Omaggio a Maria Giacobbe

Una scrittrice “sarda” emigrata in Danimarca ma anche una scrittrice “danese… nata in Sardegna”. Apprendiamo oggi con dispiacere la morte a Copenhagen all’età di 95 anni della scrittrice nuorese Maria Giacobbe. Aveva al suo attivo una ventina di volumi, racconti, romanzi, memorie e anche antologie di poesie. La sua prima opera, Diario di una maestrina del 1957, è stata tradotta in numerose lingue e vinse il Premio Viareggio-Opera. Ricorda la sindaca di Fonni: “Negli anni ’50 Maria Giacobbe insegnò alle bambine della Barbagia a essere libere in un mondo che le considerava inferiori”. Vi riproponiamo un’intervista Altritaliani, fattale nel 2010 da Giusy Porru, preceduta da un’introduzione di Giuseppe A. Samonà.

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Mi sono innamorato della scrittrice Maria Giacobbe senza averla mai letta (ma non tarderò a farlo, ora) semplicemente “incontrandola” attraverso la bella intervista fattale da Giusy Porru, che inseriamo volentieri qui di seguito, e poi curiosando con un pizzico d’astuzia nel suo curriculum vitae : e la curiosità, appunto, si è accesa, con la sensazione che forse, probabilmente, avevo a che fare a uno dei tanti talenti «non abbastanza conosciuti» che la Sardegna ha prodotto.
Perché un po’ conosco, e molto amo, la letteratura “sarda” (nel senso della letteratura italiana fatta da scrittori nativi della Sardegna — in questo senso, le virgolette sono altrettanto importanti dell’aggettivo : se non si possono non constatare alcune linee comuni, forgiate dentro e dalla storia della Sardegna, in Sardegna, della maggior parte degli scrittori nati e cresciuti nell’isola, non credo – per usare le parole di Maria Giacobbe – a una “standardizzata sardità impermeabile ai tempi e ai luoghi”).

Ad essa appartiene Salvatore Satta, non meno grande di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, ma di lui certo meno famoso : anche se tradotto qui in Francia, ad esempio, quanti di quelli che hanno letto Il Gattopardo hanno letto il diversamente ma non meno potente Il giorno del giudizio ? (Piccola conferma, nel “Petit Robert”: Tomasi di Lampedusa: 12 righe; Satta:… 0!)

Ad essa appartiene anche Sergio Atzeni che ho scoperto qualche anno fa (prima ancora di Satta, anzi è lui che mi ha “aperto gli occhi” sulla Sardegna) e che ritengo uno degli scrittori più limpidi e originali della letteratura italiana degli ultimi decenni, ben più importante – secondo me – di tanti nomi famosi oggi alla moda. Di nuovo, chi lo conosce al di fuori dell’Italia ? (ma ahimé anche in Italia). Qui in Francia, addirittura, il suo capolavoro Passavamo sulla terra leggeri non è tradotto finora (sì, queste righe sono anche una pubblicità, meglio, un invito…).

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Per tornare a Maria Giacobbe, dalla intervista, come dal suo cv, emerge la stessa sobrietà mediatica, un’analoga originalità – oltre alla caratteristica principe di tanti isolani emigrati : la capacità di disterrarsi (mischio liberamente il sardo con il siciliano) creativamente, portando dentro le proprie radici, la memoria, per trapiantarle altrove, verso il futuro, e soprattutto nel presente, fecondandosi, fecondando le altre culture, profondamente europei, o più in generale transnazionali, transculturali, prima che sardi, siciliani o italiani. Pensando a immagini a me care, mi verrebbe da dire che al modello di Odisseo si sovrappone, rivelandosi più forte, quello di Robinson Crusoe.
(p.s. Passeggiando fra biblioteche e librerie, a Parigi, scopro un altro punto comune con i due scrittori sopra citati: dei venti e più titoli di Maria Giacobbe, in Francia è stato tradotto solo Diario di una maestrina – con il titolo à mon goût un po’ « attira-folclore » di Institutrice en Sardaigne -, nei primi anni 60, poi più nulla!)

Dal nostro punto di vista, insomma, o quantomeno, dal mio, Maria Giacobbe ci appare l’«Altritaliana» per eccellenza : e anzi, ci fa sentire persino i limiti di quest’etichetta, in quanto univoca identità, ghetto, a meno che non la si interpreti appunto come un invito a non irrigidirsi dentro una identità, a discapito delle molte altre che ci definiscono, e ci aprono al mondo.

Il suo lungo itinerario è in questo senso emblematico e di per sé poeticamento eversivo, in questi tempi di ottusi risorgimenti nazionalistici , e ci porta da Mario Pannunzio, con cui Maria Giacobbe a collaborato nei lontani anni cinquanta, alla Danimarca, in cui è emigrata alla fine di quegli stessi anni, ma anche, materialmente o almeno idealmente, in Nicaragua, nel Vicino Oriente, in Cecenia, protagonista di molte battaglie sociali e civili, di pace.

