Dal bazar al centro commerciale, dal barbiere all’hamam: luoghi di aggregazione e luoghi di disgregazione sociale nelle città del XXI secolo,
confrontandoci con l’esempio della Turchia, un paese in crescita economica. Il “mediorientale” oggi è di tendenza ma per chi crede che il XXI secolo segni la fine della socializzazione cosi come intesa in secoli di storia ci sono delle sorprese.
A dispetto di quanto mostrato sul grande schermo nel recentissimo sequel americano di 007, l’anima della città turca non è liquidabile unicamente nella presentazione di un caotico bazar pluricromatico stracolmo di oggetti e di vite umane. Nonostante ciò, resta innegabile il riconoscimento al mercato di una funzione esemplare di antenato, – rispetto al moderno centro commerciale-, di luogo di incontro e di scambio, di circolazione di informazioni e di modelli, di trasferimento di soldi e di implementazione di affari. E per tali motivi uno scenario confuso, una babele in miniatura, adatta a tutti i tipi di contrattazioni.
Consapevole di quanto risulti alla moda oggi parlare di atmosfere mediorientali e del potere di convocazione che questa parte di mondo esercita sul pubblico occidentale, affascinato da ritmi e leggende dal sapore delle Mille e una notte
[[Invito all’approfondimento sul successo, per citare un solo esempio, che la fiction turca sta riscuotendo in ambiente orientale (ma anche greco e b alcanico), grazie alla vicinanza dei modelli familiari e sociali proposti al pubblico. Tale potere di attrazione pare riesca a superare anche i forti attriti politici internazionali esistenti tra la Turchia e i Paesi che importano i materiali filmici veicolandone i messaggi attraverso la traduzione dei dialoghi.]]
, vorrei soffermarmi su aspetti architettonici della civitas turca: sui suoi centri nevralgici, sulla trasformazione vissuta a partire dagli anni ’30 del secolo scorso e sull’analisi contrastiva con i luoghi che invece appartengono ai territori dei vicini fratelli occidentali.
Civitas o villaggio?
L’uso del termine latino appare non calzante se modellato sul contesto turco. L’ inappropriatezza terminologica non sarebbe un’accusa illegittima, dal momento che il concetto autentico di civitas è molto distante dall’origine rurale di una città come Ankara (Angora).
La capitale che ora accoglie quasi quattro milioni di abitanti, non era che un deserto di steppe alternate a montagne, luogo ideale per l’allevamento ovino e per la pastorizia in generale
[[Passeggiando oggi per le strade della capitale turca, non si può non far caso a quanta mancanza di “concentricità” ci sia. I moduli delle strade si estendono tutti in lunghezza e altezza, rincorrendosi tra dossi naturali creati dai sottostanti dislivelli di terra]].
Nessun centro era presente, nessun foro dove esercitarsi nelle declamazioni oratorie, nessuna tribuna per le consultazioni senatoriali e nessun palazzo istituzionale dove registrare l’anagrafe dei neonati.
A questo proposito è utile ricordare che in alcune zone della Turchia orientale le nascite restano ancora “fuori controllo” istituzionale a causa della distanza esistente tra le abitazioni del villaggio e i centri urbani più grandi forniti di ospedali: pertanto, al neonato in casa si attribuisce una data generica di nascita, ovvero il primo gennaio dell’anno in corso o dell’anno seguente. Tale sfasamento cronologico, se da una parte potrebbe creare confusione, dall’altro ci informa univocamente della provenienza rurale del cittadino turco in questione
Non per questo le forme di aggregazione devono immaginarsi più blande: al contrario, seppur in modalità seminomade, l’attività pastorizia trascinava dietro sé gruppi familiari in numero consistente, che si tramandavano segreti e trucchi del mestiere di generazione in generazione e che vivevano l’alternarsi delle stagioni a stretto contatto davanti al fuoco e nei kahvehane.
In turco corrisponde al nostro retro bar; un luogo riservato agli uomini dove generalmente si gioca a carte, a tavla (la nostra dama), si bevono alcolici e si fuma.
L’organizzazione del villaggio ricorda quella che, se mi si consente un volo funambolico, era e (in rari casi ancora è) la cosiddetta “Comune”: risorse materiali in comune, auto sostentamento comune, messa in comune, infine, di savoir et savoir faire femminili e maschili senza esclusione di sorta.
