La necessità istintiva di tracciare segni, di manipolare materie per comporle in una forma, in una immagine é stata un’attività che da sempre lo ha accompagnato. Senza mai farne veramente una professione, nella inconfessata convinzione che “cosa vuoi che importi ciò che importa solo a se stessi?”
Dopo un lungo peregrinare é approdato, per il momento, alla realizzazione di disegni di grande formato. ( Il disegno: mezzo espressivo che implica il meno di mediazione possibile tra il sentire e la traduzione/concretizzazione di un pensiero ).
Disegni in cui Labirinti di linee/percorsi a volte danno vita ad immagini codificabili, ma più spesso si perdono in un errare senza cammino.
In una Scrittura muta, come segno di cancellazione, quasi a voler dimenticare i fiumi di parole che fanno il rumore del mondo, che esprime l’impossibilità e l’mpotenza di un racconto possibile e la persistenza di un vuoto di memoria. …
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Amo la pittura, ma non me ne intendo : m’intendo piuttosto (se questa parola, intendersi, a un senso) di letteratura e di religioni antiche, di cui sono studioso. Per questo, credo, amo il lavoro di Lino Cringoli, che ho conosciuto per via della sua arte, e che attraverso quella ho imparato ad apprezzare, in profondità. Perché in profondità, e spesso al di là delle sue intenzioni – com’è proprio dei veri artisti – Cringoli mi riporta in territori a me cari, trasfigurati in immagini fortemente evocatrici, e come ridotte all’osso, quasi a voler cogliere la realtà nel suo farsi primordiale, o anche, prima del suo essere la realtà quale noi la conosciamo : le frontiere, la frontiera, la traccia, il labirinto, la memoria, la scrittura.
Tuttavia, questa ricerca degli « archetipi », per usare una parola cara all’artista (a me verrebbe piuttosto di dire : schegge, frammenti, briciole…), al di là della sua pretesa purezza, primordialità, si porta dentro tutto il senso sofferto della nostra storia collettiva, quella di noi « Occidentali » : esiste dietro, dentro le linee essenziali tracciate da Cringoli, una trama dissimulata di itinerari, una sorta di « chassés croisés » di forme e contenuti, per cui l’eredità mitologica antica è sopravvissuta, ha continuato, trasformandosi attraverso il Medio-Evo, il Rinascimento, giù giù sino a noi, oggi, sino a lui. Esiste, ma scompare, resta solo come eco, sensazione, in chi si soffermi a guardare queste opere apparentemente spoglie – ed è questa sobrietà, questa ricchezza « dimenticata » ma presente, una delle caratteristiche che più apprezzo, in questo artista. (Chi abbia la fortuna, come me, di accedere al laboratorio di questo artista discreto potrà, del resto, rendersi conto di quanto ampia sia la sua esplorazione di temi iconografici diversi, insieme alla complessità della sua biblioteca)
Per altro (ed è questo per me un altro elemento, fondamentale, di bontà artistica, e di grazia), non c’è nulla di intellettualistico nella pittura di Lino Cringoli, perché la sua ricerca « sapiente » è, in senso forte, esperita in prima persona, come incrociandosi, nutrendosi con la sua storia individuale, e sempre consapevole della propria « inermità » – noi ne vediamo emergere il nitido velo esterno, la sua composta geometria apparentemente statica, frutto di un lavoro minuzioso, ossessivo di eliminazione, pulitura, ma anche sentiamo che quella costruzione è fragile, un nulla potrebbe incresparla, addirittura farla crollare. Mi sono venute in mente, e ho riletto, le parole con cui Ulrich Raulff conclude le sue osservazioni su Il rituale del serpente, di Aby Warburg (i cui echi non a caso è possibile ritrovare qui e là nell’arte di Cringoli) : « La conquista dei simboli e la precarietà di tale vittoria: questo il dramma terribile di fronte al quale ci pone Warburg, in un testo in cui lo sfondo autobiografico è ancora ben presente » ; e viene anche da pensare a Ernesto De Martino, al Mondo magico, e ai lavori d’etnologia sul meridione italiano. (Associazione di immagini e di letture : la prima volta che mi sono trovato di fronte ai « viluppi » di Lino, ho pensato a Cnosso, al Minotauro, ma anche a Laoconte e alle mura rese vane di Troia, o ancora alla demartiniana terra del rimorso, con la danza rituale dei tarantolati, e ad alcune immagini proprie degli indiani Pueblo del Nordamerica, descritte appunto da Warburg…).
