Nati sotto Saturno : Dai Di-Versi ai Multi-Versi

Il 2010 è l’Anno Europeo contro la povertà e l’esclusione sociale. Nell’inaugurare l’Anno europeo, il presidente della Commissione dell’Unione Europea José Barroso, tra le altre cose, ha dichiarato che esso dovrebbe fungere da catalizzatore, promuovendo una maggiore consapevolezza e un’accelerazione verso una società più inclusiva. L’Unione Europea ritiene che la forza dell’Europa risieda nel potenziale dei singoli individui.

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Mi risuona, allora, anacronistico il parlare a tutto oggi – come ho sentito fare ultimamente da parte di qualcuno – dell’organizzazione di classi e/o scuole speciali per alunni con disabilità, disagi psicologici, relazionali e familiari, per alunni stranieri. Ho l’impressione di tornare ad un ‘tempo’ in cui, ora, si separavano i ricchi e i poveri, ora, i maschi e le femmine, ora, i bianchi e i neri; un ‘tempo’ in cui le commissioni medico-psico-pedagogiche – con le loro decisioni – avallavano una concezione della diversità come malattia sociale, considerando il soggetto esclusivamente per eventuali sue difficoltà e non per le sue risorse, nella sua totalità. Certificazioni mediche e teorie pseudo-scientifiche e pedagogiche servivano come lasciapassare verso strutture speciali, scuole separate ed omogenee, reputate garanzia di un’opportunità migliore per ‘altri’ alunni. Una scuola che, anziché integrare, finiva per separare, in nome di un “bene”, di qualcosa valutato come desiderabile, da un lato, per gli alunni in difficoltà, dall’altro, per il resto della classe, il cui rendimento – secondo una tale convinzione – sarebbe stato compromesso dalla presenza dei supposti elementi di disturbo.

Da sempre e ovunque, con questa motivazione, motivazione del perseguimento del “bene” di qualcuno, tutti i “figli di Saturno” – ciechi, sordomuti, disabili, anziani, orfani, indigenti, carcerati, prigionieri di guerra, malati di mente e così via enumerando – sono stati divorati appena nati. Crono, per loro, ha smesso di scorrere.

La psichiatra Alice Ricciardi von Platen (ha assistito al noto processo di Norimberga), nel libro Il nazismo e l’eutanasia dei malati di mente, ha illustrato che, durante il nazionalsocialismo, si propagandava l’uccisione dei “minorati” (comprendendo con questo termine vago gli idioti, i malati di mente, i portatori di handicap e i malati in generale) come una forma di pietà nei loro confronti e per i loro familiari, come una forma di sollievo per questi soggetti, come liberazione da un peso per la società e lo Stato. Tutte le istituzioni erano impegnate a convincere che il peso sostenuto per assistere i minorati era insopportabile e danneggiava la vita della popolazione sana.

Con Alice Ricciardi von Platen, mi chiedo a quale pietà facevano riferimento, se mai, anche per un solo istante, questi spietati abbiano provato o abbiano immaginato le sofferenze che si disponevano a perpetrare?!

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In termini lacaniani, possiamo presumere che Saturno, non essendo stato «paternato» simbolicamente, non avendo potuto incorporare egli stesso – da bambino – i significanti e primo fra tutti la voce paterna – ponte che assicura all’individuo la sicurezza del prima nel dopo la nascita –, confrontandosi con la paternità, non sia riuscito ad assumere la funzione di padre. Non accettando il rischio di essere detronizzato da questi suoi discendenti, non li ha presi sulle sue ginocchia per riconoscerli come figli e come soggetti di desiderio, capaci di stare in piedi sulle proprie gambe, di scegliere il momento giusto per le proprie azioni, di superare gli ostacoli e resistere alle circostanze difficili.

