Non sarebbe più opportuno, a volte, parlare con Leopardi di natura « matrigna » ? Di nuovo, ecco del cibo per psicanalisti e, al di là, dei temi su cui riflettere storicamente… In questo senso, è interessante ricordare che la Grecia antica, da cui provengono tante delle nostre categorie, di Terre madri ne aveva due : l’una, Gaia, attiva mitologicamente ma inattiva nella realtà cultuale, l’altra Demeter, legata all’agricoltura, e oggetto di culto… A suivre)
Non voglio con questo negare, ovviamente, che ci sia un’emergenza planetaria concernente la Terra (e l’Acqua !, per cui già si affinano le armi e si preparano guerre tremende), o che il nostro ecosistema non sia effettivamente in pericolo. Voglio solo inquadrare questa problematica, ricordando che, in forme diverse ma anche simili, esiste da millenni e riaffiora periodicamente in periodi di crisi, trascinando seco un senso di fine di mondo imminente.
Certo, questa potrebbe essere « la volta buona ». Ma come non pensare che questa megalomania omicida che porta l’uomo da sempre a violentare intensamente la Terra (soprattutto in alcune culture, fra cui supremamente la nostra, l’« Occidentale », almeno dalla rivoluzione industriale in poi), passi, almeno in parte, anche nella valutazione dei danni legati alla sua propria attività distruttrice ? Voglio semplicemente dire che le madri devono comunque morire, anche se i figli non le uccidono …
Forse allora non sarebbe male, pur gettandoci con entusiasmo e responsabilità nella battaglia ecologista, aver presente questi diversi limiti. La Terra finirà in ogni modo, a prescindere dal tatto che gli uomini impiegheranno per risparmiarla. E prima ancora, verosimilmente, finiranno gli uomini.
In tal senso, infine, viene dunque anche da chiedersi: l’azione omicida, più o meno efficace, dell’uomo uccide la Terra ? o uccide solamente, appunto, la Terra che è madre per noi uomini ? (magari, ahimé, con alcune innocenti specie di fauna e flora che ci trasciniamo dietro) A volte mi ritrovo a immaginare una Terra finalmente libera di questa rumorosa umanità, come voleva il dio mesopotamico Enlil, in cui scorazzeranno felicemente gli animaluzzi che ci hanno preceduto e che sicuramente ci seguiranno, e che in questo momento proliferano incuranti di inquinamenti vari : gli insetti.
Giuseppe A. Samonà