E forse, più che di un generico vissuto individuale, dovrei parlare, più esplicitamente, di un’originale avventura di emigrazione, simile e diversa a quella di tanti di noi. (Anche mi è venuto da pensare di fronte a questi quadri, e ho sentito un fremito, che Lino ed io fossimo approdati, partendo da da punti di vista diversi, allo stesso spazio). Le linee sono anche, soprattutto, frontiere, percorsi : ma non da innalzare, patriotticamente (come per affermare la superiorità delle une sulle altre), bensì da confondere, disperdere, o ancora muovercisi dentro, plasticamente, passando dall’una all’altra (così come ogni giorno passiamo dall’italiano al francese, perché jongler fra le lingue fa parte della nostra realtà quotidiana, e oramai ci piace, non ne possiamo fare a meno). Partire, insomma, sarebbe estraniamento dal proprio luogo, ma anche fuga dal proprio buco nero, o ancora tentativo di tracciare un proprio percorso, evocare un mondo possibile. Quasi che sempre, e comunque, su questa terra, fossimo tutti emigrati, immigrati, e tutti i percorsi « labirinti … che a volte danno vita ad immagini codificabili, ma più spesso si perdono in un errare senza cammino. Scrittura muta che esprime l’impossibilità e l’mpotenza di un racconto possibile e la persistenza di un vuoto di memoria ». (Rubo qui a Lino alcune delle sue rare e tanto più preziose parole).
Lasciare una traccia, in questo senso (che è a mio modo di vedere il « senso » di Lino Cringoli), ha un senso in sé, proprio perché ci aiuta a vedere la vanità di quella in quanto traccia, come le orme di passi sulla sabbia che il mare in continuazione lava via : ci aiuta a riconciliarci con la storia dell’umanità tutta, sin dall’inizio, ci riporta all’origine. Ci aiuta a raccoglierci in noi stessi, nel nostro essere « umani ».
Questa assolutezza quasi metafisica, tuttavia, non significa rinnegare la specificità del proprio, individuale, percorso, dello spazio da cui si è partiti : significa semplicemente affermarne la pudica privatezza, che non dà diritti, mais qui marque à jamais e che per questo, scheletricamente, geometricamente, può restituirsi come struttura universale. Così più che di patria dovremmo forse parlare di Heimat, luogo di memoria, che per Lino è, struggentemente, inequivocabilmente, il Gargano. Cioè, per chi non lo conosce e lo ritrova solo nelle forme dipinte da lui: uno zikkurat, una piramide, una sorta di Ararat sperduto in un orizzonte che non ha fine…
A questo penso innanzitutto se devo cercare di « spiegare » con parole cosa mi dà, cosa mi ha dato la pittura di Lino Cringoli, e quel che di lui, della sua visione del mondo, di mondi, son riuscito a grattare dietro le sue tele. Ma poi, lo confesso, ho l’impressione che le parole non riescano a dire, arrivino sempre dopo, sopra. Dietro. Come, dentro la serie Z.D.A, alcune immagini (le mie preferite) in cui, a sfondo di un groviglio di linee, anche a evocazione di danza, di corpi, qualcosa formicola, ed avviciniamo il naso – ed eccole, le parole : tante, fitte, minute, come una pioggia, non più per quel che d’altro significano, ma per il loro essere segni, come se fossimo risaliti al momento in cui, forse per regalo divino, gli uomini cominciarono a giocare con le parole, e poi a scriverle.
Meglio mi sembra, allora, semplicemente, suggerire di andare a scovare questo artista raro, che abita fra le Puglie e Parigi, nelle troppo rare esposizioni che fa del suo lavoro – cominciando almeno – questo si puo’ fare subito – ad afferrare la traccia sottile disponibile nel mondo virtuale : http://cringoli.free.fr. E da lì viaggiare, fuori e dentro se stessi,, per arrivare lontano.
Giuseppe A. Samonà
Lino è un uomo di poche parole.
Ad indicare la direzione dei suoi pensieri ci pensano i suoi capelli, una massa energica e compatta, ultima testimonianza di una chissà quale gorgona felice che forse un tempo abito’ il suo corpo. Nessuno è mai riuscito a varcare la soglia di quella massa, in ogni caso, nessuno è mai riuscito a tornare in dietro, per raccontare.
Una cosa pero’ è certa: la dentro c’è VITA. Tanta.
Lino è un uomo di poche parole.
Ad indicare la direzione dei suoi pensieri ci pensa il fumo delle sue sigarette, meduse galleggianti che ti vengono a cercare per condurti in un mare senza acqua, ma cosi’ grande.