Spogliandoli dei loro ruoli abituali e da quelli possibili, li ha fatti inglobare, il più delle volte, dalle “istituzioni totali”, intese nell’accezione del sociologo Goffman: luoghi, spazi chiusi, in cui gli individui sono segregati, allontanati ed esclusi dal resto della società per un significativo periodo di tempo, durante il quale lo status di persona istituzionalizzata è di fatto imposto.
[[Goffman (1961) individua quali istituzioni totali anche le istituzioni create per svolgere in un luogo concentrato alcune attività (caserme, navi, collegi, campi di lavoro, piantagioni coloniali) o in cui ci si isola volontariamente dal mondo (abbazie, monasteri, conventi, chiostri).]]
L’istituzione totale, a parere di Goffman, è una forma estrema di alienazione: unifica in un medesimo luogo e sotto un’unica autorità tutte quelle attività quotidiane che, generalmente, ciascuno compie in luoghi diversi sotto differenti autorità; ogni fase delle attività giornaliere si svolge a stretto contatto di un enorme gruppo di persone, trattate tutte allo stesso modo e tutte obbligate a fare le medesime cose secondo un ritmo prestabilito e secondo un unico piano razionale, appositamente designato al fine di adempiere allo scopo ufficiale dell’istituzione.

Questi luoghi si comportano come mascelle divoranti, vagine incastranti, uteri fagocitanti, all’interno dei quali “i figli di Saturno” possono solo allucinare la loro nascita.

Franco Basaglia, relativamente al manicomio – quale istituzione totale, quale luogo di perdita del proprio sé, della libertà individuale, del mondo privato –, scriveva che un malato di mente entra in esso come ‘persona” per diventare una ‘cosa”, in quanto questo spazio, «originariamente nato per renderlo inoffensivo ed insieme curarlo, appare in pratica come un luogo paradossalmente costruito per il completo annientamento della sua individualità, come luogo della sua totale oggettivazione».

Nel 1700, Pinel liberò i suoi pazienti da catene e prigioni, dall’etichetta di delinquenti, ma occorre aspettare la seconda metà del 1900 perché si inizi a pensare e a fare qualcosa per migliorare la gestione e la custodia dei malati mentali, per ridare loro dignità in quanto persone.

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Molti documentari e lungometraggi (es. “Il corridoio della paura” e “Qualcuno volò sul nido del cuculo”) hanno messo in evidenza che quelle che sono state definite, per lungo tempo, terapie (elettroshock, camicia di forza, bagno freddo, lobotomia, insulinoterapia, isolamento) non erano altro che mezzi di punizione e di sedazione per i pazienti giudicati indomabili. Sul corpo e nella mente di tutti gli ex-internati si riconoscono i segni di catene, lucchetti e serrature, di recinzioni, di denudamenti forzati sotto gli occhi di tutti, di prepotenze e limitazioni, di un confine accorciato tra il fisico e l’emotivo, l’interno e l’esterno in una contenzione totale e totalizzante, che impedisce loro di attraversare la soglia e li spinge a ripetere il tentativo all’infinito, come se fosse una di quelle stereotipie a cui sono abituati.

Non dobbiamo dimenticare che il compito delle istituzioni psichiatriche era, prima di ogni altra cosa, di segregare e la loro finalità non era terapeutica quanto repressiva. Le istituzioni psichiatriche sono nate come difesa collettiva dalla follia, dal momento che, in ogni epoca storica e nei tanti contesti culturali occidentali, il malato di mente, quale epifenomeno di tutto ciò che è imprevedibile e incontrollabile, è stato allontanato dalla società civile per permettere il superamento dell’angoscia che si manifestava in seno alla comunità stessa. Se il folle era chiunque, apparso fino a un certo momento come amico-proprio, si palesava fuori e contro la normatività della comunicazione consensuale, accadeva che scattava un meccanismo sociale di esclusione nei confronti di forme di disagio, di emarginazione, di diversità, di comportamenti bizzarri sebbene inoffensivi, ma difformi dalla convenzionale normalità sociale.

