Monticchio (Basilicata) – Dal periodo di Natale in poi, fino a tutto gennaio, le case coloniche, le ville di campagna attorno al Vulture, rivivono l’antico rituale del maiale. E’ cruento e doloroso, quanto essenziale ed aggregante.
I borghi di Monticchio, da Sgarroni a San Martino, si distinguono per la persistenza di questa come di altre tradizioni, qui più che altrove indelebili ed incontaminate. Come l’intera campagna attorno, che sembra in dissolvenza, evanescente in questo freddo periodo.
C’è odore d’inverno più pungente in questo luogo: neve ai bordi delle strade, un freddo frizzante nel borgo avvolto dalla nebbia, che pure lascia trasparire i profili lontani dell’Appennino campano. I colori cangianti conferiscono insolite aureole di sospensione, un anelito surreale. Ma esisterà davvero?
Esiste, esiste eccome. E’ qui che rimangono intatte le tradizioni prenatalizie, a partire dal profumo dei biscotti fatti in casa, della cucina in una commistione di sapori che si confondono nella memoria di marchigiani e aviglianesi, fra rioneresi e melfitani. Ma su tutto regna il rituale sacrificale del maiale ucciso. E’ questo il periodo in cui ci si ritrova insieme per scambiarsi la fatica dell’immolazione. Quel sacro animale che viene sacrificato in nome della sopravvivenza degli uomini. Non c’è nucleo familiare che in questo luogo non aderisca a questo rituale antropologico.
Lande di campagna che si rivestono della scenografia ideale per un teatro senza tempo, che aspira alla preghiera, alla bontà dei sapori, specie a Natale.
Un luogo irreale ma pur vero. Palpitante e fumoso come i camini delle case. Quel fumo avvolgerà le lunghe serpentine di salsicce, le luganiche (come le chiamano nel nord) e i prosciutti e il lardo appesi per lunghe settimane. E poi la sugna, e lo zampone, e il fegato, e il sangue. Nulla viene scartato dell’animale perfetto.
“Siamo forse i soli a conservare la tradizione, almeno in quest’angolo del Vulture. A Rionero a Melfi a Rapolla a Barile non credo si usi ancora ammazzare il maiale, almeno nei centri abitati”.
Lo asserisce Francesco, classe 1920, tenace ed austero che sa ancora maneggiare a mestiere lo “scannaturo”, il micidiale coltello da piantare alla gola, per quel gesto terribile e necessario. “E’ l’odore del sangue che tiene nel terrore l’altro maiale cui toccherà la stessa fine”, ci dice non senza sconforto Giovanni, suo figlio, quasi sessant’anni di vita all’aria aperta con mucche e cavalli.
Non sembra vero che persone così schiette, miti e dolci parlino con una tale semplicità di come ammazzare un essere vivente, maiale o agnello o pollo o coniglio che sia. Persone che non ucciderebbero una mosca, che pure esprimono bontà in ogni gesto. Eppure, in questo periodo diventano i sacerdoti inevitabili di un rituale antico come l’uomo, che si perde nella notte dei tempi, per festeggiare il Natale o l’anno nuovo, fra una bottiglia di aglianico ed una preghiera.
Monticchio
Sprigiona una mistica particolare questo luogo, Monticchio, che pure in questo periodo appare evanescente, etereo; e il rituale si deve consumare, ad ogni costo. Lo vuole la tradizione forse prima ancora che la misura della sopravvivenza. Un quadretto di Levi, o una scena da
«L’albero degli zoccoli», eppure la cultura popolare alberga con grazia in questi luoghi. Quei sacerdoti tramandati effondono profumi antichi, quasi come incenso, a ricordarci (per un’antinomia) – con Nikos Kazantzakis di aver cura degli animali perché sono uomini di un tempo remoto.
Ogni gesto si proroga conforme alla misura del proprio tempo, dello spazio e delle stagioni. Ora è inverno a Monticchio, fra il Vulture che svetta all’orizzonte e sulle nebbie i profili montuosi dell’Irpinia.
Armando Lostaglio