Lino è un uomo di poche parole.
Ad indicare la direzione dei suoi pensieri ci pensano le sue opere, kilometri di parole senza lettere, che non hanno bisogno di una lingua per raccontare, perchè quella lingua è il SEGNO, che di volta in volta si fa’ traccia, si fa forma, si fa storia.
Cosi’, quando le architetture del disegno incontrano quelle della memoria nascono i labirinti di Lino, carte geografiche dell’anima, che tracciano la via per un viaggio senza tempo, verso città invisibili, che non hai mai visto altrove, città sedotte e abbandonate dalle antiche lusinghe di un’era gloriosa, che riaffiorano ora in superfice come su un negativo. Per sua stessa ammissione, i labirinti di Lino a volte danno vita ad immagini codificabili, ma più spesso si perdono in un errare senza cammino. Scrittura muta che esprime l’impossibilità e l’impotenza di un racconto possibile; racconto che cerca un supporto, e il supporto di Lino è fatto di carta. Carta marrone che sembra legno, sul quale le tracce del tempo s’inchiodano, il tempo di un ricordo, ma poi ripartono veloci e si fanno segno. Forme del tempo, direbbe Georges Kluber che ci aiuta a capire come la storia delle cose (la storia delle forme), sia strettamente collegata alla nostra interpretazione rispetto allo spazio, alla storia, al momento in cui facciamo una scoperta e, in quale modo questa diventerà esperienza utile per la nostra vita.
« Supponiamo che il nostro concetto di arte possa essere esteso a comprendere, oltre alle tante cose belle poetiche ed inutili di questo mondo, tutti i manufatti umani in genere, dagli strumenti di lavoro alle scritture. Accettare questo significa far coincidere l’universo delle cose fatte dall’uomo con la storia dell’arte, con la immediata e conseguente necessità di formulare una nuova linea di interpretazione nello studio di queste stesse cose ».
E per fortuna Lino è un uomo di poche parole.
Barbara Musetti
Links: Villa Cernigliaro – Lino Cringoli.
Il a toujours ressenti la nécessité instinctive de tracer des signes, de manipuler des matériaux pour en faire une forme, donner vie à une image, sans en faire toutefois une vraie profession, car il a la conviction inconfessée que “quelle importance peut avoir ce qui n’importe qu’à soi-même”.
_ Après de longues périgrinations, il a abouti, pour le moment, à la réalisation de dessins de grand format (Le dessin : moyen expressif qui implique le moins de médiation possible entre le ressenti et la traduction/concrétisation d’une pensée).
Dessins dans lesquels des labyrinthes de lignes / parcours créent parfois des images codifiables, mais le plus souvent se perdent dans l’errance.
Ecriture muette, telle un signe d’effacement, comme pour oublier les fleuves de mots qui constituent le bruit du monde, qui exprime l’impossibilité et l’impuissance d’un récit possible, et la persistance d’un vide de mémoire…
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J’aime la peinture, mais je ne m’y connais pas : je m’y connais plutôt (si tant est que ce mot ait un sens) en littérature et en religions anciennes, domaines dont je suis spécialiste. C’est, je crois la raison pour laquelle j’aime le travail de Lino Cringoli, que j’ai connu par son art et appris à apprécier en profondeur à travers son art. Car en profondeur, et souvent au-delà de ses intentions – comme cela arrive avec les vrais artistes – Cringoli me ramène vers des territoires qui me sont chers, transfigurés en images fortement évocatrices et réduites à une épure, comme si elles voulaient saisir la réalité dans sa genèse primordiale, ou même, la réalité telle que nous la connaissons avant même qu’elle ne soit : les frontières, la frontière, la trace, le labyrinthe, la mémoire, l’écriture.