Cos’è la normalità? È, forse, una malattia condivisa, uno standard arbitrario, basato su immagini sociali false, non rispondenti alla vera realtà dell’individuo, come avrebbe teorizzato Burrow? Per quest’ultimo, l’interesse, il sentimento, il gesto spontaneo del bambino verso l’oggetto vengono improvvisamente arrestati se non corrispondono a un codice di comportamento che esiste nella società e che viene trasmesso dalla famiglia, rappresentata dalla madre.

Come Basaglia ha sostenuto, l’esclusione del malato mentale è voluta da un sistema ideologico convinto di poter negare e annullare le proprie contraddizioni, allontanandole da sé ed emarginandole, mentre la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare sia la ragione sia la follia. Il problema è, a parere della von Platen, che l’uomo moderno, diversamente da quello primitivo, non ha il coraggio di affrontare le realtà orribili, preferisce evitarle o negarle. Seguendo il pensiero junghiano, teniamo presente che per gli esseri umani è difficile confrontarsi con l’Ombra, con i loro limiti, con la parte oscura dell’intera collettività e della vita, per questo tentano di eliminarla, perdendo di vista l’occasione che la consapevolezza di essa offre affinché incontrino autenticamente se stessi.

Nel testo di Alice Ricciardi von Platen, leggiamo che «proprio i malati di mente con il loro mondo di visioni e di immagini interiori ci proiettano al centro della problematica relativa alla vita umana».

Con Basaglia e la legge 180 del 1978 “Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori” – che porta il suo nome –, il cosiddetto malato di mente non è più né portatore del messaggio del male – secondo antiche credenze religiose e/o magiche – né un semplice insieme di sedi anatomiche, all’interno di ciascuna delle quali individuare una specifica patologia, bensì viene visto come una persona, una persona con tutte le sue necessità. È una persona che ha bisogno non solo di trattamenti per la sua malattia, ma anche di un rapporto umano con chi lo cura, di risposte reali per il suo essere, di denaro, di una famiglia e di tutto ciò di cui anche i medici che lo curano hanno bisogno.

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L’opera di Basaglia ha fatto sì che i malati mentali, da sempre identificati esclusivamente con la loro malattia e senza un riconoscimento della dignità umana, acquisissero lo status di cittadini da tutelare al pari di tutti gli altri. Questo si è tradotto, sul piano pratico, in una serie di iniziative a partire dall’avvio di una trasformazione all’interno dell’ospedale psichiatrico, istituendo laboratori di pittura e di teatro e favorendo la nascita di una cooperativa di lavoro per i pazienti, che cominciano a svolgere lavori riconosciuti e retribuiti.

Basaglia ha patrocinato la chiusura del manicomio per costruire al suo posto una rete di servizi esterni, in grado di provvedere all’assistenza della persone affette da disturbi mentali e, sulla scia di Maxwell Jones, ha proposto un approccio comunitario al trattamento di queste. La premessa da cui è partito Jones è che il paziente possiede un potenziale terapeutico, che può essere sviluppato sia a vantaggio proprio sia degli altri pazienti e, che, benché sia oggetto terapeutico, la comunità lo trasforma in soggetto curante. Allora, benché la comunità terapeutica possa avere i caratteri di un’istituzione ‘totale’ – come qualcuno ha fatto notare –, avrebbe, al contrario, il vantaggio di offrire una struttura orizzontale, nella quale staff e pazienti sono egualmente messi di fronte al comportamento problematico della persona che lo sta esprimendo, mutando, in questa maniera, i reciproci stereotipi ostili, i vissuti che hanno caratterizzato ciascuna categoria durante il periodo storico dell’internamento – senso di superiorità nel personale infermieristico, senso di inferiorità e di colpa nei pazienti –. I pazienti partecipano al lavoro e alle attività della comunità, contribuendo alle decisioni che li riguardano.

