Mentre le “escargots” francesi sono sempre di moda, le magiche lumache italiane sembrano uscire dalle tavole italiane e relegate solo a qualche ristorante in vena di originalità. Eppure, questo periodo del solstizio d’estate, ricco di leggende e miti è proprio il loro tempo.
La calura è finalmente arrivata. Le notti sono brevi e portatrici di nuovi eventi. Il solstizio d’estate rimanda a tradizioni ed arcaiche leggende. Già nelle antiche credenze popolari di mezza Europa, la notte fra il 23 e il 24 di giugno veniva considerata la più breve dell’anno: con il solstizio d’estate infatti il sole raggiunge il punto più alto dello zodiaco celeste.
Riti e culti fra i più diversi e suggestivi hanno accompagnato questo appuntamento: nel Nord celtico il solstizio era la notte degli incantesimi, delle streghe, dei falò e delle licenze amorose; in Germania nella Notte di Walpurgis antiche dee pagane radunavano i loro seguaci sulla vetta di scure montagne; in Inghilterra fate e folletti ispiravano sogni e fantasie amorose. Anche da noi la notte si rivestiva di riti propiziatori e col Cristianesimo è diventata la Festa di San Giovanni.
E proprio per scongiurare spiacevoli scherzi di spiriti e folletti, la tradizione imponeva di trascorrere la notte nelle vicinanze delle chiese, attorno ai falò, per danzare e banchettare. Ingrediente essenziale di queste cene popolari è stata la lumaca, nelle sue denominazioni più variopinte del dizionario popolare. Dal “ciummache” del Lazio al “lumaghitt” lombardo, al “ciammaruche” lucano (o almeno nell’area del Vulture) alle più generali “chiocciole”, i piccoli molluschi gasteropodi erano già noti e commestibili fin dall’era romana, conosciuti in latino come “Helix pomatia”.
In molte credenze hanno svolto una funzione di buon auspicio. In alcune rappresentavano un simbolo di fertilità e si riteneva che conciliassero le amicizie, gli amori e i legami di “comparatico” (specie al Sud). Assumevano particolari effetti proprio se venivano consumate nel solstizio d’estate. Essendo le loro corna da sempre considerate simbolo di discordia, si riteneva che seppellite nello stomaco ed affogate di buon vino, si cancellavano anche rancori e ruggini. Un tempo anche la medicina ufficiale ne consigliava il consumo: così recitava un antico manuale “efficace medicamento per il fegato ed in caso di esaurimento”.
Al Sud, i contadini tornavano dalla campagna con sacche colme di “ciammaruche” che venivano cucinate in succulenti sughi sui quali campeggiava il peperoncino.
Ora non restano che sbiaditi ricordi di quelle passate civiltà, di quella contadina, alla quale tuttavia tendono solo alcune sparute trattorie locali che cercano di far sopravvivere questa antica tradizione culinaria. E le notti d’estate non potranno che rinverdire, sotto cieli stellati e rimembranze popolari.
Armando Lostaglio