Toutefois, cette recherche des « archétypes », pour user d’un mot cher à l’artiste (j’aurais plutôt envie de dire éclats, fragments, miettes…), au-delà de la pureté, de la « primordialité » qu’elle revendique, plonge à l’intérieur du sens de notre histoire collective, à nous autres « Occidentaux » : il existe, derrière les lignes tracées par Cringoli, en elles, une trame secrète d’itinéraires, une sorte de chassé-croisé de formes et de contenus, dans lesquels l’héritage mythologique de l’Antiquité a survécu, s’est prolongé, en se transformant à travers le Moyen-Age et la Renaissance, jusqu’à maintenant, jusqu’à nous, jusqu’à lui. Cette trame existe, mais disparaît, et comme un écho, comme une sensation, demeure en celui qui prend le temps de regarder ces œuvres apparemment dépouillées – et cette sobriété, cette richesse « oubliée » mais présente, est une des caractéristiques que j’apprécie le plus chez cet artiste. (Qui aura, comme moi, la chance de pénétrer dans l’atelier de ce peintre discret pourra voir à quel point son exploration de thèmes iconographiques variés est vaste, et découvrira en même temps l’ampleur et la complexité de sa bibliothèque)
Par ailleurs (et c’est pour moi un autre élément, fondamental, de la valeur artistique et de la grâce), il n’y a rien de cérébral dans la peinture de Lino Cringoli, parce que sa recherche « savante » est expérimentée, au sens fort, à la première personne, comme si elle s’entrecroisait avec l’histoire individuelle de l’artiste, s’en nourrissait, toujours consciente de sa propre fragilité – ce que nous en voyons émerger, c’est la limpidité du voile extérieur, composition géométrique apparemment statique, fruit d’un travail d’élimination, de purification, minutieux, presque obsessionnel, mais nous sentons aussi que cette construction est frêle, un rien pourrait la froisser, la faire s’effondrer. Les mots par lesquels Ulrich Raulff conclut ses remarques sur Le rituel du serpent, d’Aby Warburg, me sont venus à l’esprit, et je les ai relus (ce n’est pas un hasard si on peut en retrouver les échos ça et là dans l’œuvre de Cringoli) : « la conquête des symboles et la précarité de la victoire : tel est le drame terrible auquel nous confronte Warburg, dans un texte où l’arrière-plan autobiographique est encore bien présent » ; on pense aussi à De Martino, au Monde magique, et aux travaux d’ethnologie sur l’Italie méridionale. (Association d’images et de lectures : la première fois que je me suis trouvé face aux « dédales » de Lino, j’ai pensé à Cnossos, au Minotaure, mais aussi à Laocoon et aux murs devenus vains de Troie, ou encore à la terre du remords demartinienne, avec la danse rituelle des « piqués par la tarentule » et à certaines images propres aux Indiens Pueblo de l’Amérique du Nord décrites justement par Warburg…)
Et peut-être, plutôt que d’un vécu individuel en général, devrais-je parler, plus explicitement, d’une aventure originale d’émigration, semblable à celle qu’ont vécue beaucoup d’entre nous, et en même temps différente. (Devant ces tableaux, j’ai aussi pensé, avec un frémissement, que Lino et moi, à partir de points de vue différents, nous avions abordé sur un même espace). Les lignes sont aussi et surtout des frontières, des parcours : non pas à brandir de manière patriotique (comme pour affirmer la supériorité des unes sur les autres), mais au contraire à fondre ensemble, à estomper, pour se mouvoir à l’intérieur, souplement, en passant de l’une à l’autre (de la même façon que chaque jour, nous passons de l’italien au français, parce que jongler entre les langues fait partie de notre réalité quotidienne, et cela désormais nous plaît, c’est devenu comme une nécessité). Partir, en somme, ce serait s’éloigner de son lieu propre, mais aussi fuir de son propre trou noir, ou encore essayer de se tracer un parcours à soi, évoquer un monde possible. Comme si nous étions toujours en quelque façon des émigrés, des immigrés sur cette terre, et tous les itinéraires, les « labyrinthes… qui parfois engendrent des images codifiables, mais le plus souvent se perdent dans une errance sans issue. Ecriture muette, qui exprime l’impossibilité et l’impuissance d’un récit, et la persistance d’un vide de mémoire ».(Je vole ici à Lino quelques uns de ses propres mots, d’autant plus précieux qu’ils sont rares).
Laisser une trace, en ce sens (selon moi, c’est le « sens » où l’entend Lino Cringoli), a un sens en soi, parce que cela nous aide à percevoir la vanité de cette trace même, comme les empreintes de pas sur le sable que la mer efface continuellement : cela nous aide à nous réconcilier avec l’histoire de l’humanité tout entière, depuis ses débuts, et nous ramène à l’origine. Cela nous aide à nous rassembler en nous-mêmes, dans notre être humains.