Del resto, basterebbe forse solo segnalare, artisticamente, che questa italiana “sarda” emigrata in Danimarca è anche una “danese … nata in Sardegna” : e ha scritto e scrive, riconosciuta, in entrambe le lingue. What more is there to say ?…

… Forse che traspira, dall’intervista che pubblichiamo, una simpatia contagiosa. E che, personalmente, non vedo l’ora di poterla conoscere dal vivo, previa ovviamente, la lettura dei suoi libri.

Giuseppe A. Samonà


Intervista a Maria Giacobbe

Al suo attivo una ventina di volumi, racconti, romanzi e memorie. Come lei stessa tiene a precisare: i suoi libri sono stati concepiti e scritti in italiano. Nella sua opera ci sono anche quattro raccolte di poesie scritte in danese e inedite in Italia, un volume di saggi in gran parte scritti in danese, appositamente tradotti dall’italiano per un editore danese, e due antologie bilingui di “Poesia moderna danese”.

Domanda- 50 anni e più di attività con numerosi articoli e saggi pubblicati in diverse lingue e paesi ma prevalentemente in Italia; ci parli dei suoi primi anni all’estero come è riuscita a immegersi nel suo lavoro in un paese completamente diverso e nuovo.

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Maria Giacobbe- Quando nel 1958 mi trasferii in Danimarca, ero in Italia quella che si potrebbe definire « una giovane scrittrice di successo »: il mio primo libro (Diario d’una maestrina) aveva già avuto il prestigioso Premio Viareggio Opera Prima e la Palma d’Oro del’Unione Donne Italiane. Se ne era scritto e parlato molto in Italia e all’estero, già erano in cantiere le prime traduzioni (in francese, spagnolo, catalano, tedesco, russo, cinese, finlandese, etc.) e i miei articoli sul periodico « Il Mondo », diretto da Mario Pannunzio, venivano pubblicati con grande rilievo e spesso venivano riportati e commentati su altri giornali e riviste anche all’estero.

Il mio trasferimento in DK perciò non passò inosservato: ci furono interviste alla radio e sui maggiori quotidiani ai quali subito fui invitata a collaborare. Cosa che feci, naturalmente con l’aiuto di un traduttore.

D- Quanto e in che misura le sue esperienze all’estero hanno influito nei suoi scritti?

Maria G.- Se le viviamo con coraggio e consapevolezza, tutte le esperienze di vita ci fanno crescere e ci maturano. Quelle all’estero (se le viviamo limpidamente e senza lasciarci accecare dalla nostalgia) amplificano la nostra visuale e rendono più profonda e precisa la nostra prospettiva anche sul nostro paese di provenienza. Tutto questo ha naturalmente avuto i suoi riflessi nella mia opera.

D- Le maggiori difficoltà che ha incontrato?

Maria G.- Usai il primo anno in DK per continuare il mio lavoro di pubblicista in Italia, in Danimarca e in Svizzera, e per scrivere il mio secondo libro (« Piccole Cronache ») che venne, come il primo, stampato in Italia dall’editore Laterza e, più tardi, come mano mano tutti i miei libri, anche in traduzione danese in Danimarca.

Contemporaneamente cominciai a leggere (con l’aiuto del dizionario) i giornali danesi e, piano piano, anche poesie e romanzi moderni in questa lingua.

Delle poesie – per poterne meglio penetrare il significato – mi facevo delle traduzioni scritte.
Traduzioni che qualche anno più tardi furono il primo nucleo dell’antologia bilingue « Poesia moderna danese/Moderne dansk poesi » (650 pagg.) pubblicata nelle Edizioni di Comunità di Adriano Olivetti. Qualche anno più tardi, su richiesta dell’Editore Einaudi, insieme allo scrittore danese Uffe Harder curai l’antologia, pure bilingue, « Giovani Poeti Danesi » (325 pagg.).

La mia conoscenza profonda e diretta del linguaggio poetico danese mi permise, dal 1976 in poi, di scrivere e pubblicare in danese le mie poesie e perciò di essere considerata dalla critica e dal pubblico « una scrittrice danese… nata in Sardegna ».

D- Tra i suoi recenti premi ha ricevuto anche la “Navicella d’argento” istituita dal comune di Castelsardo per segnalare “i sardi che si son fatti onore e hanno dato lustro alla Sardegna nel Mondo”. Un giusto riconoscimento che ci ricorda la sua lunga lontananza dalla terra natale come “emigrata”. Quanto è stato difficile?

Maria G.- Come sanno bene tutti quelli che lo hanno provato (e ora nel mondo siamo miliardi!), l’espatrio (disterru, in sardo) non è mai un processo facile. E’ un processo difficile, ogni tanto drammatico, e sempre faticoso e pericoloso.