Grazie a Basaglia, si è prodotto un passaggio dal tempo cronico alla ristoricizzazione, dall’esilio alla territorializzazione, dalla massa indifferenziata al gruppo. Quest’ultimo può svolgere funzione di diaframma tra le norme della collettività e l’elaborazione che il singolo può realizzare nella sua vita quotidiana, così da iniziare un cammino verso il cambiamento, verso un aumento di spazio libero di movimento, abbattendo i muri interni ed esterni, aprendo porte interne ed esterne.

Una legge è un punto di partenza, però, probabilmente non basta per contrastare le violenze fisiche e verbali consumate nei confronti di chi è foriero dell’ignoto, del misterioso, dell’imponderabile, del non ordinario (per caratteristiche personali, etniche e razziali, sessuali, comportamentali e psicologiche, fisiche, genetiche) non solo per le difficoltà burocratiche ed economiche in cui può incappare nella sua attuazione – come è avvenuto per la legge 180 –, ma per la mera parvenza di civiltà che si limita a dare se non si rinnova la visione del mondo, intesa non tanto e non solo come punto di vista del singolo rispetto a determinate questioni – come possono essere la malattia, la sanità, la normalità, la devianza – e conseguente discrezione ad agire, bensì come prospettiva di un’epoca, di una collettività, da cui dipende la possibilità di trasformarsi e di trasformare.

Pur offrendo opportunità di muoversi liberamente, di lavorare, di essere seguiti da un équipe terapeutica, Basaglia, affidando i pazienti alle famiglie, al territorio, agli operatori nelle strutture venutesi a creare, ha sottovalutato l’urgenza di una formazione di entrambi i poli della relazione.

Essere dimessi è come tornare da un espatrio “forzato” attraversando una dogana il cui dazio è ed è stato molto elevato per chi rientra, ma anche per chi è restato ed ha continuato la sua vita e perfino per chi ha svolto l’incarico di espulsore, di traghettatore, di assistente di ‘viaggio’, di custode della e nella reclusione.

Mi vengono in mente Totò in “Letto a tre piazze” ed Eduardo De Filippo in “Napoli milionaria”, i quali, finita la guerra, tornano a casa e trovano tutto cambiato: il primo trova la moglie sposata con un altro; il secondo trova la famiglia ricca, un figlio imbroglione, una figlia incinta e un’altra molto ammalata. Antonio – interpretato da Totò – cerca di imporre la sua presenza, reclamando il vecchio status di marito; Gennaro – interpretato da Eduardo De Filippo –, trattato come un estraneo dai familiari e dai vicini di casa, avverte l’esigenza di raccontare le sue traversie, imbattendosi in persone non disposte ad ascoltarlo e che gli ripetono che è tutto passato, di dimenticare.

Basaglia non ha tenuto conto del processo di “disculturazione” – come lo ha chiamato Goffman – a cui è andato incontro chi è stato ricoverato per anni: essendo stato espropriato di certe possibilità di comportamento, del ruolo sociale e non essendo stato al passo con gli ultimi mutamenti sociali avvenuti nel mondo esterno, non è in grado di maneggiare alcune situazioni tipiche della vita quotidiana di questo, quando vi fa ritorno.

Al tempo stesso, se è fondamentale vivere accanto e dentro la propria famiglia, i pazienti si sono ritrovati con famiglie non tutte e non sempre preparate ad accudirli e a rapportarsi con loro rifacendosi a modelli relazionali affettivamente significativi e, in qualche modo, curativi e riabilitativi, non più stigmatizzanti e discriminatori.

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La gruppoanalisi ci ha insegnato che il paziente è il portavoce di conflitti e problemi che investono tutto il suo gruppo di appartenenza a cominciare da quello primario familiare e ne è anche il capro espiatorio. È l’espressione di meccanismi di scissione ed identificazione proiettiva gruppale, per cui il gruppo divide gli aspetti sani da quelli disturbati e, per difendersi, deposita i secondi in uno dei suoi membri. Per questa ragione, il gruppo di cui l’individuo fa parte, su un versante, può contribuire alla risoluzione della psicopatologia, su un altro, può concorrere alla sua comparsa e alla sua conservazione, mostrando un forte attrito a qualsiasi suo cambiamento, su un altro, per di più, può evolversi insieme con l’individuo (che migliora) o può assistere al sopraggiungere di un’affezione di uno di fronte alla ripresa dell’altro.

