Nicola Chiaromonte: “Il tempo della malafede ed altri scritti”

Esce in ristampa, ad oltre quarantanni dalla sua morte: “Il tempo della malafede ed altri scritti” di Nicola Chiaromonte (1905 – 1972), intellettuale meridionale che nel dopoguerra seppe sfuggire alle strettoie ideologiche di quel periodo. Una libera coscienza critica del tempo discepolo di Caffi, amico di Camus, Hannah Arendt e Malraux. Ebbe a considerare che: “La nostra non è un’epoca di fede, neppure di incredulità. È un’epoca di malafede, di credenze mantenute a forza, in opposizione ad altre e, soprattutto, in mancanza di altre genuine”.chiaromonte-300x280-06bb1.jpg

Il saggista francese Maurice Nadeau e la scrittrice statunitense Mary McCarthy lo consideravano uno degli ultimi “maestri segreti” di tutta una generazione; mentre per Enzo Siciliano fu “un italiano del Sud Italia talvolta persino scontroso come certi lucani possono esserlo, ma appassionato e devoto al proprio pensiero fino a soffrirne, fino ad un rabbioso silenzio di fronte alle altrui velleità.” Così gli intellettuali si esprimevano nei confronti di Nicola Chiaromonte, di cui lo scorso anno ricorrevano i quarant’anni dalla morte. L’auspicio era che tale ricorrenza rappresentasse l’occasione per rileggere sue opere fondamentali come “Credere e non credere” e “Il tarlo della coscienza”, talvolta avvolti dalla polvere del tempo.

E bene ha fatto le Edizioni dell’Asino a pubblicare “Nicola Chiaromonte, Il tempo della malafede e altri scritti” a cura di Vittorio Giacopini (Roma, Pagg.264), per riscoprire il pensiero di un intellettuali che contribuì a “sprovincializzare la cultura politica del Paese”, negli anni immediati al secondo dopoguerra. Dai testi raccolti in quest’opera, emerge nitidamente il suo carattere: una intensa energia oratoria arricchita da aforismi e riflessioni (“ogni fede autentica è incerta come la vita”). Ci mostra come sia possibile riattivare la tradizione culturale, mettendola in contatto con i problemi della vita comune, poiché “la cultura non è il terreno della verità ma della disputa sulla verità; essa appare soltanto nell’esperienza vissuta”. Il testo ricalca ampiamente il pensiero di un intellettuale libero da ogni schema, in un secolo dominato dalla violenza delle ideologie, mediante la storia di chi ha pagato per essersi schierato dalla parte della verità.

“La nostra non è un’epoca di fede, neppure di incredulità – scriveva – E’ un’epoca di malafede, di credenze mantenute a forza, in opposizione ad altre e, soprattutto, in mancanza di altre genuine”.

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Chiaromonte ci offre una quanto mai indispensabile lezione di morale che non può essere ignorata perché, sosteneva, “vivere, pensare, è rischio, o non è niente”.
Nato a Rapolla (in Basilicata) nel 1905, Nicola Chiaromonte si trasferì in tenera età con la famiglia a Roma; poco più che ventenne aderì a Giustizia e Libertà fiancheggiando il gruppo del suo maestro Andrea Caffi, sostenitore di un socialismo proudoniano, libertario, in contrasto con quello dei fratelli Carlo e Nello Rosselli. Perseguitato dal regime, fuggì a Parigi dove frequentò la schiera degli antifascisti italiani in esilio.

Nel 1936 volle andare in Spagna a combattere contro le armate di Franco, affiancando la pattuglia aerea dello scrittore francese André Malraux. Traumatizzato dall’esperienza spagnola, Chiaromonte divenne un antimilitarista convinto. “Dopo l’esperienza che ho fatto in Spagna – scriverà – non mi è possibile vedere la guerra come mezzo utile per risolvere le controversie”. Nel 1941 si trasferì negli Stati Uniti, dove collaborò con le prestigiose riviste avanguardiste “Partisan Review” e “Politics” e si ritrovò negli ambienti letterari frequentati, tra gli altri, da Hannah Arendt, Meyer Shapiro e dalla stessa Mary McCarthy. E grazie pure a questa sua breve parentesi oltreoceano che Chiaromonte, una volta definitivamente rimpatriato, nel 1947, si andò affermando come quel maestro che “ha insegnato a scrivere ad almeno due generazioni d’intellettuali”.

È forte il legame con Albert Camus, conosciuto in Africa nel 1940, e alla cui opera dedicò un saggio. Propugnatore del socialismo libertario che contrappose alle spinte anarchiche e trotzkyste della rivista di McDonald, ebbe legami d’amicizia anche con George Orwell, e collaborò al settimanale italiano a New York, Italia libera con Gaetano Salvemini. Chiaromonte veniva letto ed apprezzato pure in Inghilterra, dal pensatore anarchico Colin Ward.

Lavorò quindi al “Mondo” di Pannunzio come critico teatrale, l’evento scenico era in lui solo un pretesto per acute osservazioni filosofiche e valutazioni politiche. Riteneva che “il teatro assomiglia più alla vita, rispetto alla letteratura: in esso conta quello che si fa non quello che si dice”. Ma tutto il percorso intellettuale di Nicola Chiaromonte è particolarmente rinsaldato all’esperienza di “Tempo presente » nel quale manifestò il suo indignato anticomunismo, mantenendosi su una posizione di sinistra utopica. Gli americani, a cominciare da Mary McCarthy (che lo inserì in un romanzo), lo consideravano un po’ impropriamente un anarchico: troppo vago per un libertario inquieto che, a fronte delle rivolte giovanili, medita su una politica quale « arte della convivenza tra gli esseri umani”.

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Una utopia, ovviamente che serve da pietra di paragone con le follie trascorse o in atto. La figura di Chiaromonte ha affascinato gran parte dei fondatori di Solidarnosc: l’intellettuale polacco Wojciech Karpinski gli dedicò un saggio nell’anno della sua morte. Fu un “Socrate involontario” secondo il critico Mauri, ispirato da sentimenti assoluti, strenuo assertore del principio di responsabilità. Molti dei suoi scritti saranno pubblicati dopo la sua morte, mentre presso l’università di Yale (negli U.S.A.) rimane ancora inedito il suo prezioso epistolario.

Chiaromonte morì a Roma il 18 gennaio del 1972, colpito da un improvviso infarto mentre era nella sede Rai di via Mazzini, poco prima che si apprestasse a registrare un programma radiofonico.

Forse la sua opera più importante rimane “Credere non credere”, una raccolta di saggi su Tolstoj, Stendhal, Malraux che uscì per Bompiani nel 1971.

Armando Lostaglio

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Armando Lostaglio
ARMANDO LOSTAGLIO iscritto all'Ordine dei Giornalisti di Basilicata; fondatore del CineClub Vittorio De Sica - Cinit di Rionero in Vulture nel 1994 con oltre 150 iscritti; promotore di altri cinecircoli Cinit, e di mostre di cinema per scuole, carceri, centri anziani; autore di testi di cinema: Sequenze (La Nuova del Sud, 2006); Schermi Riflessi (EditricErmes, 2011); autore dei docufilm: Albe dentro l'imbrunire (2012); Il genio contro - Guy Debord e il cinema nell'avangardia (2013); La strada meno battura - a cavallo sulla Via Herculia (2014); Il cinema e il Blues (2016); Il cinema e il brigantaggio (2017). Collaboratore di riviste e giornali: La Nuova del Sud, e web Altritaliani (Parigi), Cabiria, Francavillainforma; Tg7 Basilicata.