Con la rivoluzione kemaliana
[[Prende il nome dal fondatore della moderna Repubblica turca, Mustafa Kemal Atatürk.]]
degli anni ’20-’30, si fa impellente una riqualificazione logistica dei “palazzi” del potere repubblicano, capace di archiviare definitivamente ogni retaggio ottomano: un nuovo parlamento, nuove università, nuovi campi di addestramento per l’esercito, nuovi centri di propulsione culturale. Quindi civitates fornite di servizi ai cittadini e alla popolazione tutta, che si raggomitola non più concentricamente in baraccopoli, ma si unisce linearmente sotto i tetti condominiali da una civitas all’altra.
Luoghi rappresentativi delle città sono naturalmente la moschea, il bazar, l’hamam e i palazzi del nuovo potere. Su “scala” turca prima e su “scala” italiana poi, mi pare possibile mettere in fila gli aspetti peculiari di alcuni tra questi, sedi di scambio di merci di ogni natura e preziosissime cartine tornasole per decifrare approcci politici, culturali, religiosi e sociali.
Il bazar:
al mercato confluiscono sia articoli a “kilometro zero” sia merci provenienti da paesi lontani. È per antonomasia il punto di arrivo dei processi di import/export e il capolinea di un trasporto trifasico: nave- porto- banco. Dall’abbondanza o dalla scarsità sui banchi di esposizione di varietà delle merci si può leggere lo stato di salute della città. Dalla presenza di prodotti tipici stagionali, alternati a primizie e ad articoli esotici, si misurano tendenze e relativi processi di inglobazione nel made in Turkey.
Anche il fenomeno del plurilinguismo va marcato: generalmente la popolazione turca, esclusa quella residente nelle città costiere, non conosce nessuna lingua straniera. Il bazar diventa, in questo senso, anche fucina di una lingua spuria e opaca, ma non per questo meno bella, a metà tra l’inglese turistico e l’inglese commerciale, entrambi giustificati dalla necessità di vendere a prezzi maggiorati allo straniero. Centro della contrattazione, richiede al curioso che vi si addentra uno sforzo fisico e un’attenzione costanti.
Si tratta sicuramente di una vera e propria “istituzione” democratica: vi accedono i ricchi, i benestanti, la fascia impiegatizia e i meno abbienti. In qualità di sede degli scambi di denaro, perdura su di essa l’alone della corruzione e dell’illecito. La sua collocazione nello spazio urbano è vasta: all’interno e all’esterno della città, sicuramente all’aperto. Luogo di aggregazione sociale.
L’hamam:
Luogo di separazione, in prima istanza, dei sessi: alle donne è concessa un’ala indipendente, uno spazio che diventa invalicabile per gli uomini
[[Anche il pulsante di chiamata del taxi è collocato all’interno degli spazi dell’hamam, in modo da non costringere la donna a “uscire allo scoperto” una volta finito il lavaggio.]].
Nasce notoriamente “nel tempo dei Paşa” con un intento di purificazione e di preparazione alle attività quotidiane (la preghiera inclusa), per connotarsi in seguito anche di altre sfumature, non meno “catartiche”.
La prima è quella di banco di prova per le future nuore: le donne-matrone in cerca di aspiranti mogli per i loro figli osservano e commentano le ragazze che sfilano loro davanti, approfittando pragmaticamente anche della leggerezza dei copricostumi che lasciano intravedere le forme fisiche. L’aggiornamento sulle unioni matrimoniali tra appartenenti allo stesso ceto sociale risulta doveroso: pertanto l’hamam diventa una piazza a tinte rosa e dall’assetto matriarcale. Il women power trova degno sfogo: come api operarie, si lavora insieme per la gestione dell’alveare.
Sono donne la proprietaria, la responsabile delle bevande, le massaggiatrici, le giovani in apprendistato, le addette alla pulizia, la cassiera. Non si può scappare inosservate dalla circolarità del palazzo: perfino il velo viene dismesso e i capelli vengono allo scoperto, anche se soltanto per una pausa di due ore.