Qualche volta mi è capitato di paragonarlo al trapianto di un albero: l’albero da trapiantare deve portare con sé le sue radici – senza di quelle sarebbe un fusto destinato ben presto a seccarsi – ma deve subito fare del suo meglio per adattarsi alla nuova terra, cercandovi un humus che, senza far marcire le vecchie radici, possa farne spuntare di nuove e vitali.
In altre parole: secondo me, bisogna conservare le memorie e farne tesoro, ma bisogna anche bandire le nostalgie che spesso falsano il passato creandovi paradisi che non sono mai esistiti, che hanno l’effetto nefasto di far disprezzare il presente, di impedire alla « nuova terra » di nutrire le nuove radici che sono necessarie all’albero per vivere, mettere foglie e fruttificare.

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D- Alcuni libri di successo come “Il diario di una maestrina” (tradotto in francese negli anni 60), “ Maschere e angeli nudi”, “Il mare” e “Arcipelaghi” sono ambientati nel suo paese natio. Ho appena finito di leggere “Chiamalo pure amore” dove pensavo di ritrovare ancora la mia amata Sardegna e invece ritrovo me stessa….

Maria G.- Infatti… l’essere « sarde » non può farci meno europee e meno « donne ». E in questo libro mi premeva di provare a descrivere alcune delle diverse condizioni dell’essere donna nell’ Europa del XX secolo, e non di mitizzare su una supposta standardizzata sardità impermeabile ai tempi e ai luoghi.

D- Nella vita si possono fare degli errori e mi perdoni l’inevitabile domanda: Ha qualche rimpianto?

Maria G.- Forse sarebbe più giusto dire che « tutto ha il suo prezzo » e che io, abitando all’estero, ho pagato il prezzo di non aver abbastanza curato il mondo editoriale italiano dal quale mano mano inevitabilmente mi sono allontanata e che mi rappresentava all’estero meglio di quello (piccolo) danese.

Dopo la morte dolorosa e prematura di Mario Pannunzio e la chiusura di « Il Mondo », mi è mancato l’ottimo canale che negli anni aveva continuato a tenermi in contatto con i lettori italiani, senza che io mi curassi di crearmene altri, anche perché mi ero concentrata sulla necessità di coltivare la mia nuova radice danese.

Di questa radice facevano parte i due figli nati rispettivamente nel dicembre del ’59 e nel febbraio del ’64, e dei quali mi sono sempre occupata personalmente e da sola.

Non mi « pento » di nulla, ho fatto sempre e spesso con sacrificio, ciò che le circostanze mi chiedevano di fare, l’ho fatto onestamente e meglio che potessi senza mai esitare a varcare le porte aperte. L’accoglienza dei miei libri in questo paese (dove ho ricevuto i massimi riconoscimenti letterari) è stata sempre ottima, e la mia voce è stata ascoltata e anche sollecitata ogni volta che « la difesa del diverso » sia stata necessaria. In certi periodi di crisi purtroppo piuttosto spesso.

Ho avuto e ho quindi le mie soddisfazioni professionali e personali, ma – per tornare al proverbio – « tutto ha il suo prezzo ».

D- Lei è riconosciuta per il suo costante impegno sociale e civile, e segue molto da vicino la politica attuale in Italia, cosa ne pensa?

Maria G.- Come noi tutti italiani all’estero, che da lontano vedono meglio (anche perché si hanno maggiori possibilità di confronto) e si vede anche con molto dolore quanto gli italiani nel corso della storia abbiano chinato la testa di fronte alle disonestà e alle ingiustizie liberticide, talvolta quasi allegramente scegliendosi i vari Mussolini o Berlusconi come ikone da osannare.

Si ha il dovere di continuare a sperare e FARE quanto si può (poco o molto che sia) per evitare la resa totale e affrettare la rinascita.

D- Il suo ultimo lavoro?

Maria G- Ho appena terminato un racconto per un libro collettivo su Cagliari (che sarà pubblicato in italiano e in inglese) e l’ho intitolato « A Cagliari con Glenn Mill ». Ne sono piuttosto contenta e mi dispiace che i tempi di pubblicazione in Italia siano sempre così lenti.

Intervista di Giusy Porru

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Giuseppe A. Samonà
Giuseppe A. Samonà, dottorato in storia delle religioni, ha pubblicato studi sul Vicino Oriente antico e sull’America indiana al tempo della Conquista. 'Quelle cose scomparse, parole' (Ilisso, 2004, con postfazione di Filippo La Porta) è la sua prima opera di narrativa. Fa parte de 'La terra della prosa', antologia di narratori italiani degli anni Zero a cura di Andrea Cortellessa (L’Orma 2014). 'I fannulloni nella valle fertile', di Albert Cossery, è la sua ultima traduzione dal francese (Einaudi 2016, con un saggio introduttivo). È stato cofondatore di Altritaliani, ed è codirettore della rivista transculturale 'ViceVersa'. Ha vissuto e insegnato a Roma, New York, Montréal e Parigi, dove vive e insegna attualmente. Non ha mai vissuto a Buenos Aires, né a Montevideo – ma sogna un giorno di poterlo fare.