Inoltre, accade ed è accaduto che le strutture preposte all’accoglienza degli utenti psichiatrici (centri diurni, Centri di Salute Mentale, case famiglia, comunità terapeutiche, reparti ospedalieri, e così via), sorte a seguito della chiusura degli Ospedali Psichiatrici per compiere un lavoro di transizione, non raramente mantengono ed hanno mantenuto una mentalità e un operare di tipo manicomiale, con il reclutamento, sì, di nuovi operatori più adeguatamente formati, nondimeno con un travaso di quelli precedentemente impiegati. Mi riferisco sia ai medicamenti e al modo in cui vengono somministrati sia alle modalità con cui il personale – angosciato da un possibile contagio del disturbo psichico e del suo riflesso sociale – entra in contatto con questi pazienti, sovente, cosificandoli: chiamandoli per cognome, alzando la voce – anche quando sono vicini – per imporre loro una certa condotta come se non fossero in grado di sentire, parlando di loro con altri in presenza di questi come se non ci fossero.

Cambia il luogo, eppure si perpetuano il marchio di “malato mentale”, la necessità di tenerlo a bada, di confinarlo, la disposizione ad utilizzare il verbo “essere” per un individuo affetto da una malattia psichica e il verbo “avere” per uno colpito da una malattia organica, la tendenza colpevolizzare al primo – ritenuto colpevole del suo stato – e verso il quale nutrire vergogna e ad avere compassione per il secondo – considerato vittima di un destino infausto –.

La psicoanalisi ha permesso di non pensare più ai disturbi psichici come a qualcosa solo di biologico e di slegato dal malato, piuttosto come espressione del suo mondo interiore, riducendo la distinzione tra sani e malati. La gruppoanalisi, prima con Burrow poi con Foulkes, ha assegnato ai processi transgenerazionali e transpersonali un ruolo primario nell’insorgenza del conflitto e della psicopatologia. Concordo con Foulkes che asserisce che un disturbo psicologico va localizzato nell’interazione tra persone e che, pure quando il disturbo viene scoperto in un individuo – ed ha una base organica o profonde radici nel mondo interno di questo che risalgono all’infanzia –, il gruppo è interessato da tale disturbo e deve dare una risposta al problema sollevato. Questi pazienti vanno aiutati a riconquistare la partecipazione e la condivisione al tessuto reticolare di cui fanno parte.

Il passo dai pregiudizi, dalla ghettizzazione, dalle sopraffazioni all’eliminazione dei multi-versi che la vita degli esseri umani può seguire e prendere sul piano economico, etnico, religioso, politico, sessuale, identitario, psichico, cognitivo, genetico ed organico è breve, pur di difendere il “buon vivere sociale”. L’applicazione di interventi “ortopedici” per correggere difetti reali o presunte mancanze rischia di diventare ammissibile, pur di rincorrere il tipo – individuale e collettivo – ideale, per dare nuove forme più foggiabili e foggiate in dipendenza di uno stampo comune, cosicché, richiamando il titolo di un recentissimo film di Ozpetek, non siano più “mine vaganti”.
Voglio concludere, ricordando ancora una volta Alice Ricciardi von Platen, la quale, a proposito della concezione nazionalsocialista per la quale bisognava liberare i malati di mente dalla loro vita priva di valore, ha scritto: «Modificare questa concezione dei malati di mente e più in generale dei malati (dei multiversi) sarà un lavoro di generazioni, un compito che solo una diversa considerazione dell’uomo potrà realizzare» . [[Il corsivo è mio]]

Io… mi domando «Quante generazioni ci vorranno ancora?»

Felicia Tafuri

Illustrazioni: sculture di Franz Xaver Messerschmidt

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