Coniuga la funzione del bar e il servizio continuo di thé, gassose e sigarette a quella di istituto per la normalizzazione dei comportamenti. L’ape regina, con le altre anziane del gruppo, si occupa di rettificare i modi di fare delle giovani, ritenuti eventualmente poco consoni alla filosofia del circolo. Come mettere in atto tale operazione educativa?
Con l’isolamento punitivo dal gruppo e la rintegrazione premiante. Gli indirizzi dell’hamam ci conducono sempre al cuore della città turca, nella parte che ancora resiste alle costruzioni moderne di hotel extra lusso e Spa che promuovono, sotto lo stesso nome, tutt’altra esperienza sensoriale. Luogo di unioni e disunioni.
Il barbiere:
Da quello famoso di Siviglia a quelli storici romani o napoletani, il barbiere è per eccellenza luogo di “tagli” ad arte. Anche in Turchia. Nonostante il mercato globale tenti di uniformarlo e sottometterlo alle politiche dei centri commerciali con i saloni bellezza per entrambi i sessi, è ancora attivo nell’animo degli italiani il vezzo del passaggio dal barbiere storico, quello che taglia i capelli e fa la barba da generazioni.
Luogo di separazione dei sessi, resiste come servizio accessibile a tutti, dal contadino che arriva in città dalla campagna, all’uomo d’affari che lo mette in agenda come rituale tra un appuntamento e l’altro.
Vox populi narra che se si vuol essere informati sull’andamento di alcune situazioni rionali o paesane, non esiste luogo più adatto della sedia girevole del barbiere.
Tuttavia, pur confidando nella saggezza popolare, ritengo che ci sia qualcosa di più profondo in questa “istituzione” democratica: il barbiere è un moderatore acuto di interpretazioni sociali, esperto in scambio di nuove (nell’accezione di novità) politiche e di messaggi culturali che altrimenti morirebbero con la carta stampata dei settimanali che puntualmente si sfogliano facendo finta di storcere il naso.
Luogo di coesione e trasmissione di idee semplici. Quelle popolari, dal gusto forte perché vengono dalla bocca della gente comune che vota, che riempie i supermercati delle grandi catene, che va in chiesa la domenica e che decreta il successo o l’oblio di un libro e di una serie televisiva. La collocazione della bottega è generalmente al centro della città, nelle strade più frequentate.
Il centro commerciale:
vera creatura globale a 360°, oggetto di studio da parte di quasi tutti i settori disciplinari: dalla psicologia all’economia, dall’ingegneria alla grafica pubblicitaria. La frequentazione di questo tempio dei servizi ha il potere di farci sentire cittadini del mondo, molto più di quanto riesca a farlo, ahimé, la visione di un rischioso sbarco sulla luna o il ponte sul Bosforo che collega geograficamente, in pochi chilometri navigabili, i confini europei a quelli asiatici.
Generalmente “piazzato” alle uscite autostradali delle metropoli europee, in Turchia lo si trova a sovrastare sia le antenne delle parabole delle abitazioni, sia i minareti delle moschee, lungo una via crucis percorribile dal “centro” della città fino ai periferici quartieri-satelliti.
Nonostante le poche eccezioni architettonicamente accettabili, tra cui il Vulcano Buono disegnato da Renzo Piano e collocato nell’entroterra campano
[[Il famoso architetto ha firmato il progetto di un centro commerciale “a impatto zero”: l’aim era quello di mimetizzare una struttura imponente come quella del centro commerciale, necessariamente di cemento, nell’ambiente naturale scelto dalla Regione: infatti, a prima vista, è difficile scorgere nella montagna le pareti e le vetrate dell’edificio che riproducono, alludendo al vicino Vesuvio, una struttura concentrica con un cratere.]],
l’impatto che la massa di cemento ha sul territorio urbano è chiaramente peggiorativo, se non devastante. Sicuramente riprende l’idea antica del bazar, proponendo però al cliente non più prodotti simili, frutto di braccia agricole diverse; ma prodotti uguali sfornati in serie da brand in franchising diversi.