Cet absolu métaphysique, toutefois, ne signifie pas que soit reniée la spécificité de l’itinéraire propre accompli par chacun depuis son point de départ : simplement, ce qui est affirmé par là est le caractère pudiquement privé de cet itinéraire, qui ne donne pas de droits, mais qui marque à jamais, et qui, pour cette raison, peut être rendu géométriquement, comme un squelette, sous la forme d’une structure universelle. Plus que de patrie, nous devrions peut-être parler de Heimat, lieu de mémoire, qui pour Lino est sans nul doute le Gargano. C’est-à-dire, pour qui ne le connaît pas et le découvre seulement à travers les formes peintes par l’artiste : un ziggourat, une pyramide, une sorte de mont Ararat perdu dans un horizon sans fin…
Voilà à quoi je pense, si je dois « expliquer » avec des mots ce que m’apporte, ce que m’a apporté la peinture de Lino ; voilà ce que je suis parvenu à mettre à jour de lui-même et de sa vision du monde, des mondes, en « grattant » derrière ses toiles. Mais j’ai l’impression, je l’avoue, que les mots n’arrivent pas à dire, qu’ils arrivent toujours après, se mettent dessus. À côté. Ainsi, dans certaines images (celles que je préfère) de la série Z.D.A, sur fond d’un enchevêtrement de lignes, évoquant aussi une danse, des corps, on voit fourmiller quelque chose, et on s’approche – et les voici, les mots : nombreux, serrés, fins comme une pluie, dans leur être-signes, c’est comme si on remontait au moment où les hommes – ce fut peut-être un cadeau des dieux – commencèrent à jouer avec les mots, puis à les écrire.
Mieux vaut alors, tout simplement, me semble-t-il, partir directement à la découverte de cet artiste rare qui vit entre les Pouilles et Paris, et expose trop rarement son travail, en commençant – cela peut se faire sur-le-champ – par la trace légère qu’on en trouve dans le monde virtuel : http://cringoli.free.fr. Et puis voyager, à l’intérieur et à l’extérieur de soi-même, pour arriver très loin.
Giuseppe A. Samonà
Trad. Sophie Jankélévitch
Lino est un homme peu loquace.
A nous indiquer la direction de ses pensées, ce sont ses cheveux, une masse énergique et compacte, dernier témoignage de je ne sais quelle gorgone heureuse qui peut-être un jour habita son corps. Personne n’a jamais réussi à passer le seuil de cette masse chevelue, du moins personne n’en est revenu, pour raconter.
Une certitude toutefois : là-dedans, il y a de la vie. Tant de vie.
Lino est un homme peu loquace.
A nous indiquer la direction de ses pensées, ce sont les volutes de fumée de ses cigarettes, méduses flottantes qui viennent nous chercher pour nous emmener dans une mer sans eau, mais si vaste.
Lino est un homme peu loquace.
A nous indiquer la direction de ses pensées, ce sont ses œuvres, kilomètres de mots sans lettres, qui n’ont pas besoin d’une langue pour raconter, car cette langue c’est le signe, qui tantôt se fait trace, forme, histoire.
Ainsi, lorsque les architectures du dessin rencontrent celles de la mémoire, voilà que naissent les labyrinthes de Lino, cartes géographies de l’âme qui tracent le chemin d’un voyage où le temps n’existe pas, vers des villes invisibles que nul n’a vues ailleurs, villes séduites et abandonnées, restes illusoires et antiques d’une ère glorieuse, qui affleurent à nouveau aujourd’hui en surface comme sur un négatif. Lino lui-même l’admet, ses labyrinthes donnent parfois vie à des images codifiables, mais le plus souvent se perdent dans l’errance. Ecriture muette qui exprime l’impossibilité et l’impuissance d’un possible récit ; récit qui cherche un support et le support de Lino est fait de papier. Papier marron qui semble du bois, sur lequel se cluent les traces du temps, le temps d’un souvenir, et puis disparaissent rapidement et se font signe. Formes du temps, dirait Georges Kluber qui nous aide à comprendre de quelle manière l’histoire des choses (l’histoire des formes) est étroitement liée à notre interprétation de l’espace, de l’histoire, de l’instant même où nous faisons une découverte, et comment celle-ci deviendra une expérience utile pour notre vie.
« Supposons que notre conception de l’art puisse être étendue jusqu’à englober, au-delà des choses belles, poétiques et utiles de ce monde, tous les objets humains manufacturés, des instruments de travail aux différentes formes d’écritures.
Accepter cette idée signifie faire coïncider l’univers des choses faites par l’homme et l’histoire de l’art, avec comme implication immédiate la nécessité de formuler une ligne nouvelle d’interprétation de l’étude de ces mêmes choses. »
Dieu merci, Lino est un homme peu loquace.
Barbara Musetti
Trad. Michèle.Gesbert
Links: Villa Cernigliaro–Lino Cringoli.