Effetto bomba: la donna media turca compra le lenzuola con la firma inglese
[[Ai primi posti nella produzione artigianale della Turchia, si trovano le stoffe e i tessuti. Fonte: www.e-turchia.com/Economia-html]]
pagandole a prezzi maggiorati rispetto alle equivalenti fatte in casa (sua), senza nemmeno bisogno dell’inglese maccheronico riscontrato nella contrattazione nel bazar. In un ribaltamento dei ruoli, l’acquirente turca diventa straniera per la commessa (turca anche lei), stipendiata a sua volta dallo straniero occidentale. Coesione
multiglobale
[[Ad indagar a fondo, in realtà, molte marche hanno di occidentale soltanto il nome, poiché prodotte da mani e macchinari turchi.]]?
La concentricità dei palazzi dello shopping si sviluppa in piani generalmente coperti che offrono riparo alla clientela almeno 14h su 24h, quasi il doppio di una giornata media lavorativa. La forza che regna dentro ha sicuramente matrice centrifuga: a differenza di quello che succede in una vera piazza, le attività sono tutte concentrate ai lati con la conseguente dispersione di energie e con tutta una serie di stratagemmi messi in atto sapientemente dai maghi del settore vendite.
Nella pubblicità di un noto centro spesa italiano, colpisce il seguente “attacco” linguistico:“Qui da noi si celebra la vita sotto il segno della convivialità e dello stare insieme!”. Il messaggio appare a presa direttissima: trasformiamo la vostra necessità di spesa in un momento di aggregazione e di allontanamento dalla condizione di solitudine da esorcizzare.
Questo spiegherebbe in parte l’apparente contraddizione che vede in tempi di crisi e di portafogli vuoti i parcheggi dei centri commerciali sempre pieni. Potrebbe essere meno ovvio il legame tra spesa e crisi, tra necessità di incontro con l’altro (seppur a pagamento) e necessità di spending control.
In sintesi, il centro commerciale, se da una parte si candida ad essere uno dei regni della democrazia (negozi per tutti i gusti e tutte le famiglie), dall’altro veicola modelli che non ci appartengono e che minano tradizione e cultura autoctona, costanti invece in ogni processo aggregante.
La piazza:
Ultima fermata in ambiente tipico italiano. Costituisce la bellezza diffusa delle nostre città, capolinea in entrata e uscita dei mezzi di trasporto urbani. Mercato, banca, chiesa, bar-tabacchi, palazzo comunale orbitano intorno allo spazio-piazza e circoscrivono gli accessi alle strade secondarie.
È il cuore pulsante da cui presero il via le marce e le parate militari; la voce dei nostri politici e dei nostri papi si è diffusa nelle arterie secondarie della città dai balconi della piazza. Proprio per la sua importanza, è stata luogo di elezione per attentati terroristici (vedi strage di Piazza Fontana).
Posizionandoci nel mezzo, all’altezza dell’immancabile fontana, ci viene fatto un regalo raro: la condivisione di un moto centripeto, di un’atmosfera plurima, corale. La piazza è sede di scontri e contestazioni pro e contro; è il luogo deputato alle processioni religiose, si fa scenario per le rappresentazioni folkoristiche, ci accoglie gratuitamente nel nostro diritto a manifestare, a manifestarci. La piazza è un luogo usato dall’ altro e proprio per questo ha più valore.
Per chi ha voglia di osservare bene, è fonte di informazioni sull’origine dei nuclei familiari che l’hanno abitata nel corso dei secoli. Nella toponomastica delle iscrizioni su targhe sono incisi dati storici che fanno luce su vicende uniche, da scoprire per il bene comune.
Collocata generalmente nella parte alta della civitas, è estremamente democratica nella rappresentazione di tutti gli ingredienti di coesione civile e sociale: dall’artigiano al salumiere, dal fabbro al pittore, dal vecchio che bivacca al sole della sua magra pensione al giovane venditore di oggetti made in China ambulante in tutto.
La piazza è maschio e femmina. La piazza è bianca e nera. E un po’ anche rossa.
Se il bazar trova il suo doppio moderno nel centro commerciale; se il rituale dell’hamam turco può lontanamente rivivere nel rasoio del barbiere, la Piazza è ancora una roccaforte che nessuna produzione seriale, né da est né da ovest, è riuscita a espugnarci. Per fortuna.
Rosa Chiara Vitolo
Università di Ankara